Secondo
discorso sulla verità del referendum
Intervento di Raniero La Valle al
meeting “Loppiano-Lab” del Movimento dei Focolari a Loppiano (Firenze) il 30
settembre 2016.
Cari
Amici,
poiché
parlo a una grande riunione di persone la cui motivazione più profonda è che
“l’uomo non vive di solo pane”, sento prima di tutto il bisogno di dirvi la
ragione per la quale a 85 anni corro l’Italia per sostenere il NO al
referendum, quando i giovani di oggi sono disperati per tanti altri motivi.
La
ragione principale è una ragione di verità. Nell’ appello con cui i “Cattolici
del No” hanno spiegato ai cittadini perché si oppongono a questa riforma, hanno detto di farlo per una questione di giustizia
e una questione di verità. In effetti l’Italia ha oggi un grosso problema, di sapere
la verità del referendum, non perché qualcuno dica la “sua” verità sul
referendum, ma per capire che cosa il referendum dice di sé, che cosa rivela
del dramma politico che oggi stiamo vivendo in questo Paese e nel mondo.
La
verità è il criterio supremo su cui viene giudicato il potere: sulla verità il
potere sta o cade. Lo dice Gesù a Pilato, che voleva sapere se egli fosse un re
e Gesù risponde “sono re”, e subito lo nega perché, dice, sono venuto al mondo per
“rendere testimonianza alla verità”. Infatti non è un re, nel senso di Pilato,
ma un suddito crocefisso. È la più radicale delegittimazione del potere senza
verità. Ebbene è proprio la verità che spesso manca al potere e per saperlo
basta guardare alla storia dei re e dei potenti, che fanno le guerre per una
bugia – come è avvenuto in Vietnam, in Iraq e ora in Siria - e comprano il povero, o il voto del povero,
al prezzo di un paio di sandali.
Dunque
c’è una questione di verità col potere e c’è una questione di verità col
referendum. Ognuno ne parla a suo modo e tutti lo fanno come se parlassero di
oggetti diversi; per gli uni è la fine di Renzi, per altri ne è il principio;
per gli uni abolisce il Senato, per altri abolisce i senatori; per gli uni
favorisce le autonomie, per altri le nega; ed essendo un oggetto misterioso,
non si sa nemmeno perché si vota il 4 dicembre con la neve e non si vota invece
il 4 ottobre con la brezza autunnale.
In
questa mancanza di verità si è accesa una polemica sul quesito su cui si deve
votare, che non è l’enunciazione del contenuto della legge ma lo slogan che il
governo le ha messo in Parlamento come titolo. Per cui la domanda è se la
riforma realizza davvero ciò che promette, oppure se mira a risultati del tutto
diversi e tenuti nascosti.
E
poiché il titolo promette cinque cose e non c’è il tempo di esaminarle tutte,
mi fermerò alla prima per vedere se il titolo è vero.
La
prima cosa promessa è il superamento del bicameralismo paritario o, come si
dice più comunemente, del bicameralismo perfetto.
Allo stato attuale
delle cose il bicameralismo perfetto consiste in due Camere che hanno gli
stessi poteri: danno la fiducia, controllano l’esecutivo e fanno le leggi.
Avendo entrambe la stessa dignità e la stessa centralità nel sistema, non c’è
una Camera alta e una Camera bassa, tutte e due sono Camere alte.
La diversa misura delle
due Camere era invece la caratteristica del Regno d’Italia. Secondo lo Statuto
Albertino c’era una Camera alta, che era il Senato del Regno, ed era chiamata
alta perché i senatori erano nominati dal Re. La Camera dei deputati, i quali
invece erano eletti dal popolo, era detta Camera bassa. Era evidente in quella
concezione che il Re era l’alto, e il popolo era il basso. Il Senato, nella
varietà delle vicende politiche, doveva garantire la continuità del Regno.
Questa è la ragione per cui nel “Gattopardo” un messaggero del Re va a chiedere al principe di Salina di fare il
senatore: perché anche con l’unità d’Italia i signori continuino a regnare come
prima e tutto cambi perché tutto resti com’era. La stessa continuità il Senato
del Regno doveva assicurare nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato
fascista, ma Mussolini preferì fare la Camera dei Fasci e delle Corporazioni,
sicché fu poi la Costituente che sciolse il Senato; e i costituenti, trovando
il terreno vergine, senza Camera né alta né bassa, decisero di fare due Camere,
ambedue elette dal popolo e perciò aventi la stessa statura.
Adesso con la riforma
proposta, c’è un rovesciamento perché la Camera dei Deputati diventa lei la
Camera alta. In essa siederanno infatti dei deputati di nomina regia, che cioè
saranno nominati dall’alto, ovvero dal governo e dai capi dei partiti, e sarà
la Camera che dovrà assicurare la continuità del potere e del regime, e dicendo
che “tutto cambia”, si farà garante che tutto resti com’è. Invece il Senato diverrà la Camera bassa; e
tanto bassa, che non sarà fatta nemmeno da senatori eletti dal popolo, ma da
sindaci e onorevoli locali designati dai Consigli regionali.
E a questo punto la
questione è questa: pur declassati, questi senatori potranno fare davvero i
senatori? Secondo Renzi, dovendo essi venire a Roma a sbrigare delle pratiche,
come già fanno i sindaci, ne potranno approfittare per passare anche dal Senato
e tra una cosa e l’altra fare i senatori. Però secondo l’art.55 della nuova
Costituzione il Senato dovrebbe vegliare su pressoché tutte le politiche
pubbliche, valutarle e verificarle, come se fosse una sorta di “commissario
politico” della Repubblica. Secondo poi l’art. 70, che ridistribuisce le
competenze tra Camera e Senato, i senatori avranno ingentissime altre incombenze
e per adempierle dovranno osservare una tempistica massacrante; infatti, mentre
da un lato per moltissime leggi
fondamentali, che restano nelle competenze del bicameralismo paritario, i
senatori dovranno passare in Senato tanto tempo quanto i deputati alla Camera,
d’altro lato per richiamare al proprio esame ogni altra legge e per intervenire,
deliberare, proporre modifiche, fare ricorso alla Corte costituzionale, dare il
loro parere quando il governo voglia sostituirsi ai poteri delle Regioni e delle
città metropolitane, i senatori avranno termini tassativi ora di 5 giorni, ora
di 10 giorni, ora di 15 o 30 giorni che si accavalleranno tra loro. Questo
ancora nessuno l’ha detto; ma è chiaro che nel ping pong tra una legge e l’altra, tra un richiamo di una legge e
un altro, tra una proposta di modifica e l’altra, i senatori per non saltare i termini
dovrebbero stare a Roma molto più a lungo dei deputati, che invece possono
andare a casa quando vogliono senza che a loro scada termine alcuno. E qui c’è il paradosso: una riforma che
doveva addirittura istituire un Senato delle autonomie, rischia di risolversi
in un una sorta di sabotaggio delle autonomie da parte del Senato.
Perciò
è impossibile che sindaci di grandi città e consiglieri regionali di rilievo
possano abbandonare i loro doveri d’ufficio nel territorio per installarsi a
Roma correndo dietro alle leggi e alle delibere con uno scadenzario in mano. Il
che vuol dire che a Roma non ci staranno affatto e perciò ci sarà un Senato ma
non ci saranno i senatori, e l’attività legislativa sarà bloccata.
Allora
la domanda è: non era meglio piuttosto abolire il Senato? Non lo hanno fatto.
Forse i riformatori che volevano “cambiare verso” all’Italia erano troppo
conservatori, forse Renzi era troppo organico alla vecchia classe politica per
arrivare a sopprimere il Senato della Repubblica, e perfino per osare di
cambiarne il nome, che doveva essere “Senato delle autonomie”. Quello che invece
hanno fatto è stato di depotenziarlo per renderlo innocuo, per levare
l’incomodo che esso arrecava ai governi.
E così hanno tolto al Senato l’unico potere che veramente contava e che dava
fastidio, il potere di dare e togliere la fiducia. E questo lo hanno statuito
senza ambiguità e senza esitazione alcuna: con questa riforma infatti il
governo esce totalmente dal controllo del Senato. Così almeno una Camera è messa
fuori gioco. E perché la spoliazione fosse ben chiara, hanno tolto al Senato
anche quel potere che purtroppo nella nostra cultura massimamente è rappresentativo
della sovranità: il potere di deliberare lo stato di guerra che l’art. 87 della
nuova Costituzione toglie al Senato e riserva alla sola Camera dei deputati.
In
questo consiste dunque l’uscita dal
bicameralismo perfetto, che è il titolo e la gloria della legge di revisione che
dobbiamo votare.
L’uscita
è dalla democrazia parlamentare
Ma quanto, dopo questa
uscita, il bicameralismo diventa imperfetto? Diventa tanto imperfetto che
neanche la Camera dei deputati funzionerà più come un organo della democrazia
parlamentare. La democrazia parlamentare consiste infatti nel rapporto di
fiducia per cui il governo nasce e dipende dalla fiducia espressa dalla
maggioranza del Parlamento. Ma nel nuovo sistema, la fiducia verrebbe data da
una Camera nella quale la maggioranza assoluta dei seggi sarebbe occupata per
legge dai nominati di un solo partito. Ora ci dicono che questa legge, l’Italicum, la cambieranno, quando ormai a Renzi, che può
perdere, non conviene più. Però finora
essa ha fatto parte integrante del cambiamento istituzionale, è stata imposta
al Parlamento col voto di fiducia come premessa della stessa riforma, e la
Corte Costituzionale, rinviando la decisione sulla sua incostituzionalità a
dopo il referendum, l’ha formalmente consegnata al giudizio del popolo italiano.
Perciò inevitabilmente il 4 dicembre voteremo insieme sia sulla riforma di uscita
dal bicameralismo che sulla legge elettorale che l’accompagna, voteremo cioè
sul “combinato disposto”. Dunque
voteremo per un sistema in cui al governo la fiducia sarà data da una Camera di
sua fiducia, con una maggioranza di deputati nominati dallo stesso governo,
corrispondenti però a una minoranza degli elettori. In tal modo la fiducia al
governo non sarà più un atto libero di
Camere elette e rappresentative di tutto il popolo, ma diverrà un atto interno
di partito, diverrà un atto dovuto per disciplina
di partito, non importa se riunito al Nazareno o a Montecitorio.
Dunque il punto non è
che dal bicameralismo perfetto si passa a un bicameralismo dimezzato. La verità
è che il bicameralismo resta, ma è la democrazia parlamentare che se ne va. Il superamento è questo, e questo dovrebbe essere perciò il titolo non menzognero della
legge. Ci sarà una democrazia e ci sarà un Parlamento, ma non ci sarà più una
democrazia parlamentare. Per questo i riformatori si gloriano del fatto che ci
sarà un solo governo per tutti i cinque anni di legislatura, e magari per più
legislature, e non ci saranno più come prima 63 governi in 63 anni, come dicono
Renzi e l’ambasciatore americano. Ma se dalle urne viene fuori non dico un
tiranno, ma un invasato, un uomo del destino, un pazzo, uno Stranamore, un
apprendista stregone, o anche semplicemente un idiota, non c’è niente da fare,
la sua signoria è assicurata per molti anni; e così le elezioni politiche si
trasformano ogni volta per il Paese in una roulette russa, in un rischio di
suicidio.
Questa è una delle
verità del referendum. Ma c’è anche, come dicevamo, una verità che sta dietro
al referendum, e che esso rivela. Essa viene alla luce quando si dice che la
legge Renzi-Boschi attua finalmente riforme attese e avviate da tempo.
Un
processo di restaurazione
È verissimo che queste
riforme vengono da lontano. Ma da chi sono attese? Sono attese dai mercati,
dagli investitori, dalle grandi agenzie e società del commercio globalizzato. E
sono state avviate dalle Banche, dalle
Borse, dalla Trilaterale, dalla scuola di Chicago, dai Premi Nobel dati agli
apostoli della dottrina neoliberista, come von Hayek e Friedman, dal Consenso
di Washington del 1989, dal Fondo Monetario Internazionale e dalle sue ricette
di riforme strutturali. La Costituzione renziana è in effetti il punto di
arrivo di un processo di restaurazione condotto da classi dirigenti pentite di
quella democrazia che avevamo ritrovato e reinventato dopo la tragedia dei
fascismi sconfitti, e che avevamo messo nelle Costituzioni del dopoguerra.
Il fulcro di questa
restaurazione consiste nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati.
È una restaurazione che
ha bisogno di poteri spicci e sbrigativi, tanto meglio se loquaci, che mettano
la politica al passo coi dogmi economici, magari pregati di essere più
flessibili.
Ciò comporta un blocco del pluralismo politico e richiede una società impietosa
divisa in due tra vincenti e perdenti, accolti ed esclusi, necessari ed
esuberi, salvati e sommersi. Per i poveri, che non hanno altra ricchezza che il
diritto, è un disastro. Ed è una società che non può più ripudiare la guerra,
perché la guerra è il giudice di ultima istanza nella lotta per gli interessi
esterni del sistema, per le risorse e per la supremazia.
Da noi il decennio di
svolta è stato tra il 1981 e il 1991, a partire dal divorzio tra governo e
Banca d’Italia, fino alle picconate alla Costituzione di Cossiga, fino a
Maastricht, e al Nuovo Modello di Difesa con cui l’Italia ha ripudiato la pace,
ha cambiato natura e missione delle Forze Armate e dopo la scomparsa del nemico
sovietico ha accettato la scelta atlantica insensata di sostituirlo con l’Islam
come nemico. Da allora viviamo nella nuova conflittualità che si è aperta col
Sud del mondo, e col terrorismo come nuovo nome e nuova condizione permanente della
guerra.
Questo processo di
restaurazione peraltro non si è concluso. Il referendum ne è una tappa intermedia.
Già ci dicono che se vince il Si la riforma verrà riformata e si aprirà una
stagione di ulteriori revisioni. Certo non basta un No per fermare questo
processo, ma il No è condizione perché esso possa essere interrotto e
rovesciato.
Raniero
La Valle
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