Discorso tenuto nel
Palazzo dei Musei di Reggio Emilia per il tema di "Tonalestate" 2016,
il 23 luglio 2016
di Raniero La Valle
Mi avete chiesto - per
presentare il tema di quest’anno dell’Incontro di “Tonalestate”, sul tema “Un mundo sin maňana (Un mondo senza domani) – un discorso su “l’eredità”. L'eredità è il dono
gratuito che ci viene da chi è stato prima di noi, da chi ci ha amato per primo
e ha preparato dei tesori per noi. Però è difficile parlare di eredità di
fronte ai dieci morti di ieri della strage di Monaco di Baviera, a quelli del
14 luglio di Nizza, o dinnanzi agli sgozzati del Medio Oriente o alle migliaia
di prigionieri nudi della repressione di Erdogan in Turchia. Non c’è nessun
discorso che si possa fare se non rendendoci conto della situazione reale nella
quale giorno dopo giorno viviamo e siamo.
E proprio a partire da qui vorrei dire allora che l’eredità
più importante, quella che nemmeno con la morte ci sarà tolta, è l’eredità di
Dio.
Nella cultura di oggi non si tratta più di un discorso
condiviso. Ma tra credenti si può dire che da Dio abbiamo ricevuto tutto, non
solo la vita, ma la terra i cieli l'acqua l'aria la musica la bellezza la
santità e tutte le creature. Naturalmente possiamo far finta di niente o non
tenerne conto (basta ricordare l'"intelligenza laica" di Quasimodo dinnanzi
allo stupore per lo sbarco dell'uomo
sulla luna[1]) ma
se ci accorgiamo della creazione ci rendiamo conto di essere eredi di una
meraviglia. É un'eredità così bella che ne possiamo essere rapiti, e questo
esserne rapiti si può risolvere in due modi: o ne siamo talmente avvinti ed
invasi che l'unica risposta possibile è la contemplazione e il ringraziamento,
e allora c'è una reazione di fuga: come lo stilita, che sale su una colonna, e
sta lì, o il monaco del deserto che pensa solo a pregare, e così l'amore per le
creature si rovescia in rinunzia alle creature, in fuga dal mondo, in una
cattura della fine: è la via della mistica, dell'eremo come reclusione, della
anticipazione apocalittica, dello spiritualismo estremo dei giansenisti, di
Port Royal, di certo dossettismo, per cui tutto è grazia e l'operazione umana è
niente. Oppure – e questo è il secondo modo - la meraviglia, la gratitudine e
la lode delle creature prendono le forme di san Francesco, del Cantico delle
creature, della Laudato sì di papa
Francesco e allora attraverso l'amore di Dio si torna più radicalmente al mondo, si viene all'umano, si prende
l'odore delle pecore e degli altri animali, e ci si sporca le mani, e si lavano
i piedi alle creature e la sfida, la scommessa è sulla dignità della terra e la
sanabilità della storia. Dio è tutto, d'accordo, ma noi siamo il tutto di Dio,
senza di noi Dio non sarebbe pensato da nessuno.
Questi sono due modi di accettare e gestire la stessa
eredità, sono due modi opposti di raccontarsi come cristiani, secondo la logica
dei due contrari; in mezzo ci sono tanti modi intermedi: perché questo è il
bello dell'eredità di Dio, che ci lascia liberi, siamo noi a decidere che uso
farne, lui non ci impone nessun modo di essere eredi. Però i modi non sono neutrali,
indifferenti, fungibili. Non si tratta ora di dire quali sono i migliori, tra
contemplare e fare, tra pregare e operare per la giustizia, tra eremo e impegno
sociale: però si deve scegliere. E noi abbiamo un criterio di scelta nel
gestire l'eredità di Dio; infatti l'apostolo ci dice: voi siete eredi di Dio e
coeredi di Cristo (Romani. 8, 17).
Cioè l'eredità di Dio va ricevuta e gestita al modo di Cristo: lui è il
prototipo degli eredi, noi siamo coeredi con lui nelle modalità paradossali
dell'unità, nella stessa nostra persona, di umano e divino. Ossia in Cristo noi
siamo eredi dell’umanità e della divinità di Dio; questo significa essere a sua
immagine e somiglianza.
Eredi diretti di Dio
Ciascuno di noi questa eredità di Dio la riceve in modo diretto.
Dio non è il nostro antenato. Dio è il nostro Padre. Sono sbagliate quelle
letture della storia della salvezza secondo cui prima c'era Dio, che regnava da
solo; poi è venuto Adamo, poi Noè, poi sono venuti i Patriarchi, poi Mosè, poi
David, poi Gesù e infine siamo venuti noi. In realtà nella storia della
salvezza tutti gli uomini e tutti i popoli ci sono fin dal principio.
Il
rapporto tra i due Testamenti non è di successione dell'uno all'altro, in una
storia lineare, cronologicamente intesa, altrimenti il secondo Testamento
abrogherebbe il primo; i due Testamenti sono invece sincroni, Cristo è coeterno
al Padre, non possiamo rinunciare a Nicea, Cristo è prima di tutte le creature,
il primo Adamo è lui, non il secondo[2],
altrimenti gli Ebrei sarebbero i padri o i nonni della nostra fede, invece sono
i nostri fratelli nella fede. Dio è nostro Padre, l'eredità la riceviamo da lui, tutti, Ebrei e Gentili,
cristiani e atei. E questa è una percezione che dobbiamo ristabilire, nel
nostro dialogo ebraico-cristiano, come nel dialogo con tutte le religioni e
tutte le culture. La misericordia di Dio l’abbiamo capita dopo, ma per tutti
c’era fin dal principio.
La nostra eredità
Ma naturalmente non c'è solo l'eredità di Dio. C'è l'eredità
che ci trasmettiamo tra di noi, di generazione in generazione, e dai figli ai
figli dei figli, altrimenti, come dice il manifesto di "Tonale
estate", il mondo è senza domani.
Perché se l'eredità si interrompe il mondo finisce.
Effettivamente possiamo fallire nel trattare e trasmettere
l'eredità perché anche la nostra eredità ha questo di bello, che ci lascia
liberi, possiamo accrescerla o ricusarla, e il testatore che ci ha lasciato
l'eredità non può interferire sul modo in cui noi la usiamo.
Ed è bene che sia così perché non tutte le eredità sono
buone. Ci sono delle eredità che andrebbero ricusate, o di cui bisognerebbe
purificare la memoria, per evitare che il peso delle cose passate schiacci le
cose presenti e precluda quelle future.
Diceva Gorbaciov, lo sfortunato leader sovietico, quando si
trattava di cambiare il mondo dopo la fine dei blocchi, che bisognava impedire
che i morti tenessero per mano i vivi, costringendoli a restare negli stessi
errori. Non ci siamo riusciti: dopo la caduta del Muro, non siamo riusciti a
non farci trattenere per mano dai morti, abbiamo fatto un mondo peggiore di
quello della guerra fredda, abbiamo portato la finanza globale al potere,
invece di fare l'Europa unita abbiamo fatto il capitalismo realizzato e con i
Trattati europei l'abbiamo dotato di una Costituzione rigida. La risposta alla
fine del comunismo è stata il fallimento peggiore del secolo. Dovremmo
ricordare gli uomini e le donne protagonisti di allora, così impari alla svolta
da fare: Bush e la destra americana, la Thatcher, Eltsin, Blair finito ora
nell'ignominia del rapporto Chilcot, e in Italia Cossiga, Andreotti, Occhetto,
De Michelis. Perciò con le eredità si possono fare dei guai.
Quando stava per finire il Novecento io ero assessore al
Comune di Roma, e decidemmo di fare un convegno internazionale per vedere quali
eredità dovessimo traghettare dal secondo al terzo millennio, e quali eredità
invece ricusare e non portarsi dietro. Tra le eredità da ricusare naturalmente
c'era la guerra, c'erano i genocidi, c'erano le dottrine politiche costruite
sul criterio del nemico, c'era il mondo fatto sulla misura di pochi e gli altri
lasciati come scarti. Tra le eredità invece da non perdere c'erano la Costituzione,
il costituzionalismo, i diritti umani, l'eguaglianza, con l'impegno
costituzionale di rimuovere le condizioni economiche e sociali che di fatto la
impediscono, c’era da fare città aperte e solidali.
Le cose poi non sono andate come le avevamo pensate, è
cominciata invece la guerra perpetua, gli eredi stanno facendo esattamente il
contrario di quel sogno.
Perciò noi dobbiamo avere molta cura del passato. Non tutto
il passato è buono, anche se, e non è poco, ci ha portato fin qui. Occorre un
discernimento del passato e un lavacro della memoria. Bisognerebbe evitare che
le vesti della memoria siano lavate nel sangue delle vittime, nel sangue dell'Agnello,
come dice l'Apocalisse. La tragedia del Kosovo, che è stata capace di riportare
dopo quattro decenni la guerra in Europa, è stata alimentata dalla cultura
della "vendetta del sangue", che trasmette il dovere della vendetta
di padre in figlio e ai figli dei figli; il genocidio degli Armeni non ha
ancora trovato né pentimento né perdono e continua a spargere i suoi veleni,
sicché dopo un secolo non si può nemmeno nominare, anche se a farlo è il papa,
senza suscitare ire funeste - ed ora si è visto di quali ire efferate sia
capace Erdogan - per non parlare della Shoà, dal cui tormento né Israele né il mondo
sono ancora usciti, e che ancora cova i demoni della violenza e della guerra
non solo in Medio Oriente ma sulla terra intera.
Perciò la memoria non può essere un semplice deposito nel
quale il passato è accatastato e stipato a futura memoria. Il passato non deve
essere solo oggetto di anamnesi, ma di conversione, di pentimento, di
purificazione. Il rimosso non va semplicemente recuperato, al modo della
psicoanalisi, ma va filtrato al vaglio della sapienza; non il vaglio usato dai
farisei di cui parla il Vangelo, che filtravano il moscerino ma lasciavano
passare il cammello (Mat. 23, 24) ma
il vaglio delle vittime che invocano giustizia e narrano come Gerusalemme non
abbia saputo capire ciò che giovava alla sua pace. Perciò dice Bonhoeffer, uno
dei grandi maestri del Novecento, che non solo il futuro, ma anche il passato,
lo dobbiamo ricevere dalle mani di Dio. Perché dalle mani di Dio lo riceviamo
non grezzo, ma già lavorato, e così lo possiamo lavorare anche noi.
In tal modo potremo superare i rischi del passato, evitare
che proietti la sua ombra sul nostro futuro, che gli trasmetta un bagaglio di
rancori, di frustrazioni, di offese non lavate, di mali non perdonati. Occorre
che il passato, pur rielaborato nel mito, non ci irretisca nella religione dell'identità,
non ci imprigioni nell'epopea, non ci trafigga coi nostri vanti e le nostre
rivalse (come fanno tutti i nazionalismi) ma ci renda liberi e ci proietti
nelle cose nuove.
Fin dai tempi antichi, nonostante la perenne ripetizione, nel
rito pasquale, della liberazione dall'Egitto, Isaia ci aveva ammonito: va bene
l'uscita dall'Egitto, quando il Signore "fece uscire carri e cavalli
esercito ed eroi a un tempo"; ma "essi giacciono morti mai più si
rialzeranno..., sono estinti. Non
ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche, ecco io
faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is. 43, 16-19); e negli ultimi tempi, e
ora più che mai nella predicazione di papa Francesco, lo specifico cristiano
che attraversa ma anche oltrepassa la memoria passionis è
l'annuncio dello Spirito che ci guiderà a tutta la verità (Giov. 16, 13) e che ci abilita a pensare e a fare le cose future.
In tal modo la memoria diventa sovversiva, come dice la
teologia politica, e come ha sperimentato in America Latina la teologia della
liberazione e come dice una Chiesa che riapre il fascicolo del deposito della
fede per “reinvestìgarlo ed esporlo in quel modo nuovo che i nostri tempi
esigono”[3];
questo era il progetto del Concilio che ora viene ripreso e in tal modo il
passato non fa più prigionieri ma libera per la storia da costruire e per
l'escatologia a cui mirare.
L'eredità da lasciare
Tutto questo va bene. Però non posso fermare qui il mio
discorso sull'eredità. Perché se la domanda sull’eredità si fa a una persona di
85 anni, si parla di un’eredità prossima a essere lasciata. Dunque la domanda è
anche personale. E qui il papa ci ha dato un insegnamento. Quando i ragazzi di
Villa Nazaret, a Roma, il 18 giugno scorso, gli hanno chiesto se si fosse trovato
mai in crisi con la sua fede, il papa ha risposto: ci vuole un bel coraggio a
fare questa domanda al papa, è una domanda molto personale! E ha detto: “io devo fare la scelta… O rispondo la verità,
o faccio una telenovela che sia bella e via…”. E non si è tirato indietro, ha
risposto con verità.
Dunque,
per rispondere con verità dell’eredità che credo di lasciare, che è quella di
un’intera generazione passata però attraverso il filtro della mia esperienza
personale, dovrei parlare soprattutto di due eredità, quella politica e quella
religiosa; ma qui parleremo solo della prima. Di quella religiosa, che è la più
importante, diremo in un’altra occasione[4].
L’eredità politica
La
mia eredità politica nasce da un’esperienza molto antica, fatta addirittura
quando ero ancora un bambino. Non è stata come la prima esperienza politica che
ha raccontato Giuseppe Dossetti ricordando gli anni della sua adolescenza.
Dossetti, essendo nato nel 1913, il fascismo lo ha visto nascere. E in un discorso
autobiografico tenuto il 17 marzo 1994 al clero di Pordenone, ha detto che
aveva nove anni nei giorni della marcia su Roma e dell’avvento del
fascismo. E la sua impressione fu subito “di una grande farsa accompagnata
da una grande diseducazione del nostro Paese e del nostro popolo, e di un
grande inganno; quindi – ha detto - ho acquisito una prima cosa (rimasta) ben
ferma nella sopravvenuta maturazione della coscienza e nella riflessione su
quegli eventi che la mia prima adolescenza aveva vissuto, una riflessione
radicata nel profondo, un irriducibile antifascismo”[5].
Per
me è stato diverso. Perché quando io sono nato, era il regime che aveva nove
anni. Perciò da bambino, man mano che vedevo le cose, era naturale per me
pensare che ci fosse il fascismo, che la scuola, la Chiesa, la politica fossero
fasciste; perciò fui naturalmente “balilla”, non immaginavo affatto, né me lo
poteva dire mio padre che era morto, che la politica potesse essere un’altra
cosa, che potesse cambiare, che potesse non esserci il fascismo. La politica
era come l’aveva pensata Aristotile, corrispondeva all’ordine del cosmo, era
una manifestazione della natura, per lui il dominio era “guidato dalla verità dell’epistéme”[6]; la
politica perciò era come il destino, è così che si stava al mondo, viva il
duce, il regime era lo Stato. Fu una rivelazione quando mi accorsi che si
poteva essere antifascisti, che si poteva essere contro il duce, che con
l’incoscienza di un bambino di undici
anni si poteva dire al professore di ginnastica: io non vengo all’adunata
perché non sono fascista. E dopo la guerra, dopo il referendum tra monarchia e
repubblica, a quindici anni, smisi anche di essere monarchico.
Questa
è stata la prima grande lezione che ho acquisito e che posso lasciare in
eredità. Prendere coscienza che la politica non ci è data come un destino, che
non è affatto naturale che si sia governati come si è governati, che il regime
politico, il regime economico, il regime culturale non sono dati di natura, da
accettare come sono, ma sono decisi da noi, che non è vero che non c’è niente
da fare, non è vero che i poteri sono insindacabili; invece possiamo resistere, possiamo cambiarli. La
politica non è un precipitato dall’alto, non è l’editto di poteri estranei e
lontani, fosse pure il potere di Dio, tanto meno dell’Europa o della Banca
Mondiale, la politica è nostra fattura.
La
mia esperienza politica è stata poi sempre dominata dalla convinzione che si
potesse e anche si dovesse cambiare, si potesse e dovesse cercare di cambiare.
All’Università
entrai negli Organismi rappresentativi perché c’era da inventare la democrazia
universitaria, che ancora non c’era (e forse non c’è più); dopo il Concilio,
quando il voto dei cattolici era ancora prescritto dalla Chiesa come un
articolo di fede, decidemmo di rompere l’unità politica dei cattolici nella
Democrazia Cristiana; nel referendum del 1974, quando sembrava che fosse
secondo natura che i cattolici votassero sì per l’abrogazione del divorzio,
facemmo i “cattolici del No”; e quando davvero si rischiò l’ingovernabilità
della democrazia e dello Stato a causa della contrapposizione estrema tra
comunisti e anticomunisti, rompemmo il tabù presentandoci come cattolici indipendenti
nelle liste comuniste; Paolo VI ne fu inorridito, anche perché il Sant’Uffizio
si era dimenticato di togliere la scomunica a chi anche semplicemente leggesse l’Unità. Poi è finita che a Maglie, in
Puglia, nel paese di Moro, hanno fatto il monumento ad Aldo Moro con l’Unità in tasca.
Poi
è stato sempre così: non abbiamo creduto che fosse un destino, dopo la fine dei
blocchi, riprendere l’uso della guerra, fosse pure presentata come guerra
umanitaria; abbiamo fatto obiezione di coscienza alla Camera contro la guerra a
Saddam Hussein; e come non abbiamo creduto che fosse un destino “morire
democristiani”, così non abbiamo creduto che fosse un destino il governo di
Berlusconi né che lo fosse la Costituzione di Lorenzago.
E
perciò pensiamo che adesso sia del tutto legittimo che la gente voglia cambiare
politica e padroni, che rifiuti di consegnarsi come suddita a Renzi, che non creda
affatto a un partito che si chiama Democratico ma che pretende di avere un
potere esclusivo e solitario e di rappresentare tutta la Nazione; perciò non ci
scandalizziamo dei Cinque Stelle, pensiamo che sia del tutto legittimo che gli
Inglesi escano dall’Unione Europea e che sia legittimo pensare che l’Europa non
debba necessariamente essere l’Europa di Maastricht né debba essere l’Europa
della tecnocrazia finanziaria fatta istituzione e regime.
Dunque
la prima eredità è questa: non esiste un’ortodossia della politica, non esiste
un politicamente corretto che non possa essere a sua volta corretto, la
politica si cambia e con la politica si cambia la vita.
Il
come cambiare però non fa parte del lascito ereditario, è il compito degli
eredi: dovete vedervela voi.
La Costituzione come eredità
L’altra
nostra eredità politica è la Costituzione. Anche la Costituzione si può
cambiare, però qui nel lascito c’è un’aggiunta,
perché nell’eredità è compresa anche una clausola sulle condizioni del
cambiamento.
La
prima condizione del cambiamento costituzionale è che esso venga fatto per una
vera necessità di manutenzione dell’ordinamento, dunque per motivi seri e non
per ragioni volgari.
La
riforma in cantiere su cui dovremo votare, si dice in ottobre, è stata fatta per ragioni volgari. La prima
ragione per cui è stata proposta è stata, per Renzi, quella di vincere le
primarie e diventare segretario del partito, poi la nuova Costituzione è
diventata il bottino da conquistare e “portare a casa” per assicurarsi la
permanenza al potere.
Entrando
nel merito, sono ragioni volgari della riforma quelle più propagandate, che
sono di risparmiare 50 milioni sui 500 che ne costa il Senato, di sopprimere
due senatori su tre e così sbeffeggiare la classe politica, e di avere un
governo spicciativo che non perda tempo a chiedere la fiducia anche del Senato,
dato che gli sembra anche troppo doverla avere dalla Camera.
Ma
la seconda, vera condizione del cambiamento è che esso venga fatto in modi
appropriati, non arbitrari, non rottamando la Costituzione intera, ma
intervenendo su singoli punti senza voti di fiducia e trucchi parlamentari. E
ciò perché la nostra è una Costituzione rigida, che significa che per essere
modificata ha bisogno di una procedura aggravata, ultragarantista, di cui
l’ultimo giudice è il popolo sovrano.
La
ragione è che la Costituzione ha formalizzato il raggiungimento di un traguardo
storico, dal quale si è convenuto che non si possa tornare indietro. Per
esempio dal ripudio della guerra non si può tornare indietro. Nessuna
maggioranza, e nemmeno l’unanimità, potrebbe decidere il ripristino della
guerra come strumento della politica con altri mezzi. La guerra, nell’ordinamento
italiano, è entrata nella sfera dell’indecidibile.
Però
non basta che ciò resti scritto nella prima parte della Costituzione se questo
ripudio non è garantito dalle regole stabilite nella seconda parte, che è la
parte che oggi si vuole cambiare. Perché il ripudio della guerra può essere
mantenuto solo se la sovranità popolare è effettivamente esercitata attraverso
libere elezioni, attraverso una vera rappresentanza parlamentare e se la
deliberazione dello stato di guerra resta affidata a Camera e Senato e non
viene attribuita, come fa l’attuale riforma, a una sola Camera, a un solo
partito e a uno che sta solo al comando.
Lo
stesso è a dirsi dei diritti fondamentali, la libertà, la salute, la scuola, il
lavoro, l’eguaglianza; non si può tornare indietro da questi diritti e dai
doveri che vi corrispondono, perciò stanno in una Costituzione rigida e la
seconda parte di essa ne deve rendere possibile e garantire l’attuazione. Ma se
nell’articolo 81 si costituzionalizza il pareggio del bilancio, e se i Trattati
europei proibiscono l’economia mista, pubblica e privata, e l’intervento dello
Stato, con cui si è ricostruita l’Italia, quei diritti e i corrispondenti
doveri sono cancellati con un tratto di penna e il capitalismo diventa regime.
Questa
è l’eredità della Costituzione che la riforma tradisce. Anche qui sono gli
eredi, e soprattutto i giovani, che dovranno vedere come conservarla, come
farla crescere e anche come cambiarla avanzando, e non tornando indietro.
Per
ora a noi tocca far vincere il NO nel prossimo referendum; perciò abbiamo fatto
i comitati per il NO, c’è perfino Smuraglia, il capo dei partigiani, che ha 90
anni, e abbiamo fatto i Cattolici del NO, ricordando i cattolici del NO del
1974; per questo diciamo ai giovani, almeno a quelli che ci stanno a sentire,
che la Costituzione è un’eredità che ha un valore e anche un costo; è costata
in passato, dalla Resistenza in poi, e costa anche adesso, con l’impegno per
difenderla, la raccolta delle firme, purtroppo non riuscita, la mobilitazione
popolare, e l’impegno anche finanziario per vincere il referendum.
Poi,
nella prossima legislatura, dopo averne parlato nella campagna elettorale, e con un Parlamento legittimato, si potrà
mettere mano alla vera riforma.
Un
Parlamento legittimato vuol dire un Parlamento fatto di eletti e non di
nominati, e espresso con la proporzionale, anche se con piccole correzioni che
non ne alterino la natura.
La proporzionale non è menzionata in nessun
articolo della Costituzione, però è presupposta, addirittura come ovvia,
talmente ovvia da non doversi nemmeno evocare, in ogni articolo della
Costituzione.
Perché
la proporzionale vuol dire riconoscere il pluralismo e la varietà delle forze
sociali, vuol dire lasciare che cento fiori fioriscano e non sradicare nessun
cespuglio di nessun partito, e su questo costruire la democrazia. Bisogna
infatti ricordare che alla democrazia non siamo arrivati per poter essere
governati, perché eravamo governati anche prima, ma per essere liberi e perché
ognuno fosse messo in condizione di sviluppare la sua umanità.
Questa
è la democrazia e questa dobbiamo salvaguardare. Ed è per arricchire, non per
dimezzare la democrazia, che dobbiamo attendere alle future riforme. Esse non
devono andare a rimestare quello che già c’è, facendo una caricatura di Senato
delle Regioni, ma costruendo quello che non c’è e che ci manca da morire.
Costruire l’unità del popolo e del mondo
Quello
che ci manca in Italia e anche nel mondo, fino a morirne, è l’unità.
L’Italia
è divisa, come mai lo è stata dopo il fascismo. L’abbiamo spaccata con il
bipolarismo, con una politica basata sulla dottrina schmittiana
dell’amico-nemico, l’abbiamo spaccata non sanando la frattura tra Nord e Sud,
per cui nel Sud si muore ancora per lo scontro dei treni su un binario unico,
l’Alta Velocità non passa in Sicilia e la linea ferroviaria si arresta a Catania, i giovani non trovano lavoro e la
mafia si confonde con la politica. L’Italia è spaccata perché non ci
preoccupiamo di fare una politica che includa gli immigrati, dopo averli
salvati in mare, e non facciamo una comunità allargata che non comprenda solo i
vecchi italiani ma anche i nuovi italiani e quelli che italiani non sono, hanno
lingue, culture e religioni diverse ma abitano sotto il nostro cielo e mangiano
il nostro stesso pane. A questo dovrebbe servire il Senato, un Senato ripensato
per l’unità della Repubblica e rappresentativo di tutti quelli che vivono
stabilmente in essa, un Senato dei popoli.
Ed
ora l’Italia è spaccata anche sulla Costituzione perché la Costituzione, che
era ancora la cosa che ci univa, è stata scagliata contro di noi, per esaltare
gli uni ed umiliare gli altri, per dividerci in comitati del SI contro comitati
del NO e per realizzare un regime non di pari opportunità per tutti, ma di comandanti e comandati.
Uscire dalla guerra
Ma
ancora più grave è l’unità che manca sul piano mondiale.
La
terza guerra mondiale, come ora è chiaro a tutti, e come il papa ha detto per
primo, è ormai cominciata. Nessuno la mattina può più uscire di casa sapendo
che di sicuro ci potrà tornare, che sia a Nizza, a Parigi, a Bruxelles, a Monaco,
a Kabul o a Dacca. Il mondo è diventato troppo pericoloso per continuare a
farlo andare così. Per molto tempo il mondo è stato pericoloso per i popoli
delle colonie, per quelli che chiamavamo ed erano sottosviluppati, per gli
africani, gli arabi, i vietnamiti, i palestinesi, gli algerini, i mozambicani,
i neri sudafricani, i libanesi, gli afgani, gli iracheni. E noi con le nostre
armate, le nostre multinazionali, i nostri scambi ineguali, la nostra economia
che uccide spadroneggiavamo su di loro e nessuno ne contava i morti. Adesso il
mondo è diventato pericoloso anche per noi, non solo i ricchi hanno le armi,
ormai ogni persona, se ha perso ogni valore della propria vita, può diventare
un’arma contro tutti gli altri. E il terrorismo per imitazione sta diventando
più pericoloso del terrorismo organizzato.
Perciò
il papa ha ragione. Il sistema va cambiato. L’economia, la politica, il diritto,
il governo del denaro, la società dell’esclusione, l’ideologia della indifferenza,
tutto va rifatto di nuovo. Conservare il mondo com’è non solo è criminale, ma
non è neanche possibile.
Perciò
bisogna porre mano alla grande riforma. Bisogna “tornare ai giorni del
rischio”, come cantava padre Turoldo. Riprendere la grande stagione del
cambiamento, che a metà del Novecento, dopo l’immane tragedia, ci portò a San
Francisco a fondare le Nazioni Unite, ci portò alle grandi convenzioni
internazionali sui diritti, a cominciare da quella sul genocidio, alla
riduzione delle sovranità, alla rinuncia ad Imperi e colonie, alle grandi
Costituzioni postbelliche, ci portò al ripudio della guerra, alla stagione
delle economie keynesiane, al compromesso dello Stato sociale, alla stabilità
monetaria e all’avvio della riforma del pensiero religioso fino all’esplosione
del Concilio e poi al ’68.
Insomma
l’eredità non è facile. Bisogna chiudere con un mondo e aprire il cantiere di
un altro.
Come vincere la terza guerra mondiale
Ora
siamo nella terza guerra mondiale. Ma a differenza delle prime due, che almeno
formalmente erano combattute tra Forze Armate, questa è una guerra di Entità
armate, regolari e irregolari, contro le popolazioni civili. Dunque la
popolazione civile è uno dei soggetti del conflitto, le sue vittime non sono
più vittime collaterali come lo erano, in misura peraltro sempre crescente, le
vittime delle guerre precedenti. I civili oggi sono, loro malgrado, una delle
parti della guerra. Ma è evidente che la popolazione civile non può né
combattere né vincere la guerra come lo facevano i soggetti delle guerre
tradizionali. Slogan come: tutti uniti nella guerra al terrorismo, non hanno
alcun significato. Il modo per la popolazione civile di combattere questa
guerra è la politica, e la sua vittoria è il conseguimento della pace. Ma per
fare una politica di uscita dalla guerra e di costruzione della pace ci vuole
un governo, che se ne faccia strumento facendo valere l’unità del popolo.
Allora la proposta è questa: per uscire dalla terza guerra mondiale che ha il
suo epicentro nel Mediterraneo e in Medio Oriente, occorre ripetere
l’esperienza della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che
ad Helsinki dal 3 luglio 1973 al 1
agosto 1975 realizzò il miracolo di mettere fine alla guerra fredda e alla
minaccia reciproca di distruzione nucleare. Alla conferenza parteciparono tutti
i Paesi europei più Stati Uniti e Unione Sovietica. Cardini degli accordi per
realizzare la sicurezza e mantenere la pace fu l’impegno a non modificare con
la forza le frontiere esistenti, e il rispetto dei diritti umani. Oggi l’Italia
potrebbe farsi promotrice, e preparare diplomaticamente, una Conferenza per la
sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo e in Medio Oriente, con la
partecipazione di tutti gli Stati interessati e anche della Umma (comunità) musulmana e delle Chiese cristiane d’Oriente.
Anche qui i cardini sarebbero il rispetto della integrità territoriale degli
Stati dell’area nelle loro legittime frontiere (compresi Iraq, Siria, Libano,
Israele e Palestina) e il rispetto dei
diritti umani.
Però
questo il nostro governo non lo può fare perché invece di essere espressione
dell’unità del Paese, oggi ne è esso stesso il primo divisore, spaccando il
Paese nella contrapposizione tra fronte del SI e fronte del NO nella cruciale
partita della Costituzione, su cui è stata costruita l’unità della Repubblica.
In tal modo il governo rinunzia al suo vero ruolo e combatte una partita del tutto estranea
alle vere urgenze poste dalla crisi in atto mentre l’Italia e il mondo tutto
sono in condizioni di massimo pericolo.
Perciò
la proposta è che il governo si ritiri dalla competizione per il referendum
costituzionale, assuma una posizione neutrale, lasci combattere questa partita
ai Comitati del Si e del No e alle forze politiche e partiti esistenti, abbandonando
la riforma costituzionale al suo destino. Il governo potrebbe allora ricomporre
l’unità del Paese per giocarla sul piano internazionale – europeo e mondiale -
in una grande proposta e un grande progetto di unità e di pace, adempiendo
veramente al dettato degli articoli 10 e 11 della Costituzione, per la
costruzione di un ordine di giustizia e di pace tra le nazioni.
Raniero La Valle
[1] “In principio Dio creò il cielo e
la terra, poi nel suo giorno esatto mise i luminari in cielo e al settimo
giorno si riposò. Dopo miliardi di anni
l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica, senza timore, nel cielo sereno d’una notte d’ottobre, mise
altri luminari uguali a quelli che giravano dalla creazione del mondo. Amen.”. Salvatore Quasimodo, Alla
nuova luna.
[2] Nicola Cabasilas, Vita in Cristo,
libro 6, cap. 10. V. in Raniero La Valle, Paradiso
e libertà, Ponte alle Grazie, Milano, 2010, pag. 146 seg.
[3] Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia,
discorso per l’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962.
[4] Il 6 agosto 2016, a Ponte di Legno, all’Incontro di “Tonalestate”, animato
dall’ “Opera di Nazaret”.
[5] Giuseppe Dossetti, Il Vangelo nella storia, Edizioni Paoline. Milano, 2012, Discorso di Pordenone, pp. 24-25.
[6] Raniero La Valle, voci Politica/Grandi Tradizioni e Sovranità, diritto e svolta del 1945, in
Dizionario di Teologia della Pace,
EDB, Bologna, 1997, pp. 707-719.
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