mercoledì 27 luglio 2016

L'EREDITÀ



 Discorso tenuto nel Palazzo dei Musei di Reggio Emilia per il tema di "Tonalestate" 2016, il 23 luglio 2016

di Raniero La Valle

Mi avete chiesto  - per presentare il tema di quest’anno dell’Incontro di “Tonalestate”, sul tema “Un mundo sin maňana (Un mondo senza domani) – un discorso su “l’eredità”. L'eredità è il dono gratuito che ci viene da chi è stato prima di noi, da chi ci ha amato per primo e ha preparato dei tesori per noi. Però è difficile parlare di eredità di fronte ai dieci morti di ieri della strage di Monaco di Baviera, a quelli del 14 luglio di Nizza, o dinnanzi agli sgozzati del Medio Oriente o alle migliaia di prigionieri nudi della repressione di Erdogan in Turchia. Non c’è nessun discorso che si possa fare se non rendendoci conto della situazione reale nella quale giorno dopo giorno viviamo e siamo.
E proprio a partire da qui vorrei dire allora che l’eredità più importante, quella che nemmeno con la morte ci sarà tolta, è l’eredità di Dio.
Nella cultura di oggi non si tratta più di un discorso condiviso. Ma tra credenti si può dire che da Dio abbiamo ricevuto tutto, non solo la vita, ma la terra i cieli l'acqua l'aria la musica la bellezza la santità e tutte le creature. Naturalmente possiamo far finta di niente o non tenerne conto (basta ricordare l'"intelligenza laica" di Quasimodo dinnanzi allo  stupore per lo sbarco dell'uomo sulla luna[1]) ma se ci accorgiamo della creazione ci rendiamo conto di essere eredi di una meraviglia. É un'eredità così bella che ne possiamo essere rapiti, e questo esserne rapiti si può risolvere in due modi: o ne siamo talmente avvinti ed invasi che l'unica risposta possibile è la contemplazione e il ringraziamento, e allora c'è una reazione di fuga: come lo stilita, che sale su una colonna, e sta lì, o il monaco del deserto che pensa solo a pregare, e così l'amore per le creature si rovescia in rinunzia alle creature, in fuga dal mondo, in una cattura della fine: è la via della mistica, dell'eremo come reclusione, della anticipazione apocalittica, dello spiritualismo estremo dei giansenisti, di Port Royal, di certo dossettismo, per cui tutto è grazia e l'operazione umana è niente. Oppure – e questo è il secondo modo - la meraviglia, la gratitudine e la lode delle creature prendono le forme di san Francesco, del Cantico delle creature, della Laudato sì di papa Francesco e allora attraverso l'amore di Dio si torna più radicalmente  al mondo, si viene all'umano, si prende l'odore delle pecore e degli altri animali, e ci si sporca le mani, e si lavano i piedi alle creature e la sfida, la scommessa è sulla dignità della terra e la sanabilità della storia. Dio è tutto, d'accordo, ma noi siamo il tutto di Dio, senza di noi Dio non sarebbe pensato da nessuno.
Questi sono due modi di accettare e gestire la stessa eredità, sono due modi opposti di raccontarsi come cristiani, secondo la logica dei due contrari; in mezzo ci sono tanti modi intermedi: perché questo è il bello dell'eredità di Dio, che ci lascia liberi, siamo noi a decidere che uso farne, lui non ci impone nessun modo di essere eredi. Però i modi non sono neutrali, indifferenti, fungibili. Non si tratta ora di dire quali sono i migliori, tra contemplare e fare, tra pregare e operare per la giustizia, tra eremo e impegno sociale: però si deve scegliere. E noi abbiamo un criterio di scelta nel gestire l'eredità di Dio; infatti l'apostolo ci dice: voi siete eredi di Dio e coeredi di Cristo (Romani. 8, 17). Cioè l'eredità di Dio va ricevuta e gestita al modo di Cristo: lui è il prototipo degli eredi, noi siamo coeredi con lui nelle modalità paradossali dell'unità, nella stessa nostra persona, di umano e divino. Ossia in Cristo noi siamo eredi dell’umanità e della divinità di Dio; questo significa essere a sua immagine e somiglianza.

Eredi diretti di Dio

Ciascuno di noi questa eredità di Dio la riceve in modo diretto. Dio non è il nostro antenato. Dio è il nostro Padre. Sono sbagliate quelle letture della storia della salvezza secondo cui prima c'era Dio, che regnava da solo; poi è venuto Adamo, poi Noè, poi sono venuti i Patriarchi, poi Mosè, poi David, poi Gesù e infine siamo venuti noi. In realtà nella storia della salvezza tutti gli uomini e tutti i popoli ci sono fin dal principio.
Il rapporto tra i due Testamenti non è di successione dell'uno all'altro, in una storia lineare, cronologicamente intesa, altrimenti il secondo Testamento abrogherebbe il primo; i due Testamenti sono invece sincroni, Cristo è coeterno al Padre, non possiamo rinunciare a Nicea, Cristo è prima di tutte le creature, il primo Adamo è lui, non il secondo[2], altrimenti gli Ebrei sarebbero i padri o i nonni della nostra fede, invece sono i nostri fratelli nella fede. Dio è nostro Padre, l'eredità  la riceviamo da lui, tutti, Ebrei e Gentili, cristiani e atei. E questa è una percezione che dobbiamo ristabilire, nel nostro dialogo ebraico-cristiano, come nel dialogo con tutte le religioni e tutte le culture. La misericordia di Dio l’abbiamo capita dopo, ma per tutti c’era fin dal principio.

La nostra eredità

Ma naturalmente non c'è solo l'eredità di Dio. C'è l'eredità che ci trasmettiamo tra di noi, di generazione in generazione, e dai figli ai figli dei figli, altrimenti, come dice il manifesto di "Tonale estate",  il mondo è senza domani. Perché se l'eredità si interrompe il mondo finisce.
Effettivamente possiamo fallire nel trattare e trasmettere l'eredità perché anche la nostra eredità ha questo di bello, che ci lascia liberi, possiamo accrescerla o ricusarla, e il testatore che ci ha lasciato l'eredità non può interferire sul modo in cui noi la usiamo.
Ed è bene che sia così perché non tutte le eredità sono buone. Ci sono delle eredità che andrebbero ricusate, o di cui bisognerebbe purificare la memoria, per evitare che il peso delle cose passate schiacci le cose presenti e precluda quelle future.
Diceva Gorbaciov, lo sfortunato leader sovietico, quando si trattava di cambiare il mondo dopo la fine dei blocchi, che bisognava impedire che i morti tenessero per mano i vivi, costringendoli a restare negli stessi errori. Non ci siamo riusciti: dopo la caduta del Muro, non siamo riusciti a non farci trattenere per mano dai morti, abbiamo fatto un mondo peggiore di quello della guerra fredda, abbiamo portato la finanza globale al potere, invece di fare l'Europa unita abbiamo fatto il capitalismo realizzato e con i Trattati europei l'abbiamo dotato di una Costituzione rigida. La risposta alla fine del comunismo è stata il fallimento peggiore del secolo. Dovremmo ricordare gli uomini e le donne protagonisti di allora, così impari alla svolta da fare: Bush e la destra americana, la Thatcher, Eltsin, Blair finito ora nell'ignominia del rapporto Chilcot, e in Italia Cossiga, Andreotti, Occhetto, De Michelis. Perciò con le eredità si possono fare dei guai.
Quando stava per finire il Novecento io ero assessore al Comune di Roma, e decidemmo di fare un convegno internazionale per vedere quali eredità dovessimo traghettare dal secondo al terzo millennio, e quali eredità invece ricusare e non portarsi dietro. Tra le eredità da ricusare naturalmente c'era la guerra, c'erano i genocidi, c'erano le dottrine politiche costruite sul criterio del nemico, c'era il mondo fatto sulla misura di pochi e gli altri lasciati come scarti. Tra le eredità invece da non perdere c'erano la Costituzione, il costituzionalismo, i diritti umani, l'eguaglianza, con l'impegno costituzionale di rimuovere le condizioni economiche e sociali che di fatto la impediscono, c’era da fare città aperte e solidali.
Le cose poi non sono andate come le avevamo pensate, è cominciata invece la guerra perpetua, gli eredi stanno facendo esattamente il contrario di quel sogno.
Perciò noi dobbiamo avere molta cura del passato. Non tutto il passato è buono, anche se, e non è poco, ci ha portato fin qui. Occorre un discernimento del passato e un lavacro della memoria. Bisognerebbe evitare che le vesti della memoria siano lavate nel sangue delle vittime, nel sangue dell'Agnello, come dice l'Apocalisse. La tragedia del Kosovo, che è stata capace di riportare dopo quattro decenni la guerra in Europa, è stata alimentata dalla cultura della "vendetta del sangue", che trasmette il dovere della vendetta di padre in figlio e ai figli dei figli; il genocidio degli Armeni non ha ancora trovato né pentimento né perdono e continua a spargere i suoi veleni, sicché dopo un secolo non si può nemmeno nominare, anche se a farlo è il papa, senza suscitare ire funeste - ed ora si è visto di quali ire efferate sia capace Erdogan - per non parlare della Shoà, dal cui tormento né Israele né il mondo sono ancora usciti, e che ancora cova i demoni della violenza e della guerra non solo in Medio Oriente ma sulla terra intera.
Perciò la memoria non può essere un semplice deposito nel quale il passato è accatastato e stipato a futura memoria. Il passato non deve essere solo oggetto di anamnesi, ma di conversione, di pentimento, di purificazione. Il rimosso non va semplicemente recuperato, al modo della psicoanalisi, ma va filtrato al vaglio della sapienza; non il vaglio usato dai farisei di cui parla il Vangelo, che filtravano il moscerino ma lasciavano passare il cammello (Mat. 23, 24) ma il vaglio delle vittime che invocano giustizia e narrano come Gerusalemme non abbia saputo capire ciò che giovava alla sua pace. Perciò dice Bonhoeffer, uno dei grandi maestri del Novecento, che non solo il futuro, ma anche il passato, lo dobbiamo ricevere dalle mani di Dio. Perché dalle mani di Dio lo riceviamo non grezzo, ma già lavorato, e così lo possiamo lavorare anche noi.
In tal modo potremo superare i rischi del passato, evitare che proietti la sua ombra sul nostro futuro, che gli trasmetta un bagaglio di rancori, di frustrazioni, di offese non lavate, di mali non perdonati. Occorre che il passato, pur rielaborato nel mito, non ci irretisca nella religione dell'identità, non ci imprigioni nell'epopea, non ci trafigga coi nostri vanti e le nostre rivalse (come fanno tutti i nazionalismi) ma ci renda liberi e ci proietti nelle cose nuove.
Fin dai tempi antichi, nonostante la perenne ripetizione, nel rito pasquale, della liberazione dall'Egitto, Isaia ci aveva ammonito: va bene l'uscita dall'Egitto, quando il Signore "fece uscire carri e cavalli esercito ed eroi a un tempo"; ma "essi giacciono morti mai più si rialzeranno..., sono  estinti. Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche, ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is. 43, 16-19); e negli ultimi tempi, e ora più che mai nella predicazione di papa Francesco, lo specifico cristiano che attraversa ma anche oltrepassa la memoria passionis è l'annuncio dello Spirito che ci guiderà a tutta la verità (Giov. 16, 13) e che ci abilita a pensare e a fare le cose future.
In tal modo la memoria diventa sovversiva, come dice la teologia politica, e come ha sperimentato in America Latina la teologia della liberazione e come dice una Chiesa che riapre il fascicolo del deposito della fede per “reinvestìgarlo ed esporlo in quel modo nuovo che i nostri tempi esigono”[3]; questo era il progetto del Concilio che ora viene ripreso e in tal modo il passato non fa più prigionieri ma libera per la storia da costruire e per l'escatologia a cui mirare.

L'eredità da lasciare  

Tutto questo va bene. Però non posso fermare qui il mio discorso sull'eredità. Perché se la domanda sull’eredità si fa a una persona di 85 anni, si parla di un’eredità prossima a essere lasciata. Dunque la domanda è anche personale. E qui il papa ci ha dato un insegnamento. Quando i ragazzi di Villa Nazaret, a Roma, il 18 giugno scorso, gli hanno chiesto se si fosse trovato mai in crisi con la sua fede, il papa ha risposto: ci vuole un bel coraggio a fare questa domanda al papa, è una domanda molto personale! E ha detto:  “io devo fare la scelta… O rispondo la verità, o faccio una telenovela che sia bella e via…”. E non si è tirato indietro, ha risposto con verità.
Dunque, per rispondere con verità dell’eredità che credo di lasciare, che è quella di un’intera generazione passata però attraverso il filtro della mia esperienza personale, dovrei parlare soprattutto di due eredità, quella politica e quella religiosa; ma qui parleremo solo della prima. Di quella religiosa, che è la più importante, diremo in un’altra occasione[4].

L’eredità politica

La mia eredità politica nasce da un’esperienza molto antica, fatta addirittura quando ero ancora un bambino. Non è stata come la prima esperienza politica che ha raccontato Giuseppe Dossetti ricordando gli anni della sua adolescenza. Dossetti, essendo nato nel 1913, il fascismo lo ha visto nascere. E in un discorso autobiografico tenuto il 17 marzo 1994 al clero di Pordenone, ha detto che aveva nove anni nei giorni della marcia su Roma e dell’avvento del fascismo.  E la sua impressione  fu subito “di una grande farsa accompagnata da una grande diseducazione del nostro Paese e del nostro popolo, e di un grande inganno; quindi – ha detto - ho acquisito una prima cosa (rimasta) ben ferma nella sopravvenuta maturazione della coscienza e nella riflessione su quegli eventi che la mia prima adolescenza aveva vissuto, una riflessione radicata nel profondo, un irriducibile antifascismo”[5].
Per me è stato diverso. Perché quando io sono nato, era il regime che aveva nove anni. Perciò da bambino, man mano che vedevo le cose, era naturale per me pensare che ci fosse il fascismo, che la scuola, la Chiesa, la politica fossero fasciste; perciò fui naturalmente “balilla”, non immaginavo affatto, né me lo poteva dire mio padre che era morto, che la politica potesse essere un’altra cosa, che potesse cambiare, che potesse non esserci il fascismo. La politica era come l’aveva pensata Aristotile, corrispondeva all’ordine del cosmo, era una manifestazione della natura, per lui il dominio  era “guidato dalla verità dell’epistéme”[6]; la politica perciò era come il destino, è così che si stava al mondo, viva il duce, il regime era lo Stato. Fu una rivelazione quando mi accorsi che si poteva essere antifascisti, che si poteva essere contro il duce, che con l’incoscienza di un bambino di undici  anni si poteva dire al professore di ginnastica: io non vengo all’adunata perché non sono fascista. E dopo la guerra, dopo il referendum tra monarchia e repubblica, a quindici anni, smisi anche di essere monarchico.
Questa è stata la prima grande lezione che ho acquisito e che posso lasciare in eredità. Prendere coscienza che la politica non ci è data come un destino, che non è affatto naturale che si sia governati come si è governati, che il regime politico, il regime economico, il regime culturale non sono dati di natura, da accettare come sono, ma sono decisi da noi, che non è vero che non c’è niente da fare, non è vero che i poteri sono insindacabili; invece  possiamo resistere, possiamo cambiarli. La politica non è un precipitato dall’alto, non è l’editto di poteri estranei e lontani, fosse pure il potere di Dio, tanto meno dell’Europa o della Banca Mondiale, la politica è nostra fattura.
La mia esperienza politica è stata poi sempre dominata dalla convinzione che si potesse e anche si dovesse cambiare, si potesse e dovesse cercare di cambiare.
All’Università entrai negli Organismi rappresentativi perché c’era da inventare la democrazia universitaria, che ancora non c’era (e forse non c’è più); dopo il Concilio, quando il voto dei cattolici era ancora prescritto dalla Chiesa come un articolo di fede, decidemmo di rompere l’unità politica dei cattolici nella Democrazia Cristiana; nel referendum del 1974, quando sembrava che fosse secondo natura che i cattolici votassero sì per l’abrogazione del divorzio, facemmo i “cattolici del No”; e quando davvero si rischiò l’ingovernabilità della democrazia e dello Stato a causa della contrapposizione estrema tra comunisti e anticomunisti, rompemmo il tabù presentandoci come cattolici indipendenti nelle liste comuniste; Paolo VI ne fu inorridito, anche perché il Sant’Uffizio si era dimenticato di togliere la scomunica a chi anche semplicemente leggesse l’Unità. Poi è finita che a Maglie, in Puglia, nel paese di Moro, hanno fatto il monumento ad Aldo Moro con l’Unità in tasca.
Poi è stato sempre così: non abbiamo creduto che fosse un destino, dopo la fine dei blocchi, riprendere l’uso della guerra, fosse pure presentata come guerra umanitaria; abbiamo fatto obiezione di coscienza alla Camera contro la guerra a Saddam Hussein; e come non abbiamo creduto che fosse un destino “morire democristiani”, così non abbiamo creduto che fosse un destino il governo di Berlusconi né che lo fosse la Costituzione di Lorenzago.
E perciò pensiamo che adesso sia del tutto legittimo che la gente voglia cambiare politica e padroni, che rifiuti di consegnarsi come suddita a Renzi, che non creda affatto a un partito che si chiama Democratico ma che pretende di avere un potere esclusivo e solitario e di rappresentare tutta la Nazione; perciò non ci scandalizziamo dei Cinque Stelle, pensiamo che sia del tutto legittimo che gli Inglesi escano dall’Unione Europea e che sia legittimo pensare che l’Europa non debba necessariamente essere l’Europa di Maastricht né debba essere l’Europa della tecnocrazia finanziaria fatta istituzione e regime.
Dunque la prima eredità è questa: non esiste un’ortodossia della politica, non esiste un politicamente corretto che non possa essere a sua volta corretto, la politica si cambia e con la politica si cambia la vita.
Il come cambiare però non fa parte del lascito ereditario, è il compito degli eredi: dovete vedervela voi.
La Costituzione come eredità  

L’altra nostra eredità politica è la Costituzione. Anche la Costituzione si può cambiare,  però qui nel lascito c’è un’aggiunta, perché nell’eredità è compresa anche una clausola sulle condizioni del cambiamento.
La prima condizione del cambiamento costituzionale è che esso venga fatto per una vera necessità di manutenzione dell’ordinamento, dunque per motivi seri e non per ragioni volgari.
La riforma in cantiere su cui dovremo votare, si dice in ottobre,  è stata fatta per ragioni volgari. La prima ragione per cui è stata proposta è stata, per Renzi, quella di vincere le primarie e diventare segretario del partito, poi la nuova Costituzione è diventata il bottino da conquistare e “portare a casa” per assicurarsi la permanenza al potere.
Entrando nel merito, sono ragioni volgari della riforma quelle più propagandate, che sono di risparmiare 50 milioni sui 500 che ne costa il Senato, di sopprimere due senatori su tre e così sbeffeggiare la classe politica, e di avere un governo spicciativo che non perda tempo a chiedere la fiducia anche del Senato, dato che gli sembra anche troppo doverla avere dalla Camera.
Ma la seconda, vera condizione del cambiamento è che esso venga fatto in modi appropriati, non arbitrari, non rottamando la Costituzione intera, ma intervenendo su singoli punti senza voti di fiducia e trucchi parlamentari. E ciò perché la nostra è una Costituzione rigida, che significa che per essere modificata ha bisogno di una procedura aggravata, ultragarantista, di cui l’ultimo giudice è il popolo sovrano.
La ragione è che la Costituzione ha formalizzato il raggiungimento di un traguardo storico, dal quale si è convenuto che non si possa tornare indietro. Per esempio dal ripudio della guerra non si può tornare indietro. Nessuna maggioranza, e nemmeno l’unanimità, potrebbe decidere il ripristino della guerra come strumento della politica con altri mezzi. La guerra, nell’ordinamento italiano, è entrata nella sfera dell’indecidibile.
Però non basta che ciò resti scritto nella prima parte della Costituzione se questo ripudio non è garantito dalle regole stabilite nella seconda parte, che è la parte che oggi si vuole cambiare. Perché il ripudio della guerra può essere mantenuto solo se la sovranità popolare è effettivamente esercitata attraverso libere elezioni, attraverso una vera rappresentanza parlamentare e se la deliberazione dello stato di guerra resta affidata a Camera e Senato e non viene attribuita, come fa l’attuale riforma, a una sola Camera, a un solo partito e a uno che sta solo al comando.
Lo stesso è a dirsi dei diritti fondamentali, la libertà, la salute, la scuola, il lavoro, l’eguaglianza; non si può tornare indietro da questi diritti e dai doveri che vi corrispondono, perciò stanno in una Costituzione rigida e la seconda parte di essa ne deve rendere possibile e garantire l’attuazione. Ma se nell’articolo 81 si costituzionalizza il pareggio del bilancio, e se i Trattati europei proibiscono l’economia mista, pubblica e privata, e l’intervento dello Stato, con cui si è ricostruita l’Italia, quei diritti e i corrispondenti doveri sono cancellati con un tratto di penna e il capitalismo diventa regime.
Questa è l’eredità della Costituzione che la riforma tradisce. Anche qui sono gli eredi, e soprattutto i giovani, che dovranno vedere come conservarla, come farla crescere e anche come cambiarla avanzando, e non tornando indietro.
Per ora a noi tocca far vincere il NO nel prossimo referendum; perciò abbiamo fatto i comitati per il NO, c’è perfino Smuraglia, il capo dei partigiani, che ha 90 anni, e abbiamo fatto i Cattolici del NO, ricordando i cattolici del NO del 1974; per questo diciamo ai giovani, almeno a quelli che ci stanno a sentire, che la Costituzione è un’eredità che ha un valore e anche un costo; è costata in passato, dalla Resistenza in poi, e costa anche adesso, con l’impegno per difenderla, la raccolta delle firme, purtroppo non riuscita, la mobilitazione popolare, e l’impegno anche finanziario per vincere il referendum.
Poi, nella prossima legislatura, dopo averne parlato nella campagna elettorale,  e con un Parlamento legittimato, si potrà mettere mano alla vera riforma.
Un Parlamento legittimato vuol dire un Parlamento fatto di eletti e non di nominati, e espresso con la proporzionale, anche se con piccole correzioni che non ne alterino la natura.
 La proporzionale non è menzionata in nessun articolo della Costituzione, però è presupposta, addirittura come ovvia, talmente ovvia da non doversi nemmeno evocare, in ogni articolo della Costituzione.
Perché la proporzionale vuol dire riconoscere il pluralismo e la varietà delle forze sociali, vuol dire lasciare che cento fiori fioriscano e non sradicare nessun cespuglio di nessun partito, e su questo costruire la democrazia. Bisogna infatti ricordare che alla democrazia non siamo arrivati per poter essere governati, perché eravamo governati anche prima, ma per essere liberi e perché ognuno fosse messo in condizione di sviluppare la sua umanità.
Questa è la democrazia e questa dobbiamo salvaguardare. Ed è per arricchire, non per dimezzare la democrazia, che dobbiamo attendere alle future riforme. Esse non devono andare a rimestare quello che già c’è, facendo una caricatura di Senato delle Regioni, ma costruendo quello che non c’è e che ci manca da morire.
Costruire l’unità del popolo e del mondo

Quello che ci manca in Italia e anche nel mondo, fino a morirne, è l’unità.
L’Italia è divisa, come mai lo è stata dopo il fascismo. L’abbiamo spaccata con il bipolarismo, con una politica basata sulla dottrina schmittiana dell’amico-nemico, l’abbiamo spaccata non sanando la frattura tra Nord e Sud, per cui nel Sud si muore ancora per lo scontro dei treni su un binario unico, l’Alta Velocità non passa in Sicilia e la linea ferroviaria si arresta  a Catania, i giovani non trovano lavoro e la mafia si confonde con la politica. L’Italia è spaccata perché non ci preoccupiamo di fare una politica che includa gli immigrati, dopo averli salvati in mare, e non facciamo una comunità allargata che non comprenda solo i vecchi italiani ma anche i nuovi italiani e quelli che italiani non sono, hanno lingue, culture e religioni diverse ma abitano sotto il nostro cielo e mangiano il nostro stesso pane. A questo dovrebbe servire il Senato, un Senato ripensato per l’unità della Repubblica e rappresentativo di tutti quelli che vivono stabilmente in essa, un Senato dei popoli.
Ed ora l’Italia è spaccata anche sulla Costituzione perché la Costituzione, che era ancora la cosa che ci univa, è stata scagliata contro di noi, per esaltare gli uni ed umiliare gli altri, per dividerci in comitati del SI contro comitati del NO e per realizzare un regime non di pari opportunità  per tutti, ma di comandanti e comandati.
Uscire dalla guerra

Ma ancora più grave è l’unità che manca sul piano mondiale.
La terza guerra mondiale, come ora è chiaro a tutti, e come il papa ha detto per primo, è ormai cominciata. Nessuno la mattina può più uscire di casa sapendo che di sicuro ci potrà tornare, che sia a Nizza, a Parigi, a Bruxelles, a Monaco, a Kabul o a Dacca. Il mondo è diventato troppo pericoloso per continuare a farlo andare così. Per molto tempo il mondo è stato pericoloso per i popoli delle colonie, per quelli che chiamavamo ed erano sottosviluppati, per gli africani, gli arabi, i vietnamiti, i palestinesi, gli algerini, i mozambicani, i neri sudafricani, i libanesi, gli afgani, gli iracheni. E noi con le nostre armate, le nostre multinazionali, i nostri scambi ineguali, la nostra economia che uccide spadroneggiavamo su di loro e nessuno ne contava i morti. Adesso il mondo è diventato pericoloso anche per noi, non solo i ricchi hanno le armi, ormai ogni persona, se ha perso ogni valore della propria vita, può diventare un’arma contro tutti gli altri. E il terrorismo per imitazione sta diventando più pericoloso del terrorismo organizzato.
Perciò il papa ha ragione. Il sistema va cambiato. L’economia, la politica, il diritto, il governo del denaro, la società dell’esclusione, l’ideologia della indifferenza, tutto va rifatto di nuovo. Conservare il mondo com’è non solo è criminale, ma non è neanche possibile.
Perciò bisogna porre mano alla grande riforma. Bisogna “tornare ai giorni del rischio”, come cantava padre Turoldo. Riprendere la grande stagione del cambiamento, che a metà del Novecento, dopo l’immane tragedia, ci portò a San Francisco a fondare le Nazioni Unite, ci portò alle grandi convenzioni internazionali sui diritti, a cominciare da quella sul genocidio, alla riduzione delle sovranità, alla rinuncia ad Imperi e colonie, alle grandi Costituzioni postbelliche, ci portò al ripudio della guerra, alla stagione delle economie keynesiane, al compromesso dello Stato sociale, alla stabilità monetaria e all’avvio della riforma del pensiero religioso fino all’esplosione del Concilio e poi al ’68.
Insomma l’eredità non è facile. Bisogna chiudere con un mondo e aprire il cantiere di un altro.

Come vincere la terza guerra mondiale

Ora siamo nella terza guerra mondiale. Ma a differenza delle prime due, che almeno formalmente erano combattute tra Forze Armate, questa è una guerra di Entità armate, regolari e irregolari, contro le popolazioni civili. Dunque la popolazione civile è uno dei soggetti del conflitto, le sue vittime non sono più vittime collaterali come lo erano, in misura peraltro sempre crescente, le vittime delle guerre precedenti. I civili oggi sono, loro malgrado, una delle parti della guerra. Ma è evidente che la popolazione civile non può né combattere né vincere la guerra come lo facevano i soggetti delle guerre tradizionali. Slogan come: tutti uniti nella guerra al terrorismo, non hanno alcun significato. Il modo per la popolazione civile di combattere questa guerra è la politica, e la sua vittoria è il conseguimento della pace. Ma per fare una politica di uscita dalla guerra e di costruzione della pace ci vuole un governo, che se ne faccia strumento facendo valere l’unità del popolo. Allora la proposta è questa: per uscire dalla terza guerra mondiale che ha il suo epicentro nel Mediterraneo e in Medio Oriente, occorre ripetere l’esperienza della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che ad Helsinki dal 3 luglio 1973 al 1  agosto 1975 realizzò il miracolo di mettere fine alla guerra fredda e alla minaccia reciproca di distruzione nucleare. Alla conferenza parteciparono tutti i Paesi europei più Stati Uniti e Unione Sovietica. Cardini degli accordi per realizzare la sicurezza e mantenere la pace fu l’impegno a non modificare con la forza le frontiere esistenti, e il rispetto dei diritti umani. Oggi l’Italia potrebbe farsi promotrice, e preparare diplomaticamente, una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo e in Medio Oriente, con la partecipazione di tutti gli Stati interessati e anche della Umma (comunità)  musulmana e delle Chiese cristiane d’Oriente. Anche qui i cardini sarebbero il rispetto della integrità territoriale degli Stati dell’area nelle loro legittime frontiere (compresi Iraq, Siria, Libano, Israele e Palestina)  e il rispetto dei diritti umani.
Però questo il nostro governo non lo può fare perché invece di essere espressione dell’unità del Paese, oggi ne è esso stesso il primo divisore, spaccando il Paese nella contrapposizione tra fronte del SI e fronte del NO nella cruciale partita della Costituzione, su cui è stata costruita l’unità della Repubblica. In tal modo il governo rinunzia al suo vero ruolo  e combatte una partita del tutto estranea alle vere urgenze poste dalla crisi in atto mentre l’Italia e il mondo tutto sono in condizioni di massimo pericolo.
Perciò la proposta è che il governo si ritiri dalla competizione per il referendum costituzionale, assuma una posizione neutrale, lasci combattere questa partita ai Comitati del Si e del No e alle forze politiche e partiti esistenti, abbandonando la riforma costituzionale al suo destino. Il governo potrebbe allora ricomporre l’unità del Paese per giocarla sul piano internazionale – europeo e mondiale - in una grande proposta e un grande progetto di unità e di pace, adempiendo veramente al dettato degli articoli 10 e 11 della Costituzione, per la costruzione di un ordine di giustizia e di pace tra le nazioni.
Raniero La Valle



[1] In principio Dio creò il cielo e la terra, poi nel suo giorno esatto mise i luminari in cielo e al settimo giorno si riposò.  Dopo miliardi di anni l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, senza mai riposare, con la sua intelligenza laica, senza timore, nel cielo sereno d’una notte d’ottobre, mise altri luminari uguali a quelli che giravano dalla creazione del mondo. Amen.”. Salvatore Quasimodo, Alla nuova luna.
[2] Nicola Cabasilas, Vita in Cristo, libro 6, cap. 10. V. in Raniero La Valle,  Paradiso e libertà, Ponte alle Grazie, Milano, 2010, pag. 146 seg.
[3] Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, discorso per l’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962.
[4] Il 6 agosto 2016, a Ponte di Legno, all’Incontro di “Tonalestate”, animato dall’ “Opera di Nazaret”.
[5] Giuseppe Dossetti, Il Vangelo nella storia, Edizioni Paoline. Milano, 2012, Discorso di Pordenone, pp. 24-25.
[6] Raniero La Valle,  voci Politica/Grandi Tradizioni  e  Sovranità, diritto e svolta del 1945, in Dizionario di Teologia della Pace, EDB, Bologna, 1997, pp. 707-719.

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