di Raniero La Valle
Discorso
tenuto il 16/09/2016 a Messina nel Salone delle bandiere del Comune in
un’assemblea sul referendum costituzionale promossa dall’ANPI e dai Cattolici
del NO e il 17/09/2016 a Siracusa in un dibattito con il prof. Salvo Adorno del
Partito Democratico, sostenitore delle ragioni del Sì.
Cari
amici,
poichè
ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario essere qui per dirvi come sono andate le cose,
se noi ci trovassimo in una situazione normale. Ma se guardiamo quello che
accade intorno a noi, vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa
infatti sta succedendo?
Succede
che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei
barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa, di
Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e pesca subacquea. Sessantadue milioni
di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo
alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel
2050 i trasmigranti saranno 250 milioni.
E
l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato.
E’
in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto
il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto,
l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella
loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra, in Africa, in Medio Oriente
e anche in Europa si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio.
E
l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori.
Fallisce
il G20 ad Hangzhou in Cina. I grandi della terra, che accumulano armi di
distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo, non sanno
che pesci pigliare e il vertice fallisce. Non sanno che fare per i profughi,
non sanno che fare per le guerre, non sanno che fare per evitare la catastrofe
ambientale, non sanno che fare per promuovere un’economia che tenga in vita
sette miliardi e mezzo di abitanti della terra, e l’unica cosa che decidono è
di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue
restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la
repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di
commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania.
E
in tutto questo l’Italia che fa? Fa eleggere i senatori dai consigli regionali.
E ancora: l’Italia è a crescita zero, la
disoccupazione giovanile a luglio è al 39 per cento, il lavoro è precario, i licenziamenti
nel secondo trimestre sono aumentati del
7,4 % rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, raggiungendo 221.186
persone, i poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa
coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone.
E l’Italia che fa? Fa una legge elettorale che esclude
dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la
rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona.
Ma si dice: ce lo chiede l’Europa. Ma se è questo che ci
chiede l’Europa vuol dire proprio che l’istituzione europea ha completamente
perduto non solo ogni residuo del sogno delle origini ma anche ogni senso della
realtà e dei suoi stessi interessi vitali.
Ma
se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del
mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci
venga proposta una riforma così.
La verità è rivoluzionaria, ma se
si viene a sapere
E’
venuto dunque il momento di dire la verità sul referendum. La verità è
rivoluzionaria nel senso che interrompe il corso delle cose esistenti e crea
una situazione nuova.
Il
guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è
passato, il kair
s
non è stato afferrato al volo e la verità non è più utile a salvarci.
Se
si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra
del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di
seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare
l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato
venti anni prima con la Carta di San Francisco.
Se
si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di
distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato
il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti
suicidi in tutto il mondo e oggi non rischieremmo l’elezione di Trump in
America.
Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui
mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in
cui è stata precipitata.
Dunque
la verità del referendum va conosciuta finché si è in tempo.
Ma
la verità del referendum non è quella che ci viene raccontata. Ci dicono per
esempio che la sua prima virtù sarebbe il risparmio sui costi della politica, e
che i soldi così ottenuti si darebbero ai poveri. Ma così non è: secondo la
Ragioneria Generale dello Stato, il cui compito è di verificare la certezza e
l’affidabilità dei conti pubblici, il risparmio si ridurrebbe a cinquantotto
milioni che si otterrebbero togliendo la paga ai senatori, mentre resterebbe il
costo del Senato, e i poveri non c’entrano niente.
L’altra
virtù del referendum sarebbe il risparmio sui tempi della politica. Ci dicono
infatti di voler abolire la navetta delle leggi tra Camera e Senato. Ma così
non è. In realtà si allungano i tempi della produzione legislativa; infatti si introducono
sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere: 1) le
leggi sempre bicamerali, Camera e Senato, come le leggi costituzionali,
elettorali e di interesse europeo; 2) le leggi fatte dalla sola Camera che
entro dieci giorni possono essere richiamate dal Senato; 3) le leggi che
invadono la competenza regionale che il Senato deve entro dieci giorni prendere
in esame; 4) le leggi di bilancio che devono sempre essere esaminate dal Senato
che ha quindici giorni per proporre delle modifiche; 5) le leggi che il Senato
può chiedere alla Camera di esaminare entro sei mesi; 6) le leggi di
conversione dei decreti legge che hanno scadenze e tempi convulsi se richiamate
e discusse anche dal Senato. Ciò crea un intrico di passaggi tra Camera e
Senato e un groviglio di competenze il cui conflitto dovrebbe essere risolto
d’intesa tra gli stessi presidenti delle due Camere che configgono tra loro.
Ci dicono poi che col referendum si assicura la stabilità
politica, e almeno fino a ieri ci dicevano che al contrario se perde il
referendum Renzi se ne va. Ma queste non sono le verità del referendum. Finché
si resta a questo la verità del referendum non viene fuori.
Non
è la legge Boschi il vero oggetto del referendum
La
verità del referendum sta dietro di esso, è la verità nascosta che esso rivela:
il referendum infatti non è solo un
fatto produttore di effetti politici, è un evento di rivelazione che squarcia
il velo sulla situazione com’è. È uno svelamento della vera lotta che si sta
svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco. Il referendum come cunto de li cunti, potremmo dire in
Sicilia, il racconto dei racconti, come togliere il velo del tempio per vedere
quello che ci sta dietro, se ci sta Dio o l’idolo. Il referendum come
rivelatore dello stato del mondo.
Ora,
per trovare la verità nascosta del referendum, il suo vero movente, la sua vera
premeditazione, bisogna ricorrere a degli indizi, come si fa per ogni giallo.
Il primo indizio
è che Renzi ha cambiato strategia, all’inizio aveva detto che questa era la sua
vera impresa, che su questo si giocava
il suo destino politico. Ora invece dice che il punto non è lui, che lui non è
la vera causa della riforma, ha detto di aver fatto questa riforma su
suggerimento di altri e ha nominato esplicitamente Napolitano; ma è chiaro che
non c’è solo Napolitano. Prima
ancora di Napolitano
c’era la banca J. P. Morgan che in un documento del 2013, in nome del
capitalismo vincente, aveva indicato quattro difetti delle Costituzioni (da lei
ritenute socialiste) adottate in Europa nel dopoguerra: a) una debolezza degli
esecutivi nei confronti dei Parlamenti; b) un’eccessiva capacità di decisione
delle Regioni nei confronti dello Stato; c) la tutela costituzionale del
diritto del lavoro; d) la libertà di protestare contro le scelte non gradite
del potere.
Prima
ancora c’era stato il programma avanzato dalla Commissione Trilaterale, formata
da esponenti di Stati Uniti, Europa e Giappone e fondata da Rockefeller, che
aveva chiesto un’attenuazione della democrazia ai fini di quella che era allora
la lotta al comunismo. E la stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici
e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali
che li rappresentano, il Financial Times
ed il Wall Street Journal, i quali
dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese. E
alla fine è intervenuto lo stesso ambasciatore americano che a nome di tutto il
cocuzzaro ha detto che se in Italia viene il NO, gli investimenti se ne vanno.
Ebbene quelle richieste avanzate da questi centri di
potere sono state accolte e incorporate nella riforma sottoposta ora al voto
del popolo italiano. Infatti con la riforma voluta da Renzi il Parlamento è
stato drasticamente indebolito per dare più poteri all’esecutivo. Delle due
Camere di fatto è rimasta una sola, come a dire: cominciamo con una, poi si
vedrà. Il Senato lo hanno fatto così brutto deforme e improbabile, che hanno
costretto anche i fautori del Senato a dire che se deve essere così, è meglio
toglierlo. Inoltre il potere esecutivo sarà anche padrone del calendario dei
lavori parlamentari. Il rapporto di fiducia tra il Parlamento ed il governo
viene poi vanificato non solo perché l’esecutivo non avrà più bisogno di fare i
conti con quello che resta del Senato, ma perché dovrà ottenere la fiducia da
un solo partito. La legge elettorale Italicum
prevede infatti che un solo partito avrà - quale
che sia la percentuale dei suoi voti, al primo turno o al ballottaggio - la
maggioranza assoluta dei seggi alla Camera (340 deputati su 615). Il problema
della fiducia si riduce così ad un rapporto tra il capo del governo e il suo
partito e perciò ricadrà sotto la legge della disciplina di partito. Quindi non
sarà più una fiducia libera, non sarà una vera fiducia, sarà per così dire un
atto interno di partito, che addirittura può ridursi al rapporto tra un partito
e il suo segretario.
Per
quanto riguarda le altre richieste dei poteri economici, i diritti del lavoro
sono stati già compromessi dal Jobs act,
il rapporto tra Stato e Regioni ha subito un rovesciamento, perché
dall’ubriacatura regionalista si ritorna a un centralismo illimitato, mentre,
assieme alla riduzione del pluralismo politico, ci sono delle procedure che
renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le
leggi di iniziativa popolare, e quindi ci sarà una diminuzione della
possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere.
Questo
è il disegno di un’altra Costituzione. La storia delle Costituzioni è la storia
di una progressiva limitazione del potere perché le libertà dipendono dal fatto
che chi ha il potere non abbia un potere assoluto e incontrollato, ma
convalidato dalla fiducia dei Parlamenti e garantito dal costante controllo democratico
dei cittadini. E’ questo che ora viene smontato, per cui possiamo dire che la
democrazia in Italia diventa ad alto rischio.
Ma a questo punto è chiaro che quello che
conta non è più Renzi, ed è chiaro che quanti sono interessati a questa riforma
gli hanno detto di tirarsi indietro, perché a loro non interessa il sì a Renzi,
interessa che non vinca il no alla riforma.
Il secondo indizio
è il ritardo della data della convocazione, che non è stata ancora fissata dal
governo; ciò vuol dire che la partita è
troppo importante per farne un gioco d’azzardo, come ne voleva fare Renzi,
mentre i sondaggi e le sconfitte alle amministrative sono stati inquietanti.
Perciò occorreva meno baldanza da Miles
Gloriosus e più preparazione. E occorreva alzare il livello dello scontro, e soprattutto ci voleva il riarmo prima che si giungesse allo scontro
finale. Il riarmo per acquisire la superiorità sul terreno era l’acquisto del
controllo totale dell’informazione, non solo i giornali, di fatto già
posseduti, ma radio e TV, ciò che è stato fatto in piena estate con le nomine
alla RAI.
Se
davvero si trattava di scorciare i tempi e distribuire un po’ di sussidi ai
poveri, non c’era bisogno del controllo totale dell’informazione.
Inoltre
bisognava distruggere il principale avversario e fautore politico del No, il Movimento
5 Stelle. Questo spiega l’attacco spietato e incessante alla Raggi. E poi ci
volevano i tempi supplementari per distribuire un po’ di soldi con la legge
finanziaria.
C’è poi un terzo
indizio. Interrogato sul suo voto Prodi dice: non mi pronunzio perché se no
turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. Dunque non è una questione
italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare
i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo.
Lo
spartiacque non è stato l’11 settembre
A
questo punto è necessario sapere come sono andate le cose.
Partiamo dall’11 settembre di cui si è tanto parlato
ricorrendone l’anniversario in questi giorni.
Il
mondo è cambiato l’11 settembre 2001? Tutti hanno detto così. Ma il mondo non è
cambiato quel giorno: quello è stato il sintomo spaventoso della malattia che
già avevamo contratto. L’11 settembre ha mostrato invece il suo volto il mondo
che noi stessi avevamo deciso di costruire dieci anni prima.
Nel 1991 con dieci anni di anticipo sulla sua fine fu da
noi chiuso il Novecento, tanto che uno storico famoso lo soprannominò “Il secolo breve”[1] e
così fu dato inizio a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime
che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello
definitivo, tanto è vero che un economista famoso lo definì come la “fine della
storia”[2].
Quello
che avevamo fatto dieci anni prima dell’11 settembre è che avevamo deciso di
rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli
estremi confini della terra; avevamo deciso di rispondere alla cosiddetta fine
delle ideologie trasformando il capitalismo da cultura a natura, promuovendolo
da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza; avevamo preteso
di superare il conflitto di classe smontando i sindacati, avevamo deciso di
sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del
Terzo Mondo un teatro di conquista.
La
scelta decisiva, che non si può chiamare rivoluzionaria perché non fu una
rivoluzione ma un rovesciamento, e dunque fu una scelta restauratrice e
totalmente reazionaria, fu quella di disarmare la politica e armare l’economia ma non in un solo Paese,
bensì in tutto il mondo. Non essendoci più l‘ostacolo di un mondo diviso in due
blocchi politici e militari, eguali e contrari, l’orizzonte di questo regime fu
la globalità, la mondialisation come
dicono i francesi, si stabilì un regime di globalità esteso a tutta la terra.
Quale
è stato l’evento in cui ha preso forma e si è promulgata, per così dire questa
scelta?
C’è
una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica,
all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore. Secondo René Girard
all’inizio della storia stessa della civiltà c’è il delitto fondatore
dell’uccisione della vittima innocente, ossia c’è un sacrificio, grazie al
quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali.
Secondo
Hobbes lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano
assume il monopolio della forza ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e
assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà.
Secondo
Freud all’origine della società civile c’è il delitto fondatore dell’uccisione
del padre.
Se
poi si va a guardare la storia si trovano molti delitti fondatori. Cesare molte
volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo,
l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della
destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo
americano”, l’uccisione di Moro è il delitto fondatore dell’Italia che si pente
delle sue conquiste democratiche e popolari.
Ebbene
il delitto fondatore dell’attuale regime del capitalismo globale fondato, come
dice il papa, sul governo del denaro e un’economia che uccide, è la prima
guerra del Golfo del 1991.
La guerra come delitto fondatore e
il nuovo Modello di Difesa
È
a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale.
E
noi possiamo ricordare come sono andate le cose a partire dal nostro
osservatorio italiano Non è un punto di osservazione periferico, perché
l’Italia era una componente essenziale del sistema atlantico e dell’Occidente,
ma era anche il Paese più ingenuo e più loquace, sicché spifferava alla luce
del sole quello che gli altri architettavano in segreto.
Questa
è la ragione per cui posso raccontarvi come sono andate le cose, a partire da
una data precisa. E questa data precisa è quella del 26 novembre 1991, quando
il ministro della Difesa Rognoni viene alla Commissione Difesa della Camera e
presenta il Nuovo Modello di Difesa.
Perché
c’era bisogno di un nuovo Modello di Difesa? Perché la difesa com’era stata
organizzata in funzione del nemico sovietico, che non c’era più, era ormai
superata. Ci voleva un nuovo modello. Il modello di difesa che era scritto
nella Costituzione era molto semplice e stava
in poche righe: la guerra era ripudiata, la difesa della Patria, intesa
come territorio e come popolo, era un sacro dovere dei cittadini. A questo fine
era stabilito il servizio militare obbligatorio che dava luogo a un esercito di
leva permanente, diviso nelle tre Forze Armate tradizionali. Le norme di principio sulla disciplina
militare dell’ 11 luglio 1978, definivano poi i tre compiti delle Forze
Armate. Il primo era la difesa dell’integrità del territorio, il secondo la
difesa delle istituzioni democratiche e il terzo l’intervento di supporto nelle
calamità naturali. Non c’erano altri compiti per le FF.AA. La difesa del
territorio comportava soprattutto lo schieramento dell’esercito sulla soglia di
Gorizia, da cui si supponeva venisse la minaccia dell’invasione sovietica, e la
sicurezza globale stava nella partecipazione alla NATO, che prevedeva anche l’impiego
dall’Italia delle armi nucleari.
Con
la soppressione del muro di Berlino e la fine della guerra fredda tutto cambia:
non c’è più bisogno della difesa sul confine orientale, la minaccia è finita e
anche la deterrenza nucleare viene meno. Ci sarebbe la grande occasione per
costruire un mondo nuovo, si parla di un dividendo della pace che sono tutti i
soldi risparmiati dagli Stati per le armi, con cui si può provvedere allo
sviluppo e al progresso di tutti i popoli del mondo; servono meno soldati e anche
la durata della ferma di leva può diventare più breve.
Ma
l’Occidente fa un'altra scelta; si riappropria della guerra e la esibisce a
tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima guerra del Golfo
del 1991, cambia la natura della NATO, individua il Sud e non più l’Est come
nemico, cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata
dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’ONU e anche di cambiare gli
ideali della comunità internazionale che erano la sicurezza e la pace. Viene
scelto un altro obiettivo: finita la guerra fredda, c’è un altro scopo adottato
dalle società industrializzate, spiegherà il nuovo “modello” italiano, ed è
quello di “mantenere e accrescere il loro progresso sociale e il benessere
materiale perseguendo nuovi e più promettenti obiettivi economici, basati anche
sulla certezza della disponibilità di materie prime”. Di conseguenza, si
afferma, si aprirà sempre più la forbice tra Nord e Sud del mondo, anche perché
il Sud sarà il teatro e l’oggetto della nuova concorrenza tra l’Occidente e i
Paesi dell’Est. Alla contrapposizione Est-Ovest si sostituisce quella Nord-Sud.
Tutto
questo precipita nel nuovo modello di difesa italiano, è scritto in un
documento di duecentocinquanta pagine e il ministro Rognoni, papale papale, lo
viene a raccontare alla Commissione Difesa della Camera, di cui allora facevo
parte.
E’
un dramma, una rottura con tutto il passato. Cambia il concetto di difesa, il
problema, dice il ministro, non è più “da chi difendersi” (cioè da un eventuale
aggressore) ma “che cosa difendere e come”. E cambia il che cosa difendere: non
più la Patria, cioè il popolo e il territorio, ma “gli interessi nazionali
nell’accezione più vasta di tali termini” ovunque sia necessario; tra questi
sono preminenti gli interessi economici e produttivi e quelli relativi alle
materie prime, a cominciare dal petrolio. Il teatro operativo non è più ai
confini, ma dovunque sono in gioco i cosiddetti “interessi esterni”, e in
particolare nel Mediterraneo, in Africa (fino al Corno d’Africa) e in Medio
Oriente (fino al Golfo Persico); la nuova contrapposizione è con l’Islam e il
modello, anzi la chiave interpretativa emblematica del nuovo rapporto
conflittuale tra Islam e Occidente, dice il Modello, è quella del conflitto tra
Israele da un lato e mondo arabo e palestinesi dall’altro. Chi ha detto che non
abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991. L’ho
dichiarata anch’io, in quanto membro di quel Parlamento, anche se mi sono
opposto.
I
compiti della Difesa non sono più solo quei tre fissati nella legge di
principio del 1978 ma si articolano in tre nuove funzioni strategiche, quella
di “Presenza e Sorveglianza” che è “permanente e continuativa in tutta l’area
di interesse strategico” e comprende la Presenza Avanzata che sostituisce la
vecchia Difesa Avanzata della NATO, quella di “Difesa degli interessi esterni e
contributo alla sicurezza internazionale”, che è ad “elevata probabilità di
occorrenza” (e sono le missioni all’estero che richiedono l’allestimento di
Forze di Reazione Rapida), e quella di “Difesa Strategica degli spazi
nazionali”, che è quella tradizionale di difesa del territorio, considerata
però ormai “a bassa probabilità di occorrenza”.
A seguito di tutto ciò lo strumento non potrà più essere
l’esercito di leva, ci vuole un esercito professionale ben pagato. Non
serviranno più i militari di leva; già succedeva che i generali non facessero
salire gli arruolati come avieri sugli aeroplani, e i marinai sulle navi; ma
d’ora in poi i militari di leva saranno impiegati solo come cuochi, camerieri,
sentinelle, attendenti, uscieri e addetti ai servizi logistici, sicché ci
saranno centomila giovani in esubero e ben presto la leva sarà abolita.
E’
un cambiamento totale. Non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la
ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’ONU, viene istituzionalizzata la
guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza
che avranno l’Islam come nemico. Ci vorrebbe un dibattito in Parlamento, non si
dovrebbe parlare d’altro. Però nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non
giungerà mai in aula e non sarà mai discusso dal Parlamento; forse ci si
accorse che quelle cose non si dovevano dire, che non erano politicamente
corrette, i documenti e le risoluzioni strategiche dei Consigli Atlantici di
Londra e di Roma, che avevano preceduto di poco il documento italiano, erano
stati molto più cauti e reticenti,
sicché finì che del Nuovo Modello di Difesa per vari anni si discusse solo nei
circoli militari e in qualche convegno di studio; ma intanto lo si attuava, e
tutto quello che è avvenuto in seguito, dalla guerra nei Balcani alle Torri
Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a
pezzi che oggi, come dice il papa, è in corso, ne è stato la conseguenza e lo
svolgimento.
Il perché della nuova Costituzione
E
allora questa è la verità del referendum. La nuova Costituzione è la quadratura
del cerchio. Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la
competizione globale, con la guerra permanente, chi vuole mantenerli è
considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta
altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua,
i mercati si turbano. La politica non deve interferire sulla competizione e i
conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene
in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di
Stato. Se lo Stato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o
dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo
dicono i nuovi trattati del commercio globale. La guerra è lo strumento supremo
per difendere il mercato e far vincere nel mercato.
Le
Costituzioni non hanno più niente a che fare con una tale concezione della
politica e della guerra. Perciò si cambiano. Ci vogliono poteri spicci e
sbrigativi, tanto meglio se loquaci.
E
allora questa è la ragione per cui la Costituzione si deve difendere. Non
perché oggi sia operante, perché è stata già cambiata nel ‘91, e il mondo del
costituzionalismo democratico è stato licenziato tra l’89 e il ’91 (si ricordi
Cossiga, il picconatore venuto prima del rottamatore). Ma difenderla è l’unica
speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e
irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla
schiavitù del mercato globale, è la condizione necessaria perché non siano la
Costituzione e il diritto che vengono messi in pari con la società selvaggia,
ma sia la società selvaggia che con il NO sia dichiarata in difetto e
attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il
diritto.
Riportiamo
qui di seguito un commento a caldo
di Tati Sgarlata, portavoce del gruppo “Siracusa
Resiliente”, sul dibattito costituzionale a Siracusa del 17 settembre 2016.
Ringrazio Salvo Adorno
e Raniero La Valle per aver realizzato un dibattito ricco, forte, ma sempre
rispettoso delle posizioni altrui.
Due
visioni però diverse che hanno costretto i partecipanti a vedersi dentro per
capire quale scelta fare e la scelta va molto al di là della riforma
costituzionale, anche se ne rappresenta una tappa.
Di
cosa ha bisogno questo mondo così preso tra crisi economica, ecologica, sociale
e democratica? Si può sottovalutare il fatto che le democrazie occidentali
hanno fallito dopo aver promesso partecipazione, lavoro, benessere, pace ed ora
si risvegliano incapaci ed offrono riforme che accentrano mentre manca sempre
più il lavoro, il benessere e la pace e dilaga la corruzione e la cura degli
interessi personali a tutti i livelli?
È
necessaria una riforma-rivoluzione radicale che modifichi l'assetto
economico-finanziario e la subalternità della politica e quindi lavorare per rilanciare il patto
costituzionale in Italia e per ritornare ad una Europa dei popoli e non delle
banche?
Oppure
accontentarsi di una contrattazione con il sistema che c'è cercando di trarre
il meglio da questa situazione?
È
meglio farci guidare dallo sguardo utopico e rilanciare trovando gli strumenti nuovi per avviare il processo,
oppure bisogna essere realisti e muoversi in questo campo prudentemente ma
cercando tutte le forme possibili di cambiamento?
Entrambe
le scelte presuppongono consapevolezza e molto lavoro.
Ieri
Raniero rappresentava il coraggio del rilancio utopico, Salvo la tesi opposta
ma nostalgico nel non potere stare nel campo opposto.
Questo
è il dramma della nostra generazione, scommetterci per il rilancio utopico o
cambiare il possibile? Anche Renzi paradossalmente soffre di ciò quando si
accorge che la Merkel va per la sua strada, ma Renzi deve capire che se vuole
il cambiamento non deve andare a braccetto con il potere economico finanziario
che sta distruggendo il mondo. Ma questo Renzi non lo può fare e non lo vuole
fare.
Per
tanti anni ho lavorato politicamente con l'ottica di Salvo anche se sempre con
lo sguardo rivolto a Raniero, oggi scelgo Raniero perché penso che la deriva
sia diventata oramai irreversibile e poi perché grazie al lavoro svolto da
Siracusa Resiliente ho preso maggiore coscienza di come, anche la sinistra in
cui ho militato, ha svenduto il potere politico al potere della finanza e del
capitalismo.
Il
ragionamento è unico: immigrati, ambiente, lavoro, dignità dell'essere umano,
democrazia, società solidale.
È
per questo che, al di là dei tecnicismi della riforma costituzionale che non mi
convincono e che non risolvono il problema della semplificazione e della
economicità ma solo quello della governabilità, ho deciso di votare NO per
potere continuare il cammino della
speranza in un mondo altro a partire da scelte di vita individuali e collettive
che debbono però essere perseguite con
decisione, impegno e coraggio, se no sarà solo un modo per mettersi a
posto la coscienza e potere continuare a criticare chi cerca di cambiare il
possibile con le regole che il gioco si è dato oggi.
Siracusa,
18 settembre 2016
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