Discorso
tenuto alla DOZZA, Bologna, il 16 marzo 2014
Evangelii Gaudium: Una regola francescana
per l’evangelizzazione
di Raniero La Valle
Papa
Francesco ci ha avvertito: non bisogna fare l’esaltazione del Papa. Lo ha detto
nell’intervista al direttore del Corriere
della Sera (5 marzo 2014): non mi piace “una certa mitologia di papa
Francesco; Sigmund Freud diceva, se non
sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione”.
Questa
lucidità del Papa è impressionante: in effetti l’esaltazione incondizionata è
un ingrediente della ideologia sacrificale, che finisce nel capro espiatorio. Questa
è una cosa che ha spiegato René Girard, l’antropologo che ha letto il Vangelo
come lo smascheramento dell’ideologia del sacrificio: nella esaltazione e nel
rito di incoronazione del re, come nell’acclamazione del messia, c’è un
omicidio differito, c’è la preparazione della vittima. Il Papa, che ha avviato
un difficile e contrastato processo di riforma della Chiesa, lo sa; in certi
ambienti, come già accadde a papa Giovanni, egli è oggetto di una sorda
ostilità; Giuliano Ferrara, parlando insieme ad altri e anche per molti che
tacciono, ha addirittura scritto un libro: “Questo Papa piace troppo”. A loro
invece non piace e ne farebbero volentieri a meno. E la ragione è che questo
Papa non vuole “lasciare le cose come stanno”, come ha scritto nella Evangelii Gaudium (al n. 25); in modo più preciso, due cose egli non vuole
lasciare come stanno: una è la Chiesa, che, così come stava, non produce
Vangelo, ma carrierismi, malinconie, facce da funerale, cattive finanze e
anche, nei seminari, “piccoli mostri”, come ha spiegato ai Superiori generali (Civiltà Cattolica, 3 gennaio 2014); e
l’altra è il mondo che, così come sta, è in ginocchio davanti al denaro,
produce morte ed esclusione e ribalta il precetto universale dell’amore nell’ideologia
dell’indifferenza.
Non bilanci
Quindi non si
deve fare nessuna esaltazione incondizionata del Papa; ma neppure si possono
fare già dei bilanci, dopo il primo anno di pontificato, perché in realtà
questo pontificato ancora non si è rivelato. Come dice la Dei
Verbum del Concilio, al n. 2, l’ “economia della
Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi”, quindi bisogna
guardare agli eventi e alle parole che rivelano il senso di questo pontificato;
però è ancora troppo presto, di parole ce ne sono già molte ma di eventi ce ne
sono ancora troppo pochi; in questo senso il pontificato di Francesco deve
andare ancora a regime.
Molte e
straordinarie in effetti sono le parole, tutte di grande valore perché non sono
altro che la parola di Dio che in Francesco incessantemente risuona; questo è
stato chiaro fin dall’inizio, quando il discorso di inaugurazione del
pontificato fu in realtà un’omelia sul vangelo del giorno, quando egli scelse
di abitare a Santa Marta, cosa che gli permette di commentare ogni mattina il
vangelo ai fedeli, quando recita ogni domenica l’Angelus a partire dalle
letture del giorno. Anche gli eventi in realtà sono stati straordinari –
Lampedusa, il viaggio in Brasile, la veglia di preghiera per la pace con la Siria, il consiglio degli
otto cardinali, il questionario per il Sinodo mandato a tutti – ma i fatti più
importanti ancora devono venire, non è ancora tempo di tirare le somme.
Non previsioni
Dunque non
ancora bilanci, ma nemmeno si possono fare previsioni: non si sa come sarà
riformata la Curia, se sarà mantenuto lo IOR, se sarà data la comunione ai
divorziati risposati, se cambierà il Sinodo dei vescovi in senso veramente
collegiale. Che cosa saranno i futuri atti di governo dipende da molti fattori:
molto dipenderà anche dall’atteggiamento degli altri, dalle Curie, dagli
avvenimenti con cui il Papa si dovrà misurare, e dall’ispirazione divina che egli
potrà avere. Per esempio è dipeso da un’ispirazione che come tema del prossimo
Sinodo dei vescovi sia stata scelta la famiglia; lo ha raccontato il Papa al
direttore del Corriere della Sera: “Tre
mesi dopo la mia elezione – ha detto - mi sono stati sottoposti i temi per il
Sinodo, si è proposto di discutere su quale fosse l’apporto di Gesù all’uomo
contemporaneo. Ma alla fine con passaggi graduali — che per me sono stati segni
della volontà di Dio — si è scelto di discutere della famiglia che attraversa
una crisi molto seria”.
Un presagio
Se non si
possono fare bilanci e previsioni, si può però avere un presagio. E il presagio
che si è potuto trarre dalla comparsa di Francesco, è che molte cose
cambieranno nello stato della fede e anche potrebbero cambiare nello stato del
mondo. È come il presagio che ebbe il santo vecchio Simeone quando accolse Gesù
presentato nel tempio (Luca, 2, 25). Finalmente
poteva andarsene in pace perché ciò che aveva aspettato era venuto. Certo il Papa
non è il messia, e noi non siamo né Anna né Simeone, però come allora l’attesa
della salvezza si sciolse nel presagio che ci sarebbe stato un cambiamento
profondo nella storia della fede e nella storia di Israele, così anche noi
possiamo ora dire il “nunc dimittis”;
infatti, dopo che per cinquant’anni abbiamo vissuto aspettando che si
realizzassero le promesse del Concilio, ora, proprio quando quelle speranze
sembravano sconfitte, possiamo cominciare a intravedere che attraverso
Francesco il Concilio riprenderà il suo corso, e che i nostri figli potranno
vedere la consolazione della Chiesa.
La Chiesa chiusa nel Cenacolo
Non sono
stati facili i cinquant’anni trascorsi dal Concilio. Era a partire da lì che il
grande cambiamento sarebbe dovuto avvenire. Ma la Chiesa ha avuto paura dello
Spirito ed ha chiuso le porte del cenacolo. Solo due cose hanno rotto il
catenaccio e dal Concilio sono passate nella vita della Chiesa. Una è la liturgia. Come ha
detto papa Francesco nell’intervista alla Civiltà
Cattolica (19 settembre 2013), “il lavoro della riforma liturgica è stato
un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione
storica concreta”. Essa ha messo in atto una “dinamica di lettura del Vangelo
attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio” e che “è assolutamente
irreversibile”. L’altra cosa che è passata è proprio la Bibbia che è stata rimessa
al centro della Chiesa; e nella Chiesa essa è stata riletta non al modo del fondamentalismo,
che secondo la
Pontificia Commissione biblica invita a un “suicidio del
pensiero” (15 aprile 1993), ma in un modo vitale e storico-critico che già ha
cambiato molte vite. Questo dunque va bene, liturgia e Bibbia sono passate. Ma
non c’è stata dopo il Concilio la riforma del papato, condizione per la riforma
della Chiesa, non la collegialità, non un vero ecumenismo, e soprattutto non si
è capito qual era il vero cambiamento che era l’obiettivo del Concilio.
Il vero cambiamento del Concilio
Il vero
cambiamento voluto dal Concilio non lo si deve andare a cercare nell’uno o
nell’altro dei sedici documenti conciliari, ma piuttosto nel discorso
inaugurale di papa Giovanni, “Gaudet
Mater Ecclesia” che ne indicava l’obiettivo fondamentale. Il cambiamento decisivo
doveva essere quello dell’ermeneutica della fede, della reinterpretazione della
fede; e a questo scopo il Concilio stesso si poneva come un grande evento
ermeneutico della fede. Occorreva che i contenuti della fede venissero
esplorati ed espressi nelle forme e secondo la cultura degli uomini del nostro
tempo. La Chiesa
doveva spogliarsi delle forme in cui era stato incapsulato e talvolta frainteso
l’annuncio, e farsi raggiungere, come se venisse fatto oggi, dall’invito di
Gesù ad ammaestrare e trarre discepoli da tutte le genti, e farlo in modo per
loro comprensibile e amico. E ciò si doveva fare “nel modo che i nostri tempi
richiedono”.
Ora,
questa formula, “come i nostri tempi richiedono”[1], è una
formula larghissima, che nel testo ufficiale latino è addirittura più aperta e coraggiosa di
quella che c’era nel testo originale italiano del discorso di Giovanni XXIII. Si
è fatta una polemica sulla differenza tra italiano e latino, intendendo che il
latino fosse riduttivo rispetto all’originale italiano, ma non è così. Nel
discorso di papa Giovanni c’era scritto che l’autentica dottrina doveva essere
studiata ed esposta “attraverso le forme dell’indagine e della formulazione
letteraria del pensiero moderno”; dunque c’era l’idea
di una distinzione tra la dottrina, che rimane immutata, e il suo rivestimento
letterario, che è storicamente mutevole, e che doveva ora cambiare; il testo
latino non è affatto più arretrato, anzi c'è
l’idea che la dottrina stessa dovesse essere ulteriormente investigata - “pervestigetur” - e che
le sue verità dovessero essere enunciate nel
modo che i nostri tempi richiedono; il rapporto stabilito dal testo latino non
è dunque tra la verità e il suo rivestimento, che in qualche modo
le rimane sovrapposto ed estraneo, ma tra la verità e la sua enunciazione, dove
l’enunciazione è il modo stesso di esistere e di comunicarsi della verità;
l’enunciazione quale richiesta dai tempi non è un rivestimento, un
vestito aggiunto, è la verità in quanto si comunica in
modo nuovo. Tutto ciò vuol dire che il fine pastorale del
Concilio non significava affatto una sua presunta sterilizzazione teologica, ma
voleva dire che il Concilio si giocava tutto sul rapporto tra la fede ricevuta
e la sua rilettura e trasmissione nelle condizioni
dell’oggi.
Per
questo si può affermare che l’intero Concilio Ecumenico Vaticano II è stato l’opera
attraverso cui la fede è stata rivisitata ed enunciata, in modo che venisse
trasmessa agli uomini di oggi nel modo che i nostri tempi richiedono; il Concilio dunque come un
evento della fede.
Però
per cinquant’anni abbiamo aspettato invano che questo avvenisse. Piuttosto che
investigare e annunciare la novità, la Chiesa ha spesso preferito mettere nel
silenzio pezzi importanti delle sue dottrine sia in sede teologica che morale,
dal peccato originale alla morale sessuale, come se la soluzione pastorale non
fosse quella di dire parole nuove, ma di tacere le parole vecchie o, peggio,
ribadirle, ormai sterili, senza convinzione.
Papa Francesco fa quello che voleva il
Concilio
Ed ecco
che è proprio questo invece che papa Francesco si è messo a fare: rivisitare e
innovare l’annuncio di fede. Ha cominciato subito, fin dal primo Angelus alla
finestra di San Pietro, a dire
che Dio è solo misericordia, e perdona sempre. E questo spiega il consenso
scatenatosi attorno a lui: non perché è un Papa simpatico, anche altri Papi lo
erano, ma perché dice delle cose nuove, parla di un Dio che prima non era stato
predicato e compreso così. Quali ne saranno le conseguenze? Karl
Rahner, a quindici anni dalla fine del Vaticano II aveva detto che al Concilio
era avvenuto
qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente “sia nell’annunciatore –
cioè nella Chiesa - che nell’annuncio”. Se ora questo cambiamento dell’annuncio da parte di
papa Francesco diverrà anche cambiamento dell’annunciatore, non possiamo
saperlo. Per esempio vorrà dire l’eucarestia ai divorziati risposati? Vorrà
dire il superamento della distinzione per essenza, e non solo per grado, tra
preti e laici? Vorrà dire che le donne potranno esercitare un ministero
ordinato? Vorrà dire che il Sinodo diventi un organo di decisione collegiale
permanente? Vedremo.
Ma intanto abbiamo un
programma di quello che papa Francesco
vuole fare. Ed appunto è la Evangelii Gaudium. Non
è un documento come gli altri, scrive Francesco (n. 25), e non è neanche
un’omelia. Qui il genere letterario è diverso. Questo è un atto di governo. Non
è un’esortazione, anche se così è stata chiamata. Non è una spiegazione del
Vangelo come quelle di Santa Marta. E’ una
Regola. È la regola francescana (nel senso di papa Francesco) dell’annuncio del
Vangelo oggi; la regola tratta dal Vangelo dei modi in cui il Vangelo può oggi
essere predicato e annunciato a tutte le creature.
Dunque si tratta del Vangelo
da trasmettere. Il Vangelo non vuole dire una legge, una morale, una
spiritualità, una gestione del sacro. Vuol dire una notizia. Il contenuto di
questa notizia è Dio. Il contenuto della notizia data da Gesù è il Padre. Una
religione che si occupasse di mille bellissime cose, ma non si occupasse di
Dio, sarebbe mostruosa, e infatti le Chiese, quando dimenticano Dio, producono
mostri. L’annuncio è Dio, non il teismo. Non l’esistenza di una forza arcana,
di un’energia vitale, di un principio astratto che non ha nome di persona, ma è
l’annuncio di un Tu, di un Dio. Perciò l’annuncio del Dio rivelato da Gesù è
necessariamente l’annuncio anche di Gesù, l’annuncio che Gesù fa di se stesso.
Perchè lui è la sembianza del Padre. Il Padre nessuno l’ha mai visto, il Figlio
invece l’abbiamo visto e, se abbiamo occhi per vederlo, ancora lo vediamo. Il
Papa cerca di farcelo vedere.
Per farcelo vedere egli fa
proprie due acquisizioni essenziali del Concilio: una è quella della “gerarchia
delle verità”, contro l’ossessione della “trasmissione disarticolata di una
moltitudine di dottrine” (n. 35), e questa gerarchia delle verità, con al
culmine l’amore di Dio, il Papa la applica anche alle questioni morali,
affermando che insegnamenti morali fuori contesto, identificandosi con aspetti
secondari, occultano il cuore del messaggio di Gesù (n. 34); allora “l’edificio morale della Chiesa corre il
rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior
pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il Vangelo ciò che si annuncia,
ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni
ideologiche. Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di
non avere più ‘il profumo del Vangelo’ ”(n. 39). E l’altra acquisizione del Concilio è quella del
pluralismo, attraverso cui si manifesta la “libertà inafferrabile della Parola”
(n. 22) e si costruisce la pace col dialogo tra le religioni e le culture.
Il Dio annunciato da Francesco
Ma qual è la natura, qual è
l’operazione e qual è la ricaduta finale di questo Dio annunciato da Francesco?
La natura di Dio è la misericordia. La
misericordia non è quello che Dio fa, è quello che Dio è. Siamo noi che
facciamo opere di misericordia. Il Papa ha coniato un neologismo per dirlo: misericordiando, che traduce il miserando atque eligendo del suo motto
episcopale, che egli ha tratto da Beda il venerabile. Nell’intervista alla Civiltà Cattolica (del 19-9-2013) il
Papa ha spiegato che, commentando l’episodio evangelico della vocazione
di san Matteo, Beda il Venerabile ha scritto che Gesù, vedendo un pubblicano lo
guardò con amore (miserando) e lo scelse. Bergoglio ha tradotto quel “miserando” in “misericordiando”. Ci sono molti neologismi
nella parlata del papa. In questo caso Bergoglio ha usato le parole di Beda per
dire di essere stato scelto per fare misericordia, per misericordiare; questo è infatti ciò che dobbiamo fare noi. Ma Dio
non fa, Dio è misericordia. È per questo che la misericordia non entra in concorrenza
con la giustizia, non è messa sotto scacco da una giustizia di Dio intesa al
modo umano come retribuzione; c’è tutta una tradizione in questo senso, soprattutto
nella Chiesa orientale, ed è perciò che Isacco di Ninive dice che non c’è “un
inferno che possa rattristarci”; infatti la giustizia di Dio di cui parla la
Bibbia nel senso di retribuzione, “a paragone della sua misericordia“ è “come
un granello di polvere che non controbilancia un gran peso d’oro”. E papa
Francesco spiega che la misericordia di Dio è la pazienza, e che Dio non si
stanca mai di perdonarci (E. G. n. 3),
e dunque che la sua giustizia è il perdono: “per me, lo dico umilmente – ha
confessato in una sua omelia quaresimale nella parrocchia di Sant’Anna in
Vaticano (17 marzo 2013) - è il
messaggio più forte del Signore: la misericordia”.
Questa è la natura di Dio. C’è
poi l’operazione di Dio, di cui ci parla papa Francesco, ed è quello che Dio fa
per mezzo del Figlio: da un lato “il capolavoro della creazione”, che tiene in
piedi il mondo e che continua anche oggi (omelia a Santa Marta del 28 febbraio),
dall’altro la redenzione che “ha un significato sociale perché “Dio in Cristo,
non redime solamente le singole persone, ma anche le relazioni sociali tra gli
uomini”” (n. 178).
E infine c’è la ricaduta di
questa presenza di Dio, ed è la gioia. È la gioia del Vangelo, “Evangelii gaudium”.Questo è il
programma. Come sapete l’inno dell’Europa è l’inno alla gioia di Schiller, che
conclude la Nona sinfonia di Beethoven. Ma la gioia di cui parlano Schiller,
Beethoven e l’Europa è una dea, è la figlia dell’Eliso, è un idolo; e perciò la
gioia non la sa dare, e si vede infatti come sta la povera Europa. La
gioia di cui parlano i primi capitoli della Evangelii
Gaudium è invece la gioia della misericordia, del perdono e dell’operazione
di Dio.
E qui c’è il problema. Se il Vangelo è gioia, se Dio è gioia, c’è
contraddizione tra Vangelo e mondo, tra la condizione che Dio vuole per gli
uomini e la condizione in cui gli uomini stanno. Se l’annuncio cristiano fosse
la sofferenza, il dolore, il sacrificio, la punizione, l’espiazione, il debito
da pagare a un padrone esigente, come dicevano le collette della Messa di san Pio
V prima del Concilio, allora ci sarebbe omogeneità tra la fede dolorifica e il
mondo doloroso, e il mondo potrebbe restare così com’è; è proprio questo che Giuliano
Ferrara vorrebbe che restasse immutato. Se
invece l’annuncio è la gioia, c’è una contraddizione che va tolta, c’è un cambio da fare, come dicono i
latinoamericani.
Cambiare la Chiesa, cambiare il mondo?
Ma dove si
deve fare il cambiamento? Se il problema riguardasse solo la Chiesa, basterebbe
cambiare la Chiesa. In
questo caso l’ecclesiocentrismo andrebbe bene, la Chiesa potrebbe continuare a
pensare solo a se stessa. Ma è il mondo che non va bene, “questa economia
uccide”, dice la Evangelii Gaudium ; il
vero teatro delle operazioni non è la Chiesa, è il mondo. Gesù non è un
fondatore di Chiese, è il salvatore del mondo. E che fa il papa, si occupa
soprattutto della Chiesa, o si preoccupa del mondo? Questa è una bella domanda
da porre alla Evangelii Gaudium, e
dalla risposta a questa domanda si può capire quale Chiesa ha in mente papa
Bergoglio, di quale Chiesa egli si sente vescovo a Roma.
Ora, la Chiesa e il mondo, come ben sappiamo, sono
distinti, ma hanno una cosa in comune: ambedue sono chiamati “popolo di Dio”. Il
Concilio, come è noto, definisce la Chiesa come “popolo di Dio”, ma dice anche
che “l’unico popolo di Dio è universale”, l’umanità stessa è il popolo di Dio: “a
questa cattolica unità del popolo di Dio – dice la Lumen
Gentium al n. 13 - in vario modo appartengono o sono
ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza”. Ma
allora la Chiesa è un popolo tra altri popoli, un popolo rispetto al quale
tutti gli altri sono stranieri, come lo erano i Gentili per il popolo d’Israele,
o è parte di un solo popolo che abbraccia tutta la terra?
In
verità il passaggio da un solo popolo, che era Israele, all’umanità tutta è
avvenuto sulla croce; da lì, come diceva l’enciclica Mystici Corporis di Pio XII, sgorgarono i doni celesti “per la salvezza
degli uomini, e specialmente per i fedeli”, dove “i fedeli” sono un caso di
specie rispetto alla estensione universale dei
destinatari della salvezza. Il nuovo
popolo è dunque sia specialmente la
Chiesa dei fedeli, come dice ancora Pio XII citando la prima lettera a Timoteo,
4, 10 (“abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente che è il salvatore di tutti
gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono”) sia gli uomini tutti.
Nella “Evangelii
Gaudium” l’opzione di papa Francesco è chiaramente a favore di “un modo di
intendere la Chiesa” (n.111) che abbraccia tutti gli uomini. Intanto c’è
l’opzione preferenziale per i poveri, che sono scelti non perché battezzati, ma
perché prima di tutto “nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale” per loro (n.
197), e pertanto “esiste un vincolo
inseparabile tra la nostra fede e i poveri”(n. 48). Poi
c’è l’idea che essere Chiesa significa essere popolo di Dio, che “si incarna
nei popoli della terra” e perciò nella cultura di ciascuno, poiché “la cultura
comprende la totalità della vita di un popolo” (perciò il papa può dire che “la
grazia suppone la cultura”, e non solamente la natura come ci era stato
insegnato fin qui) (115). E infine c’è
la scelta di fare del paradigma missionario il criterio stesso di identità
della Chiesa: “Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca
ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni,
senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per
tutto il popolo, non può escludere nessuno” (n. 23). Il fatto che la Chiesa esca (l’ uscita è un tema ricorrente in
papa Francesco), non vuol dire che vada in terra straniera, ma che "trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale" (n. 111). La salvezza “che Dio realizza e che la
Chiesa gioiosamente annuncia è per tutti e Dio ha dato origine a una via per
unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi” (113). L’accento torna
sempre su “tutti”; questo è l’orizzonte imprescindibile. “Tutti”è una parola che ricorre 135 volte nella Evangelii Gaudium, e la cosa colpisce quando siamo reduci da una
discussione se nel canone si dovesse tradurre che Gesù aveva dato il suo sangue
“per molti” o “per tutti”.
Per questa ragione il papa precisa quali sono gli
ambiti dell’evangelizzazione: in primo luogo i fedeli ferventi, poi i cristiani
non praticanti, e infine “l’evangelizzazione è essenzialmente connessa con la
proclamazione del Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno
sempre rifiutato… Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I
cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi
impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia”; e qui Francesco
riprende un’espressione che era stata usata da Benedetto XVI ad Aparecida nel
maggio 2007: “La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”” (n.
14).
Nella intervista a Scalfari (1-10-2013) a proposito
del proselitismo egli si era spinto anche più in là, quando aveva bollato il
proselitismo come “una solenne sciocchezza”. Perché una sciocchezza? Qui c’è forse una
chiave per capire il modo in cui Francesco intende la Chiesa. Se la Chiesa è
coestensiva con l’umanità, se il popolo di Dio è uno solo, il proselitismo non
ha senso perché esso implica un passaggio da un popolo a un altro popolo; chi è
attratto nella Chiesa invece non cambia popolo, non cambia cittadinanza, non passa
da una patria all’altra, resta nell’umanità che è la patria di Dio.
E come papa Francesco non faccia distinzioni tra
popoli cristiani e non cristiani, si è visto nella passione con cui, tra i
primissimi impegni del suo pontificato, egli ha difeso la causa della Siria,
dove di “popolo di Dio” nel senso dell’appartenenza alla Chiesa cattolica ce
n’è molto poco. Certo, si può dire che la causa in gioco era quella universale
della pace, però con la veglia, i discorsi, l’azione diplomatica, la lettera a
Putin e al G8, l’intervento alla conferenza di Ginevra, papa Francesco ha
mostrato una sollecitudine per questo Paese musulmano che forse non ci si
sarebbe aspettata nemmeno per la Francia, la figlia primogenita della Chiesa.
Le sfide del mondo attuale
Ma se c’è questa trasversalità
tra Chiesa e mondo, il mondo non va osservato con occhi diversi da quelli con
cui si guarda la Chiesa.
Per questo, nell’affrontare “alcune sfide del mondo attuale”,
il Papa dice nel suo documento che per capire con che cosa abbiamo a che fare,
non basta uno sguardo sociologico, ci vuole un “discernimento evangelico”. E
col discernimento evangelico Francesco vede che il mondo è in una situazione di
sofferenza e di massimo pericolo, in una situazione ancora più grave di quella
che, come sappiamo, era stata vista e
giudicata da Marx. Non solo c’è il capitale che domina tutto e fa la società a
sua immagine e somiglianza. Papa Francesco non lo chiama capitale, lo chiama
denaro, ma è la stessa cosa; e dice che c’è una “dittatura di una economia
senza volto e senza uno scopo veramente umano” (n. 55), c’è un’usurpazione da
parte del denaro, perché il denaro dovrebbe servire e non governare (n.58). Ma
poi dice che non c’è solo sfruttamento e oppressione, come è stato denunziato fin
qui, c’è qualcosa di nuovo, c’è un’altra violenza ancora maggiore, e questa
violenza è l’esclusione e «con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa
radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non
si sta nei bassifondi, nelle periferie, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli
esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”». E afferma che con la stessa
forza con cui proclamiamo il non uccidere
«oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”». Inequità è uno dei neologismi introdotti
da Francesco, e traduce lo spagnolo “inequidad”.
“Questa economia uccide – grida il papa - Non è possibile che non faccia
notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada,
mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può
più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è
inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più
forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa
situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza
lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita» (E.G. n.53).
Né si può
pensare che le cose si mettano a posto da sé, come vorrebbe l’assioma ideologico
del liberismo; infatti il Papa respinge «le teorie della “ricaduta favorevole”,
che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato,
riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo.
Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia
grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e
nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli
esclusi continuano ad aspettare» (n. 54). Ad aspettare invano che la mano del
mercato faccia il miracolo dell’equità.
Quali i soggetti della liberazione?
Ma se così stanno le cose, dopo la lettura della Evangelii Gaudium, a noi resta una
domanda.
Quali sono i
soggetti della liberazione?
I soggetti
della liberazione, come sappiamo, sono principalmente le vittime; storicamente
abbiamo visto quante volte gli sfruttati ed oppressi sono riusciti a liberarsi.
Ma il problema denunziato dal Papa è che nella società globale di oggi le
vittime del sistema non sono solo sfruttate ed oppresse, sono escluse. In
quanto escluse non possono combattere contro lo sfruttamento e l’oppressione. Non ci sono. Se gli operai sono esclusi come
esuberi, se i loro sindacati sono esclusi dalla fabbrica, se i loro
rappresentanti sono esclusi dal Parlamento, se gli immigrati sono accettati
solo come naufraghi, tutti questi non possono combattere per la loro
liberazione. Questa è la crisi della politica: o ci pensa Renzi a restituire 80
euro ai poveracci, oppure non c’è niente da fare. Certo, le vittime e gli
esclusi godono dell’alleanza con Dio perché Dio è uno di loro, sulla croce con
Gesù ci è salito anche lui. Ma Dio non può accorrere con le sue schiere per
liberarli, perché il suo regno non è di questo mondo. Invece il nostro regno è di
questo mondo e siamo noi che dobbiamo liberarlo.
Certo, questo
è compito della politica, e il Papa non c’entra. Però come abbiamo visto, il
popolo di Dio è lo stesso, nella Chiesa e nel mondo. E noi che come Chiesa
siamo popolo di Dio, sulla terra siamo un popolo sovrano. E allora noi dobbiamo
usare la nostra sovranità per rovesciare dalle loro sedi i potenti che
escludono i poveri, e lottare contro la loro esclusione, in modo che insieme agli
esclusi possiamo combattere per la comune liberazione.
Sapendo una
cosa importante. Che se noi lottiamo contro l’esclusione, non combattiamo solo
per un fine politico o economico-sociale estraneo alle finalità religiose, ma
combattiamo per la stessa finalità che Dio ha perseguito con l’incarnazione del
Figlio; infatti con l’incarnazione Dio ha rifiutato la distinzione tra eletti
ed esclusi, ha tolto di mezzo e inchiodato alla croce il documento
dell’esclusione e ha incluso nella sua alleanza non più solo un popolo ma tutti.
E questa mi pare la fede e nello stesso tempo la politica di papa Francesco, e
deve essere la fede e la politica anche nostra. Ciò vuol dire che, finita
l’epoca del clericalismo, si può tornare a parlare della politica come di un
impegno anche esplicitamente cristiano, dove prioritaria è la carità, e vuol
dire che i cristiani devono tornare, con tutti gli uomini, alla politica nello
stesso tempo in cui rinnovano la loro fede.
[1] “Ea ratione quam tempora postulant nostra”.
Per ascoltare l'audio del discorso:
http://www.famigliedellavisitazione.it/wp/wp-content/uploads/Parrocchie/Giovedi%20della%20Dozza/sessione%20quaresimale2014/Evangelii_Gaudium-RanieroLaValle-Dozza-16mar14%2898%29.mp3
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