Raniero La Valle
discorso
tenuto a Rovigo il 10/09/2016
Non
c’è bisogno di essere cattolici per avere buone ragioni per opporsi alla riforma
costituzionale voluta dal governo Renzi. Basterebbero le ragioni futili e pretestuose
che sono avanzate dai propagandisti del SI per comprendere le ragioni del rifiuto.
Tra
questi argomenti c’è quello del risparmio dei costi della democrazia, con il pietoso
corollario che i soldi così risparmiati verranno finalmente distribuiti ai
poveri
Ma
la tesi del risparmio è stata già demolita dalla Corte dei Conti, che ha
mostrato come il risparmio degli stipendi dei senatori sarebbe di solo 58
milioni l’anno, mentre tutta la macchina del Senato, che continuerebbe ad esistere,
ne fa spendere 550 milioni. Altre stime scendono sotto i 50 milioni di minori spese,
neanche un euro per ogni italiano avente diritto al voto. Per cui si potrebbe coniare
uno slogan: vuoi risparmiare 90 centesimi l’anno? Prendili dai senatori e manda
a casa il Senato: che per sostenere il passaggio al monocameralismo non è un grande
argomento.
Ma
al di là delle cifre, la domanda è perché ci vogliono far comprare meno
democrazia. Infatti di questo si tratta: mettere in Costituzione meno
democrazia, come se in l’Italia ce ne fosse troppa, quando invece si sta
esaurendo.
L’altra
tesi volgare a favore della riforma è che spogliando il Senato di una parte dei
suoi poteri legislativi, si risparmierebbe il tempo della doppia lettura di
molte leggi che oggi fanno la navetta tra Camera e Senato.
Ma la tesi
dell’accelerazione legislativa è smentita dalla stessa riforma che ha lasciato
al Senato una quantità di competenze legislative, che addirittura, su semplice
richiesta del nuovo Senato, si può estendere a tutte le leggi, in un ginepraio
di procedure che creeranno insolubili e interminabili conflitti di competenza
tra le due Camere. L’unica cosa certa è che al Senato verrà tolto il potere di
dare e togliere la fiducia al governo, sicché il governo dipenderà solo da
mezzo Parlamento, e non dal Parlamento intero, e la democrazia sarà in tal modo
dimezzata e deforme.
Ma
al di là dei tempi che si allungano, la vera domanda è perché vogliono togliere
al governo l’incomodo di avere la fiducia anche dal Senato invece che averla dalle
due Camere come vuole l’attuale Costituzione.
La
ragione è che il potere vuole un Parlamento unanime e consenziente e perciò lo
divide in due come il Visconte dimezzato di Italo Calvino.
Ma
noi abbiamo visto quali sono i disastri che possono venire da un Parlamento
artificialmente unanime e consenziente, privo di ogni dialettica politica. Fu
pressoché unanime e consenziente il Parlamento che appoggiò la linea della
fermezza del governo Andreotti durante
il sequestro di Aldo Moro, decidendo per la morte di Moro, con le conseguenze
tragiche per l’Italia che ancora paghiamo.
Fu
pressoché unanime e consenziente il Parlamento che decise nel 1991 la
partecipazione dell’Italia alla prima guerra del Golfo, così ripristinando
l’uso della guerra, che era stata ripudiata, con la conseguenza di avere aperto
la strada a tutte le guerre successive, fino alla “terza guerra mondiale”, come
la chiama il papa, che oggi stiamo combattendo.
E
fu proprio un Parlamento remissivo e consenziente, che dopo la prima guerra
all’Iraq approvò il nuovo Modello di Difesa proposto dal governo e dalla NATO,
dopo che era venuto meno il nemico
sovietico, contro cui era rivolto il vecchio strumento militare. Il nuovo Modello di Difesa individuava
nell’Islam il nuovo nemico e prendeva come paradigma del confronto anche
militare tra l’Occidente e i suoi nuovi avversari lo schema del conflitto tra
Israele e Palestina.
Al
contrario è proprio quando nel Parlamento le posizioni si articolano e si
contrastano, che si fanno le scelte e le leggi migliori, come si potrebbe
dimostrare con numerosi esempi di leggi lesive e sbagliate che sono state
rifatte e corrette dalla seconda lettura del Senato, come ad esempio avvenne
per la legge sull’aborto, ancora oggi considerata la più accettabile tra tutte
le leggi possibili sulla materia.
Ci
sono poi altri argomenti futili e bizzarri che vengono spesi a favore della
riforma, come il fatto che da vent’anni ci stanno provando e non ci sono ancora
riusciti, come se alla fine anche la cosa peggiore dovesse essere fatta perché
nel frattempo sono passati tanti anni, o l’argomento che sulla riforma il
Presidente del Consiglio ha giocato il tutto per tutto, anche se poi se n’è
pentito.
Ma
abbandonando la conta delle ragioni inesistenti, veniamo al tema dei Cattolici
e della Costituzione, e del perché i cattolici questa Costituzione la debbano
attuare e difendere.
La
Costituzione è la cosa più importante che i cattolici italiani abbiano fatto
nel Novecento, prima del Concilio Vaticano II. Le altre cose non furono buone.
Non lo fu il non expedit, con cui i
cattolici, sposarono la questione romana e abbandonarono la questione
nazionale; non fu buona l’ideologia dell’“uccidere senza odio” alla quale
furono formati i giovani cattolici della GIAC dall’interventismo nella prima
guerra mondiale fino alle guerre fasciste. C’è su questo un libro molto bello
di Francesco Piva, un ex dirigente della GIAC, fatto in collaborazione con
l’Istituto Paolo VI per la storia dell’A.C. e del movimento cattolico in Italia[1].
La GIAC era un’organizzazione di massa e il libro documenta il tipo di
educazione che veniva impartita ai giovani cattolici, una formazione in cui la
repressione sessuale veniva unita e per così dire compensata con una
esaltazione della virilità volta all’esercizio delle virtù militari, per
preparare combattenti per le guerre della patria, capaci appunto di uccidere
senza odio; si trattava di una catechesi sacrificale e di guerra, che insegnava
ad uccidere con l’alibi della religione e della morale. Oggettivamente era una
pedagogia al fascismo, che infatti la usò dopo il 1922; quella non fu una cosa buona, e nemmeno fu buono il
Concordato con Mussolini, come non lo fu la debole dissociazione dalle leggi
razziali.
La
cosa migliore, prima del fascismo, fu invece la geniale elaborazione di Luigi
Sturzo e la straordinaria impresa democratica del partito popolare italiano, ma
furono sconfitte. E la cosa migliore dei cattolici italiani prima della
Costituente fu poi la partecipazione alla resistenza. Ed è proprio da questo
filone del cattolicesimo italiano, il filone della democrazia cristiana di
Romolo Murri, del popolarismo di Luigi Sturzo, della Resistenza delle Fiamme
Verdi, di Teresio Olivelli, di Franco Salvi, di Giuseppe Dossetti e fu dal
pensiero dei professorini dell’Università Cattolica, che grazie anche
all’incontro con comunisti, socialisti e laici, venne fuori il miracolo della Costituzione Italiana.
Ma
esso non fu solo il prodotto di una minoranza cattolica, perché la Chiesa
stessa condivise e sostenne quella scelta; lo stesso papa Pio XII nel
radiomessaggio natalizio del sesto Natale di guerra, nel 1944, aveva fatto la
scelta della democrazia, dicendo che forse, se avessero avuto la democrazia i
popoli avrebbero potuto impedire la guerra; e il suo prosegretario di Stato, il
Sostituto Mons. Montini, tenne con Dossetti costanti rapporti lungo tutto
l’iter del dibattito alla Costituente,
in particolare accettando il nuovo rapporto tra Chiesa e Stato sancito
dall’art. 7, nonché la libertà religiosa e il riconoscimento delle altre
religioni stabiliti dall’art. 8.
E
quella non fu affatto una cosa scontata.
A
chi legga oggi gli articoli 7 e 8 della Costituzione, che proclamano
l’indipendenza nel proprio ordine dello Stato e della Chiesa e la libertà per
tutte le religioni, potrebbe sembrare trattarsi di cose ovvie, e relative ad un
ambito ristretto della vita giuridica e sociale, tanto più in un tempo in cui
la religione non sembra più essere un problema per molte persone nella società
secolarizzata. Eppure intorno a queste norme si accesero grandi passioni e
forti contrasti, si formarono schieramenti inediti, e si raggiunse uno dei
livelli più alti del dibattito costituzionale. In effetti si realizzò una
svolta, perché si veniva da una storia, durata 1700 anni, dall’imperatore
Costantino, in cui la religione non era stata affatto distinta dallo Stato, il
pluralismo e l’eguale libertà per tutte le fedi non erano stati affatto
riconosciuti, e pur nella lotta tra poteri politici e religiosi, si era
formata una unità organica tra cultura, politica,
istituzioni e Chiesa. Si tratta di quel sistema politico-religioso che è stato
chiamato regime di Cristianità. Non si trattava
peraltro di un fenomeno proprio del solo Occidente, perché anche fuori di esso
altre religioni ed altre società si erano intrecciate a formare regimi
confessionali, come ad esempio si
era visto nello shintoismo giapponese fino alla catastrofe della seconda guerra
mondiale, e come oggi accade ancora nelle forme politico-confessionali
dell’ebraismo e dell’Islam.
Nella
storia dell’Occidente, ad aprire i conti col regime di cristianità, agli albori
dell’età moderna, sono stati gli stessi cristiani. Furono proprio loro,
all’inizio, che passarono la parola dai teologi ai giuristi; poi venne
l’illuminismo che portò a termine l’impresa con la costruzione della società laica. Le Chiese reagirono giocando la carta degli Stati confessionali,
il Papato rispose confutando le libertà moderne, rivendicando l’esclusiva del potere
spirituale sulle coscienze e cercando accordi con i troni o con i fasci; ma poi
la Chiesa cattolica stessa sarebbe arrivata, col Concilio Vaticano II, a
riconoscere come provvidenziale la fine dell’età costantiniana, e da ultimo sarebbe giunto papa Francesco a
proclamare l’uscita della Chiesa dal regime di Cristianità e ad aprirne le strade: un cambiamento epocale destinato a
restituire vitalità al cristianesimo e a liberare le potenzialità di tutte le
religioni in ordine alla salvezza degli esseri umani..
Il colpo di genio della Costituzione del ’48 è
stato di anticipare la fine della Cristianità, in ciò anticipando il Concilio,
senza perdere il cristianesimo, in ciò anticipando papa Francesco, e dando
libertà ad ogni religione con i suoi statuti, postulando la pace tra le fedi. .
È avvenuto così che la formula consacrata
nell’art. 7 della Costituzione si ritrova pressoché identica, diciotto anni
dopo, nella formula della Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” del Concilio (n. 76): “la comunità politica e la
Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo “; e la formula dell’art. 8 secondo
cui “tutte le confessioni religiose sono egualmente
libere davanti alla legge” e” hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti”, e i loro rapporti sono regolati sulla base di intese con lo Stato,
sembra anticipare sul piano del diritto lo spirito con cui papa Francesco, nella
Messa del giovedì santo del 2016, dopo aver lavato i piedi a credenti di
diverse fedi, ha detto loro: “Qui c’è un gesto, tutti noi insieme, musulmani,
indù, cattolici, copti, evangelici… ma fratelli, figli dello stesso Dio, che
vogliono vivere in pace, integrati”; ed era un gesto del tutto opposto a quello
sanguinario compiuto tre giorni prima dagli attentatori di Bruxelles.
Le dure opposizioni all’art. 7
vennero alla Costituente e continuarono anche dopo e anzi continuano anche
oggi, da parte di quanti a quella norma imputano di “costituzionalizzare”
i Patti lateranensi, dando agli accordi
stipulati con Mussolini la stessa forza della Carta. Ma così non è, Non è stato
costituzionalizzato il contenuto dei Patti, ma la modalità del rapporto
pattizio, come è stato affermato dalla Corte e dimostrato dal fatto che molte
norme del Concordato sono cadute in forza di leggi ordinarie e la stessa
controversa introduzione del divorzio non incontrò alcun ostacolo di natura
costituzionale. Quello che dice la Carta è che Stato e Chiesa sono realtà
distinte, il loro è un rapporto di alterità e i loro rapporti, per decisione
comune, non sono rapporti di forza, ma consensuali e liberi. E di fatto, nel 1984, a norma dell’art. 7,
veniva pattuito un nuovo Concordato, nel quale il presupposto del regime di
Cristianità (la religione cattolica come religione di Stato) era anche
formalmente abrogato.
I protagonisti della storica
impresa dell’art. 7 furono soprattutto due. Il primo fu il cattolico Giuseppe
Dossetti, che veniva dalla Resistenza e godeva dell’appoggio del Vaticano, e in
particolare di mons. Montini, come Sostituto
del Segretario di Stato. E l’altro protagonista fu il comunista Togliatti, che comprese
come la prospettiva di una società democratica, che egli voleva orientata al
socialismo, non si potesse perseguire che nel quadro di una pace religiosa, e
forse non senza l’apporto del cristianesimo, di cui qualche anno dopo, nel
discorso di Bergamo, doveva riconoscere il ruolo nella promozione del “destino
dell’uomo”. Per far passare questa linea Togliatti dovette affrontare una
severa opposizione nel suo partito e contrapporsi nel voto alla Costituente ai
socialisti e agli altri “laici” che gridavano alla clericalizzazione dello
Stato; ma il seguito della storia ha dimostrato che Dossetti e Togliatti
avevano visto giusto, e anche se il Concordato è stato poi motivo di cattive
tentazioni per quella parte di Chiesa rimasta attaccata ai vecchi sogni di
potere, bisogna dire che la laicità della Repubblica e dello Stato hanno
trovato nella Costituzione un sicuro presidio e la massima salvaguardia.
Bisogna anche dire che la Costituzione
nell’anticipare la fine della Cristianità, è riuscita ad esprimere, nella
laicità, i valori cristiani più alti. Essa infatti in molteplici modi, e grazie
anche all’apporto di culture e di storie diverse, marxiste, cattoliche,
liberali, ha ritrovato la forza sovversiva del cristianesimo. Il fatto che essa
all’art. 1 dichiari la Repubblica fondata sul lavoro, realizza il rovesciamento
cristiano dei servi in signori. Nella società signorile, dall’antichità fino
all’età moderna, il lavoro era esclusivamente addossato al servo, e di fatto
era un lavoro schiavo. Nemmeno il cristianesimo paolino era riuscito a
ribaltare questa antropologia. Ma nella Costituzione il lavoro diventa sovrano.
Esso
non solo fonda la Repubblica, ma esprime e realizza la dignità dell’uomo, e
perciò del popolo sovrano a cui egli appartiene. Questo vuol dire che sono
implicite nel dettato costituzionale le politiche di piena occupazione, e
perciò il lavoro come variabile accidentale del mercato, qual è nelle attuali
forme del liberismo selvaggio, è contro la Costituzone. Così, il fatto di mettere all’art. 2 i diritti
inviolabili della persona, singola e associata, vuol dire che nulla può essere
anteposto all’uomo, immagine di Dio; così, dire all’art. 3 che la Repubblica
rimuove gli ostacoli, anche economici e sociali, che impediscono alla vita di
realizzarsi come umana, vuol dire vincolare il potere non solo alla giustizia
ma alla misericordia; c’è infatti un “pieno sviluppo della persona umana”,
quale è voluto dalla Costituzione, che a una democrazia formale non interessa,
ma che una democrazia sostanziale ha il compito di promuovere, con una politica
che prenda a cuore la sorte di tutti, a cominciare dai poveri, in forza di
quella solidarietà che è un altro nome della democrazia, ed è un altro nome
della misericordia.
Ci
dicono, i riformatori della carta, che non c’è ragione di preoccuparsi perché
questi principi e valori che vengono affermati nella prima parte della
Costituzione, non vengono toccati, in quanto essi sarebbero scritti solo in
questi primi articoli che vengono lasciati immutati, e non anche nei ben 47
articoli, su un totale di 139, che vengono modificati nella seconda parte.
Ma
ciò non è vero. Certo quei principi, quei valori, quelle libertà, quei diritti
fondamentali – civili, etico-sociali, economici e politici – sono affermati in
quella carta d’identità della Repubblica che sono i primi dodici articoli e che
è tutta la Parte prima della Costituzione. Essi però trovano poi la loro
strumentazione, la loro possibilità di esercizio, la loro garanzia
nell’ordinamento qual è strutturato nella seconda parte della Costituzione.
Senza queste norme che la realizzano, la Costituzione sarebbe come una carta
d’identità a cui non corrisponde la persona, sarebbe come un’aquila a cui
venissero strappati gli artigli.
Sarebbe
inutile parlare del lavoro, del popolo sovrano, della libertà religiosa, del
ripudio della guerra, della costruzione di un ordine di pace e di giustizia tra
le nazioni, se si demolisse l’architettura comprendente il governo
parlamentare, il pluralismo dei partiti, delle elezioni che salvaguardino la
proporzionalità tra elettori e rappresentanza, il circuito della fiducia,
l’articolazione regionale, le garanzie giurisdizionali e tutto il resto; che è
appunto ciò che oggi è investito dal terremoto della riforma.
I
promotori della riforma dicono che il nuovo sistema sarà migliore, più
efficiente, più rapido, più economico di quello oggi esistente. Lo si vedrà in
sede di collaudo. Sennonché, come dice
la principale partigiana della riforma, la ministra Boschi, possono esserci
delle cose sbagliate nella nuova Costituzione ma si potranno correggere in
seguito. Ma il terremoto potrebbe arrivare prima di fare le correzioni e le
necessarie modifiche, come di solito accade in Italia con i terremoti, e
d’altra parte una Costituzione che rimanga sempre puntellata e in restauro, non
è più una Costituzione affidabile, non è più una Costituzione rigida, diventa
come una legge ordinaria in balia dell’ultima maggioranza parlamentare e di
qualsiasi governo.
Perciò
noi pensiamo che la Costituzione vada salvata perché rimanga almeno un punto
fermo in una società e in un mondo che sembrano marciare rapidamente verso
nuove catastrofi.
E’
paradossale che, mentre l’Italia è divisa, si rompa l’unica cosa che ancora la
tiene unita, la Costituzione; è paradossale che mentre i Trattati europei
stanno portando al collasso l’Europa, che invece di abbattere i muri li
costruisce perfino sul mare, si invochi l’Europa per sovvertire in Italia il
solo patto che ancora funziona e che fonda la pace sociale tra i cittadini e la
Repubblica; è paradossale e insensato che mentre le cose vanno male, l’Italia è
a crescita zero, la disoccupazione giovanile è al 39% e i cittadini non hanno
più alcuna fiducia nella politica disertando anche le urne, la classe politica
manometta l’unica cosa che va bene e che non era contestata da nessuno, la
Costituzione del ’47, per sostituirla con un prodotto scadente, fabbricato da
un Parlamento in crisi di legittimità, perché eletto con una legge che la Corte
Costituzionale aveva dichiarato infedele e di fatto scaduta. Sicché se il referendum
non bloccherà questa operazione, avremo una Costituzione – caso unico in Occidente
– fatta da un Parlamento che andava combattendo ed era morto.
Raniero La Valle
[1] Francesco Piva, Uccidere senza odio, pedagogia di guerra
nella storia della Gioventù cattolica italiana (1868-1943), Franco Angeli
Editore, 2015, Milano
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