Raniero La Valle - Terzo discorso sulla
verità del referendum
Discorso tenuto il 7 ottobre 2016 nella
Sala consiliare della Provincia a Matera.
Mentre
in Italia, nel mondo, nel Mediterraneo, in Siria, a Calais c’è tanta
disperazione, noi siamo costretti a devolvere due mesi della nostra vita
privata, e se non della nostra vita privata, della nostra vita pubblica, al
referendum per cambiare la Costituzione.
Questo
referendum è stato caricato, da chi pretende l’approvazione della riforma, di
significati epocali. Lasciamo stare i catastrofismi di chi dice che se non
vince il Sì ci sarà una crisi come quella del ’29 con la gente che si suicida
per la strada. È vero però che il 4 dicembre è stato enfatizzato come lo
spartiacque da cui tutto dipende. Renzi ci aveva messo perfino la testa di
presidente del Consiglio, anzi aveva messo in palio, come in “Lascia o
raddoppia”, la sua stessa carriera politica; poi se ne è pentito e ora questo
non lo dice più “nemmeno sotto tortura”. Però non pensa ad altro. Di fatto ha
smesso di governare, perché notte e giorno non fa che dedicarsi, in ogni TV e in centinaia di
comizi, alla propaganda per il Sì. Questo vuol dire che la cosa è veramente
importante anche per noi; forse davvero il 4 dicembre è uno spartiacque.
Uno spartiacque?
Ma
spartiacque di che? Non può trattarsi solo del fatto che Renzi resti o se ne
vada. Per quanto possa essere rilevante che ci sia un segretario fiorentino a
palazzo Chigi, l’esserci o non esserci di Renzi non può rappresentare lo
spartiacque di alcunché. I presidenti del Consiglio passano in fretta, e di molti
poi non ci si ricorda più. Dunque lo spartiacque deve riguardare qualche altra
cosa. Di che spartiacque si tratta?
A
mio parere si tratta dello spartiacque che passa tra il 20 novembre e il 4
dicembre. È questo il tempo in cui non solo qualche governante, ma noi stessi
ci giochiamo il futuro.
Il
20 novembre finisce l’anno della misericordia, e il 4 dicembre l’Italia decide
sulla sua Costituzione. Che nesso c’è tra le due cose?
La
vera posta in gioco del 20 novembre è che l’anno della misericordia non
finisca; finirà certo l’anno canonico, indetto con la Bolla di papa Francesco,
ma è il tempo della misericordia che non deve finire: l’anno della misericordia
deve tracimare e tradursi in un’età della misericordia. Altrimenti sarebbe
stato inutile. Certo resta il valore di tante specifiche cose buone che molti
hanno fatto, ma che cosa ce ne faremmo di un anno della misericordia se poi
tutto tornasse come prima, se poi dovessimo restare incardinati nella durezza
di cuore, nella violenza e nella guerra?
Per
come ce l’ha raccontata papa Francesco misericordia non è un sentimento
intimistico, un buonismo così dolce da essere disgustoso, ma è un’altra regola,
un’altra condizione e un altro governo del mondo. E per quanto riguarda la
dimensione religiosa, l’età della misericordia non solo è una nuova età della
Chiesa, ma è una nuova età della fede; cioè è una nuova età, un’altra modalità del
rapporto degli uomini e delle donne con Dio, pur nel quadro di religioni, fedi,
Chiese e culture diverse, a condizione che esse non si chiudano nei loro
fondamentalismi, nelle loro fissazioni identitarie, ma siano sensibili alla
conversione.
Perché
c’è bisogno di un’età della misericordia? Perché così il mondo non può vivere.
Se il futuro fosse solo la naturale prosecuzione del presente, o anche se,
attraverso le conclamate riforme, diventasse
la conservatoria ammodernata del presente (come c’è la conservatoria dei
registri immobiliari), il futuro non ci sarebbe, ovvero il futuro avrebbe i
giorni, gli anni contati. La
vera posta in gioco del 4 dicembre è perciò che la democrazia non si riduca a
uno scudo per garantire i governi, ma divenga un popolo in lotta per una
società nuova.
Per
fare questa scelta basta guardare il tormento che dilaga. Nel 2015 c’erano nel
mondo 65.3 milioni di persone costrette alla fuga, una persona ogni 113 secondo
l’agenzia dell’ONU. Nel Mediterraneo quest’anno fino a tutto settembre sono
morti 3498 profughi e migranti, che vuol dire dodici persone al giorno. Da quando
è cominciata la tragedia sono più di diecimila
le persone scomparse nelle acque, “desaparecidos”
scrive il Premio Nobel argentino Adolfo Perez Esquivel, secondo il quale “il
mare Mediterraneo si sta trasformando nella fossa comune di migliaia di
rifugiati che hanno perso la loro vita senza avere un destino”. Il sistema economico
globale, in cui 62 persone detengono la
metà della ricchezza dell’intera popolazione mondiale, non è in grado di
reggere la vita dei 7 miliardi 349 milioni di abitanti della terra. E per
quanto riguarda l’Italia tutti sanno che non c’è lavoro, le fabbriche che
c’erano si dislocano in Paesi dove non c’è ancora il costo dei diritti, o dove
non si pagano le tasse o dove conviene di più, a cominciare dalla FIAT che
invece, quando si è fatta la Costituzione, stava a Torino. La crescita è zero.
I licenziamenti sono aumentati del 7,4 % rispetto all’anno scorso, dopo la
vetrinetta del Jobs Act. Secondo la Caritas si è passati da un milione e
800.000 poveri del 2007, a 4 milioni 600.000 del 2015 (il 7,6 per cento del
totale). I giovani sono costretti ad
andarsene, è questa la vera ricchezza che ci sfugge: negli ultimi dodici mesi
107.529 italiani hanno lasciato il Paese, diecimila in più rispetto all’anno
prima. E in Siria si sta rischiando la guerra mondiale, non più “a pezzi”, come
dice il papa, ma planetaria, per lo scontro tra Russia e Stati Uniti innescato
dai jhadisti che combattono contro Assad con l’appoggio degli americani e della
NATO.
Si può cambiare?
Si
può cambiare questo corso delle cose? Sì, si può cambiare, contro il fatalismo
secondo cui non c’è niente da fare, contro la resa dettata dal motivo che “ce
lo chiedono i mercati”, “ce lo chiede l’Europa”, “non turbiamo le Borse”.
E
ce la possiamo fare perché non è vero che l’uomo è in mano a forze incontrollabili,
che si tratti di un Dio capriccioso o della forza del destino; egli è invece in grado di prendere in mano le
cose, di custodire il mondo e governare la storia. L’uomo, e la donna, come
esseri liberi, sono capaci di essere la causa delle cose, senza che ciò
significhi farsi superuomini. Questa non è una tesi progressista, prometeica, ereticale, ma è buona teologia, l’ha sostenuta
san Tommaso, quando all’uomo ha riconosciuto la ”causandi dignitas”, la dignità, cioè, di causare le cose. Né questa
affermazione è rimasta confinata nella “Summa Teologica”, ma ha attraversato
l’illuminismo, ed ora è solennemente riaffermata dalla Chiesa cattolica,
all’ora del suo rinnovamento. La si trova in un documento della Commissione
Teologica Internazionale, uscito nel primo anno del pontificato di Francesco,
in cui si rompeva ogni complicità con l’idea di un Dio violento, frutto di un
fraintendimento di Dio presente già nella stessa Bibbia, e si annunciava un
”irreversibile congedo del cristianesimo” da ogni violenza religiosa. Il
documento romano, nel mostrare il volto di questo Dio nonviolento, spiegava
che egli non entra in competizione con le creature. Al contrario, nella
sua bontà e sapienza, Dio ha dato alle creature la “dignità di essere causa (dignitas
causalitatis)”. Dio – dicevano i teologi del papa – “agisce in tutto
l’agire delle sue creature, ma non agisce come una causa tra le altre”. Questo
concetto è stato poi ribadito dallo stesso papa Francesco il 28 luglio scorso
in uno dei suoi tweet quotidiani, in cui ha scritto: “Il Signore sta in mezzo a
noi e si prende cura di noi, senza decidere al posto nostro”. Questa nuova
consapevolezza del compito dell’uomo si fa strada anche nella predicazione:
dopo il terremoto, nel funerale ad Amatrice, il vescovo di Rieti non ha citato
Giobbe e la sua proverbiale sopportazione, ma ha citato Geremia che non chiede
conto a Dio delle sue sventure; allo stesso modo il vescovo ha chiesto conto
all’uomo della sua responsabilità di fronte agli eventi: “non è infatti il
terremoto che uccide – ha detto - uccidono le opere dell’uomo”. Qualche giorno
dopo lo stesso papa Francesco ha detto che terremoti e vulcani hanno costruito
il mondo, hanno fatto emergere le terre, permesso la vita; siamo noi che non
custodiamo la terra, maltrattiamo la natura, maltrattiamo i fratelli. È perciò
su di noi che ricade la responsabilità del cambiamento.
Le cose pubbliche si cambiano con
la politica
Ma
come fa l’uomo a cambiare le cose? Nella vita personale con le virtù private,
certo; molti poi contano sulla preghiera; ma nella dimensione pubblica le cose
si cambiano con la politica.
Non
si può fare a meno dello strumento della politica. Il problema dei profughi,
che l’Europa respinge, si risolve con la politica. La società dell’esclusione
si riforma con la politica. La detronizzazione del denaro che governa invece di
servire, si fa con la politica. La tutela della salute si realizza con la
politica. Il lavoro si garantisce e si promuove con la politica. La guerra si
ripudia con la politica. L’ecosistema si salva con la politica. La
sopravvivenza di 7 miliardi e mezzo di persone sulla terra è possibile solo con
la politica. Siamo infatti in una situazione di dipendenza, di fame, di
scarsità di risorse, per cui solo se la politica decide che la maggior parte
degli uomini vivano, essi vivranno. Non è più come ai tempi di Aristotele, che
alla politica assegnava il compito di procurare la “buona vita”, oggi la
politica ha il compito di assicurare la “nuda vita”. Se essa non decide che i
poveri vivano, essi morranno. Ed è con la politica che si passa
dall’ingiustizia, dalla diseguaglianza, dallo sfruttamento, all’età della
misericordia, anche politica. Per operare questo passaggio, ciò che è
necessario non è confermare o rafforzare
il potere, ma cambiare la società e le opere del potere.
E
qui veniamo al referendum. Esso vuole rendere più efficiente il potere, vuole conservarlo
più forte e più prepotente di prima. Dice Renzi (e dice anche Napolitano) che
ci si sta provando da 30 anni - a fare la riforma - e non ci si è ancora
riusciti. Questa sarebbe la volta buona. Ma ciò vuol dire che è una riforma che
risponde ad esigenze di 30 anni fa, è la riforma del tempo di Craxi, non del
tempo di oggi. Il potere di allora
doveva vedersela con competitori interni agguerriti, incalzanti, c’erano i
partiti, i sindacati, l’associazionismo, c’erano i radicali col loro
ostruzionismo, i movimenti per la pace, gli altri movimenti d’opinione. Il
potere era in difficoltà. Oggi invece all’interno il potere è del tutto a suo
agio, volitivo e spregiudicato. Libero e farfallone, il potere oggi si libra
sul deserto della partecipazione politica. È dal di fuori invece che è
tallonato, dominato, è svuotato da poteri esterni più grandi di lui, Bruxelles,
le banche, i mercati, è assediato dagli spread e dai paradisi fiscali. Sono
questi poteri che gli impediscono ogni possibile politica economica, che vietano
ogni investimento o intervento pubblico, che portano all’estero le principali
fonti di ricchezza del Paese, i giovani e le fabbriche.
Una
riforma adatta ai tempi dovrebbe quindi rilanciare la politica, questa è la
vera risorsa che dovremmo mettere in campo per
superare lo spartiacque tra l’anno della misericordia e l’età della
misericordia, tra il 20 novembre e il 4 dicembre.
Invece
la verità del referendum sta nell’intenzione di minimizzare l’opposizione e
spegnere la politica. Intanto si mette fuori gioco il Senato. Renzi ha
confessato nelle sue maratone televisive che è “un incubo” dover avere la
fiducia dalla Camera e dal Senato. Poi si fa della Camera, con la legge
elettorale, una platea di consenzienti. Poi si prevarica sulla presidenza della
Camera dando al governo di decidere il calendario e pretendere le leggi a data
fissa. Poi si tolgono tutti i poteri (cioè la politica) alle Regioni, con il
rovesciamento della scelta di fondo del Titolo V, che era il regionalismo, non
la supremazia statale. Poi vengono ostruite le vie della democrazia diretta: sono
richieste 150.000 firme (con notaio e tutto) invece di 50.000 perché i
cittadini possano presentare una proposta di legge, e se poi si vorrà avere
qualche speranza di mandare a buon fine un referendum, si dovranno raccogliere
800.000 firme invece di 500.000.
Ed
ecco che alla fine appare un manifesto pubblicitario per il Sì che, con potenza
freudiana, rivela senza volerlo il vero scopo della riforma e della vittoria
renziana nel referendum. Esso dice: “Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei
politici? Basta un Sì”. Poi si sono accorti della gaffe, e l’hanno ritirato. Ma
l’obiettivo è quello, l’incomodo da togliere, per il potere che cerca di
vendere “all’Italia” questa sua riforma, sono i politici. Ma chi sono i
politici? Al tempo del fascismo i “politici” erano quelli che per ragioni
politiche stavano al confino o nelle carceri. Anche allora l’ideale del potere era
di diminuire i politici, e il modo era quello. Politici erano Gramsci e Pertini
a Turi, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi,
Camilla Ravera a Ventotene, Amendola, Lelio Basso, Nenni, Romita, Terracini,
Zaniboni, Scoccimarro, Pietro Secchia a Ponza, Carlo Levi ad Aliano, Turati, Parri, Carlo e Nello Rosselli,
Pacciardi a Ustica, e così via. Oggi, nella Repubblica democratica “politici”
sono tutti i cittadini, che, secondo l’art. 49 della Costituzione, hanno il diritto
di concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica
nazionale, non una volta ogni cinque anni, ma tutti i giorni, e hanno il
diritto di concorrere alla legislazione, come sovrani, sia attraverso la
rappresentanza eletta (non nominata e nemmeno imposta con liste bloccate), sia
attraverso le leggi di iniziativa popolare e i referendum. E sono appunto i
cittadini come politici (e non certo i duecento senatori) che la riforma, come
svolta epocale, vuole “diminuire”.
Tornare alla politica, ripopolare
il deserto
Inutile
dire che occorrerebbe fare proprio il contrario.
Giunti
a questo grado di desertificazione della democrazia, la decisione da prendere è
di ripopolare il deserto, di ripiantare gli alberi divelti, di irrigare le
terre inaridite, il che vuol dire il ritorno alla politica, la reinvenzione dei partiti o di altri strumenti
di partecipazione e di intervento, l’attivazione di nuovi coinvolgimenti di
classi e culture diverse, la creazione di laboratori, scuole e centri di formazione
politica. Si tratta di rifondare la democrazia, dare nuove
regole al potere, dare nuovi diritti e compiti ai cittadini,
Occorre
anzitutto riportare i giovani alla politica, dopo che abbiamo loro tolto ogni
incentivo ed ogni strumento per incontrarla. Abbiamo chiuso un serbatoio di
formazione politica, quale era il servizio civile derivante dall’obiezione di
coscienza al servizio militare. Lo hanno distrutto in odio all’obiezione di
coscienza abolendo l’obbligo militare, rendendo volontario e fittizio il
servizio civile e passando dall’esercito di leva a quello professionale.
Abbiamo abolito i movimenti giovanili dei partiti, distruggendo i partiti
popolari – la DC, il PCI, il PSI – e riservando la politica alle sole
nomenclature. Abbiamo costretto le giovani generazioni al precariato per poter vivere,
togliendo loro la possibilità di lottare per come vivere. E il risultato è che, senza politica, il 65 per cento
dei giovani, secondo una ricerca delle ACLI di Roma, sono pronti a rinunciare a
contratti regolari e ai diritti, pur di avere un lavoro.
Con i giovani si potrebbe mettere mano a vere
riforme miranti al futuro, di cui si può fare qualche esempio. Si dovrebbe anzitutto
estendere dall’Italia all’Europa l’assillo delle necessarie riforme. Occorre
riprendere in mano il “Trattato sul funzionamento dell’ Unione Europea” e mettere in causa l’art. 107 che proibisce gli aiuti di Stato. È la
normativa che proclama la sovranità del mercato, inteso come competizione tra i
soggetti privati, e impedisce l’assunzione dell’interesse pubblico nel
sistema economico. Di conseguenza è
preclusa l’iniziativa statale per correggere gli squilibri e intervenire nel
mondo delle produzioni e delle imprese. Non si tratta perciò solo della
sovranità monetaria che è stata devoluta all’Europa; i Trattati europei mettono
fuori legge l’economia mista, consacrano come unico legittimo il liberismo
assoluto, e fanno cadere pezzi interi della Costituzione repubblicana, a
cominciare dalla prima parte che assegna alla Repubblica il compito di
rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza e allo sviluppo delle persone. Una
riforma che investa l’Europa dovrebbe pertanto restituire alla Repubblica non
il governo della moneta, ma la libertà dell’uso della moneta e la legittimità
di una politica economica nazionale. La riforma governativa invece, all’art.
117, sottopone esplicitamente la nostra legislazione al vincolo
dell’ordinamento dell’Unione Europea, ipotecando in tal senso anche le future
sentenze della Corte Costituzionale.
Occorrerebbe poi mettere mano a una legge sui
partiti, che ne faccia strumenti non delle istituzioni ma della società, e ne
garantisca trasparenza e democrazia interna.
Si dovrebbe poi ripristinare l’obbligo al servizio
militare sancito dall’art. 52 della Costituzione, mutando tale servizio (in
accordo con la giurisprudenza della Corte) nella duplice modalità di un
servizio civile e di un servizio di difesa, a sua volta configurata come
servizio di difesa armata o di difesa non violenta.
Si dovrebbero infine coinvolgere nella
determinazione della politica del Paese le comunità di stranieri che vi abitano
stabilmente, facendo cadere la discriminazione della cittadinanza. E allora sì
che si potrebbe pensare a un nuovo Senato, non risospinto all’indietro, verso
il localismo, ma spinto in avanti, verso l’internazionalismo di un’unica
comunità umana; e in tale Senato si potrebbe realizzare la rappresentanza di
tutte le nazioni e le culture che formano la popolazione che vive in Italia, persone
che si nutrono della nostra terra e dormono sotto il nostro cielo, su cui il
sole sorge e tramonta come su di noi, sicché ci sia un voto degli stranieri in
Italia come c’è il voto degli italiani all’estero; allora sarebbe non solo il
Senato della Repubblica, ma un Senato dei popoli.
Raniero La Valle
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