Come sarebbe la nuova Costituzione
C’è un dato di apparente
incomprensibilità nel fatto che mentre s’infiamma la situazione del mondo (da
Gaza al progetto di Califfato islamico, dalla Siria all’Ucraina) e mentre la
catastrofe economico-sociale italiana esplode nella insopportabile cifra di 6
milioni di poveri, pari al 10 per cento della popolazione, la lotta politica è
scatenata sull’abolizione del Senato e la sostituzione del “Porcellum” con un
“Porcellum” aggravato.
Il governo dice che se non
facciamo subito queste riforme l’Europa si inalbera e la crisi economica
peggiorerà, ma l’Europa non sa nemmeno che noi abbiamo due Camere né mai se ne
è data il minimo pensiero; per contro la disoccupazione continuerà a devastare famiglie
e giovani, neolaureati ed esuberi, cittadini e immigrati anche se i senatori
senza più Senato invece dell’indennità
prenderanno la pensione e se alla Camera invece di sette od otto partiti
ce ne saranno solo due, e magari uno.
Sembra un paradosso e invece non
lo è; non è mai vero che quello che succede in politica sia del tutto
incomprensibile e privo di ragioni. Del resto qualche sprazzo di verità
talvolta perfora la coltre della disinformazione in cui sono avvolti i mezzi di
informazione. In questo caso il guizzo di verità è venuto fuori al Senato
all’inizio della discussione in aula sulle riforme costituzionali, quando il
senatore Calderoli, autore del “Porcellum” e coautore della precedente riforma
costituzionale tentata da Berlusconi ha detto, beffardo, che avergli dato
l’incarico di relatore sulla riforma renziana è stato come mettere una pistola
in mano a un “serial killer”. Il sottinteso era che il soggetto da abbattere
fosse la Costituzione, e del resto non c’era niente da nascondere perché se la
Lega ha come suo programma di spiantare l’Italia, certo non può essere pensata
come paladina delle migliori riforme e fortune della sua Costituzione.
Non più limiti e contrappesi al potere
Dunque quello che succede si può
capire. Si capisce come sia in corso in Italia, che è l’anello più debole delle
democrazie avanzate, un esperimento che se riesce potrà diventare normativo per
tutta l’economia globalizzata; esso dice che il gioco delle garanzie e dei
limiti imposti al potere - di cui è stata fatta finora la storia della
democrazia - è finito, e che ora si restituisce al potere autonomia, decisione,
rapidità e potenza; se aumenta la povertà devono aumentare i poteri per
governarla; la sovranità popolare, i sindacati, gli scioperi, i diritti, la libera
scelta dei parlamentari andavano bene quando c’erano le dogane e l’economia e
la finanza stavano nello spazio degli Stati, cioè della comunità politica, ma
ora si fa sul serio, l’economia è salita sul tetto del mondo, domina le
frontiere, si è avocata la sovranità, ha dato lo scettro al denaro e ai suoi
derivati, ai suoi sacerdoti e ministri. E ora essa si fa le sue Costituzioni,
di cui l’ultima in dirittura d’arrivo è il Trattato Transatlantico sul
commercio e gli investimenti che fa delle imprese i nuovi Principati che possono chiamare in giudizio gli Stati e
avere ragione contro di loro.
Questo processo in Italia era in
atto da tempo, quale che fosse il governo, consapevole o inconsapevole che ne
fosse. Berlusconi non fu capace di portarlo a termine, era troppo distratto da
altre cose; per fare questi cambiamenti
ci vuole passione, forza giovanile e una certa arroganza. In ogni caso, però, la partita non è giunta al
termine, c’è ancora tempo per prendere altre strade.
Anche per questo è importante
vedere i dettagli della riforma in corso (aggiornati al 15 luglio) per capire
come sarebbe l’ordinamento politico che ne risulterebbe.
Che ne sarà del Senato
Il Senato, che per concessione
innocua continuerebbe a chiamarsi Senato della Repubblica e non Senato delle
Autonomie, si avvierebbe verso l’atrofia, se non verso il ripostiglio degli
Enti inutili, come il CNEL, giustamente abolito. Non sarà eletto a suffragio
universale e diretto, il che può risultare assai grave quando il Senato
partecipi alle revisioni costituzionali, concorra con la Camera alla
legislazione ordinaria, contribuisca all’elezione del Presidente della
Repubblica, della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della
Magistratura.
Il Senato sarà formato da 100
membri: 5 saranno nominati dal Presidente della Repubblica (finiti i senatori a
vita, gli altri lo saranno per sette anni); 21 sindaci e 74 presidenti di
giunta o consiglieri regionali saranno eletti dai Consigli regionali. Essi
seguiranno le sorti degli Enti territoriali da cui provengono, sicché il Senato
non sarebbe mai rinnovato tutto insieme, ma con avvicendamento dei singoli
membri, man mano che i senatori decadranno dalla loro carica originaria. Essi
non sarebbero pagati (questa sarebbe, secondo Renzi, la nobile ragione per cui
i senatori “ribelli” si oppongono alla riforma), ma avrebbero lo stipendio
dagli Enti di provenienza. Tuttavia, pur pagati da loro, sindaci presidenti di
giunta o consiglieri regionali non
potrebbero più fare niente per le loro istituzioni territoriali. Se infatti si
dovesse prendere in parola che entro
cinque giorni il Senato potrebbe chiedere di esaminare determinate leggi
approvate dalla Camera, e in 15 giorni modificarle, il Senato dovrebbe sedere
in permanenza e i suoi membri essere ogni settimana nella capitale. È
impensabile perciò che il sindaco di Milano o il presidente della Sicilia
possano venire a fare i senatori a Roma. Del resto non avrebbero nessun ruolo
in ordine alla fiducia al governo (e non solo non potrebbero concederla, ma nemmeno
revocarla; di fronte a un governo liberticida il Senato non potrebbe farci
niente), né potrebbero fare inchieste sulle emergenze del Paese, e nemmeno
interferire nella decisione sullo stato di guerra, che è di pertinenza del
primo ministro e della sua maggioranza alla Camera.
In sostanza la strada è segnata
non verso un bicameralismo imperfetto, ma verso la soppressione della seconda
Camera; e allora piuttosto che questo mediocre compromesso, sarebbe meglio così
e magari usare Palazzo Madama, come altra volta abbiamo proposto, per
insediarvi un Senato dei popoli.
Ma anche qui la ragione di tutto
questo non è difficile a trovarsi. Il bicameralismo non è un capriccio di
costituenti frenatori, è uno degli strumenti (e come strumento certamente
opinabile) del sistema delle garanzie, degli equilibri e della bilancia tra i
poteri, che è l’unico sistema finora escogitato per impedire l’esercizio
assoluto e incondizionato del potere; e questo il potere non lo gradisce.
La stessa funzione ha il rapporto
di fiducia tra Parlamento e governo; fiducia che non solo deve sussistere
all’atto della formazione del governo, ma deve anche essere revocabile,
altrimenti, di fronte a governi micidiali non resta che l’insurrezione
popolare. In proposito la “ratio”
della riforma è chiara: finché, nell’apparenza che nulla cambi, si debba
mantenere l’istituto della fiducia, è meglio che essa sia data da una Camera
sola, invece che da due; per una democrazia dimezzata meglio mezzo Parlamento
che un Parlamento intero.
Ciò fatto rimane da
assicurare la supremazia del governo
sulla Camera residua, e a ciò provvede sia una modifica costituzionale, sia la
legge elettorale.
La modifica costituzionale è
quella che elargisce al governo il potere di sottrarre le sue leggi a ogni
possibile cambiamento in sede di discussione parlamentare (gli “emendamenti”,
senza i quali non avrebbero senso dei legislatori in Parlamento, servono a
questo). Finora il governo aveva a disposizione l’arma della questione di
fiducia che, posta su un determinato testo legislativo, ne impediva qualsiasi
modifica. Nella nuova Costituzione a questo strumento si aggiungerebbe che il
governo potrebbe chiedere alla Camera di approvare entro sessanta giorni una
legge di suo particolare interesse e, scaduto inutilmente questo termine,
pretenderne il voto articolo per articolo senza alcun emendamento.
La legge elettorale per disboscare il sistema
Tuttavia il vero dominio del
governo e del suo capo sulla Camera residua sarebbe assicurato dalla legge
elettorale già approvata a Montecitorio ma non ancora dal Senato. Essa (salvo
ripensamenti fortemente sostenuti da Alfano, da cui pure dipende la vita del
governo), non prevede preferenze: i cittadini con la scelta dei parlamentari non
c’entrano; la famosa “casta” politica deve perpetuarsi per cooptazione. Inoltre
la legge tende a “decespugliare” il
campo politico, cioè a farne un deserto, nel quale, allo stato delle cose,
dovrebbero rimanere a svettare solo tre
partiti, il Democratico, Forza Italia e
Cinque Stelle. Ciò sarebbe ottenuto con gli sbarramenti: sotto il 12 per cento
nessuna coalizione prenderebbe seggi, sotto l’8 per cento nessun partito non
coalizzato prenderebbe seggi, sotto il 4,5 per cento nessun partito coalizzato
prenderebbe seggi, ma con i suoi voti concorrerebbe a far eleggere gli altri
della coalizione. Alla fine chi avesse il 37 per cento dei voti prenderebbe un
premio per arrivare ad avere il 55 per cento dei seggi, e se nessuno ci
arrivasse si andrebbe al ballottaggio tra i primi due, col premio per il vincitore
fino al 53 per cento. Si creerebbe così un sistema binario con due sole
coalizioni o partiti, diventati infine così omogenei tra loro, pur nella
competizione di potere, da far sì che sulle due rotaie del binario finirebbe
per passare un unico treno.
Una legge elettorale siffatta
servirebbe a dare una maggioranza assoluta al vincitore delle elezioni (secondo
lo slogan per il quale la sera del voto
si deve sapere chi governerà nei prossimi cinque anni); essa però certamente
non può essere considerata tale da assicurare una rappresentanza corrispondente
alla realtà politica del Paese. Quello che ne deriverebbe sarebbe un governo
del Primo ministro, come dai giuristi fascisti fu definito quello allestito da
Mussolini. Oggi certo non c’è nessun Mussolini; la cosa singolare è però che
mentre in genere sono i dittatori che si fanno un governo a loro misura, qui
c’è invece una democrazia che prepara un governo fatto su misura per un futuro
eventuale dittatore.
La riforma costituzionale incide
anche sugli strumenti di partecipazione, rendendone più difficile l’esercizio.
Le leggi di iniziativa popolare dovrebbero partire con 250.000 firme invece di
50.000, e i referendum abrogativi con 800.000 firme invece di 500.000.
Qualcosa di buono
C’è però anche qualcosa di buono.
Già dopo le prime 400.000 firme la Corte Costituzionale
si esprimerebbe sull’ammissibilità del quesito referendario; e perché il
referendum risulti valido, occorre che voti non la metà dell’elettorato, spesso
irraggiungibile come è stato finora, ma solo la metà degli elettori che hanno
votato per la Camera nelle precedenti elezioni politiche. Inoltre contro le
leggi che disciplinano l’elezione di deputati e senatori è ammesso, prima della
loro promulgazione, il ricorso alla Corte costituzionale per un giudizio
preventivo di legittimità costituzionale da parte di un terzo dei componenti di
una Camera. E ciò significa che riforme della Costituzione si possono fare non
solo per restringere, ma anche per allargare gli spazi della democrazia.
Raniero
La Valle
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