Quarto discorso di Raniero La Valle su
“La verità del referendum” tenuto alle Comunità parrocchiali di Bitonto
nell’Auditorium dei Santi Medici Cosma e Damiano il 19 ottobre e al Circolo
Arci Rinascita di Sesto Fiorentino il 22 ottobre 2016.
Per parlare di una
nuova Costituzione, che investe il presente e il futuro, è bene partire dai
fatti del giorno.
Il primo di questi
fatti è che il 18 ottobre l’UNESCO ha approvato una risoluzione che invita
Israele a rispettare i diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma che ha il
torto di chiamare la Spianata delle Moschee col suo nome arabo, ignorando la
sua definizione ebraica come Monte del Tempio. Ciò ha provocato polemiche che
dovevano avere degli sviluppi nei giorni successivi. Il più vistoso è stato che
Renzi ha sconfessato il suo ministro degli esteri e ha definito “allucinante”
il voto che l’Italia ha dato astenendosi su quella mozione. Di per sé una questione
di denominazione non dovrebbe essere un casus belli, ma il fatto politico è il
rovesciamento della politica italiana di neutralità attiva tra Israele e
palestinesi, che risale a Moro e ad Andreotti. Ora Renzi nel conflitto fa una
scelta a favore di Israele, cioè fa una scelta di campo, e la fa come se fosse
scontata, come se l’Occidente a cui apparteniamo non fosse che un grande
Israele. E questo è un cambiamento della
figura stessa dell’Italia, però non discusso e non deciso da nessuno; decide il
primo ministro, e il suo stesso ministero degli esteri è preso in contropiede.
L’altra notizia da cui
partire per il nostro discorso è che il 14 ottobre è stato eletto il nuovo
Padre generale della Compagnia di Gesù, il venezuelano Arturo Sosa, che il
giorno successivo, nella messa di ringraziamento, ha detto che dobbiamo avere
l’audacia di intraprendere “l’improbabile e l’impossibile”. E la cosa che oggi
sembra impossibile, per quanto sia necessaria, è di fare “una Umanità
riconciliata nella giustizia, che vive in pace in una casa comune ben curata,
dove c’è posto per tutti”.
Purtroppo siamo in una
situazione opposta. Quello che dobbiamo fare, ha detto ancora il generale dei
Gesuiti, è “pensare per capire in profondità il momento della storia umana che
viviamo” e operare “per superare la povertà, la ineguaglianza e l’oppressione”.
Dunque, pensare la
storia, dice la Compagnia di Gesù.
Ebbene, non c’è bisogno
di essere cattolici per dire che nel momento in cui noi facciamo una nuova
Costituzione che dovrebbe essere la nostra Regola per decenni, dovremmo
misurarla con questi grandi temi che investono in profondità la nostra vita, e
non con piccole cose come il numero dei senatori o il falso problema del ping
pong tra Camera e Senato.
Un mondo in guerra
Vediamo allora la
situazione in cui siamo e il modo in cui la nuova Costituzione vi risponde.
Siamo in una situazione
di “guerra mondiale a pezzi”, come dice il papa, e ora siamo a rischio di una grande
guerra su più continenti. A Mosul, l’antica Ninive, è cominciata la decisiva battaglia
contro l’ISIS, che si difende in modo atroce, uccidendo e bruciando. Secondo
l’UNICEF ci sono di mezzo cinquecentomila minori. Stati Uniti e Russia si
fronteggiano militarmente in Siria. Aleppo è divisa in due, come Berlino. Solo
che a differenza di quanto accadeva a Berlino, Aleppo ovest bombarda Aleppo
est, e Aleppo est bombarda Aleppo ovest. Da una parte c’è Assad, con la Russia
che lo difende, dall’altra ci sono i terroristi “moderati”, con gli Stati Uniti
che li sostengono. Il vescovo cattolico maronita di Aleppo, mons. Joseph Tobji, è venuto il 4
ottobre alla Commissione Esteri del Senato italiano, per far arrivare un grido
all’Occidente. Ha detto che non c’è solo la sciagura di Aleppo est, tenuta dai
governativi, di cui parlano tutti i giornali; anche Aleppo ovest è devastata,
la popolazione è stremata, senza acqua né cibo né luce; ospedali e chiese
cristiane sono distrutti, gran parte della popolazione della città, che
ammontava a 4 milioni di persone, è profuga. Le guerre provocano le grandi
fughe, le cui ondate arrivano in Europa che, illudendosi di chiudere le porte,
si suicida.
Il vescovo di Aleppo
dice: “siamo giocattoli in mano dei Grandi”, che si fanno la guerra per
procura. La guerra è cominciata nel 2013 - ha detto – “sotto la minaccia di
morte degli Stati Uniti”. Come si ricorderà nel settembre 2013 la guerra alla
Siria, che era già pronta a partire, fu sventata da papa Francesco con la
grande veglia di preghiera in piazza san Pietro. L’Occidente voleva il controllo
della Siria e liquidare Assad, come aveva fatto in Iraq con Saddam Hussein, in
Libia con Gheddafi, in Afghanistan con Bin Laden. Ma questa volta la guerra non
la poté fare. Allora essa fu intrapresa
dai ribelli anti-Assad, chiamati liberatori e sostenuti e armati dagli Stati
Uniti. Era prevedibile che dall’altra parte intervenisse la Russia, se voleva
continuare ad avere quel ruolo mondiale che, nella miope percezione americana,
essa aveva ormai perduto. Ed infatti la Russia di Putin è intervenuta con la
sua forza politica, e con i suoi aerei e soldati. Se ora Russia e Stati Uniti negoziano
un armistizio a Losanna, vuol dire che la guerra è tra loro.
Come se non bastasse,
dopo la fine dei blocchi la NATO si è allargata ad includere i Paesi che avevano
fatto parte del Patto di Varsavia, e addirittura i Paesi baltici che avevano
fatto parte dell’Unione Sovietica, avanzando le sue basi fino ai confini della
Russia: come ha detto Sergio Romano, che è stato ambasciatore a Mosca e alla
NATO, questo è stato un errore, e non poteva essere vissuto dalla Russia che
come un atto ostile. Poi, dopo l’intervento russo in Crimea e la crisi in
Ucraina, l’Occidente ha imposto le sanzioni al Cremlino. Ora ha deciso di fare
nel 2017 delle esercitazioni militari in Lettonia ai confini della Russia, e
anche l’Italia manderà un corpo di spedizione di 150 uomini, come fece Cavour
in Crimea. L’altro giorno da Washington è stato preannunciato un attacco
cibernetico alla Russia. E Putin ha detto: attenti, state scherzando col fuoco.
Dunque oggi una guerra
tra le grandi Potenze è tornata ad essere una possibilità reale.
Ora è evidente che
questa guerra non ci riguarda, perché come sta scritto nella prima parte della
Costituzione che ancora formalmente è in vigore, l’Italia ripudia la guerra
come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controverse internazionali; e tutte le guerre oggi in atto o
minacciate appartengono a questo tipo di guerra che l’Italia rifiuta.
Allora la domanda è se la
nuova Costituzione garantisce che non partecipiamo a guerre che ci sono
estranee, o se invece rimuove gli ostacoli e apre la strada a un nostro
coinvolgimento nelle guerre presenti e future.
Ebbene, è proprio la
seconda cosa che accade; di fatto il popolo non avrà più alcuna garanzia
costituzionale di non essere trascinato in una guerra non sua.
Poi ci sarà un don
Milani che lo denuncerà, ma sarà troppo tardi.
Vediamo dunque la nuova
Costituzione renziana. Riguardo alla guerra c’è un’innovazione esplicita e
dichiarata, e ci sono delle innovazioni implicite e non dette che però
travolgono tutte le garanzie.
L’innovazione esplicita
è che il Senato, il quale non è affatto abolito, secondo l’articolo 78 della
nuova Costituzione è escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e
al conferimento al governo dei relativi poteri, deliberazione che invece è
riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché
secondo la riforma il Senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali,
dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti
dalla guerra; ed è molto strano anche perché secondo la riforma il Senato
dovrebbe funzionare come raccordo con l’Unione Europea, dovrebbe partecipare
alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione
Europea; inoltre dovrebbe valutare le politiche pubbliche all’interno e
l’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori. Dunque dovrebbe
mettere becco su tutto ma non sulla guerra, e dovrebbe avere un peso
determinante nel rapporto con gli Stati europei, ma non avrebbe alcun potere
nella decisione più importante riguardante il rapporto con tutti gli Stati,
europei e non europei, che è precisamente la decisione sulla guerra.
Il Senato, una testa di turco
Questo dimostra quale
era la vera intenzione dei riformatori riguardo al Senato. Il Senato è la vera
testa di turco della riforma ed è la cartina di tornasole che rivela il
discrimine tra ciò che è falso e ciò che è vero nella riforma che ci viene
proposta.
E’ falso l’argomento
che il Senato venga riformato perché Camera e Senato oggi fanno la stessa cosa,
sicché uno dei due sarebbe inutile. Anche il Tribunale e la Corte d’Appello
fanno la stessa cosa, fanno gli stessi processi, ma non è affatto inutile che
la libertà dei cittadini sia tutelata da due gradi di giudizio. Anche la
polizia e i carabinieri fanno la stessa cosa, ma non è affatto inutile che se
un colpo di Stato lo fanno i carabinieri, la polizia glielo possa impedire, o
viceversa. Le Costituzioni democratiche sono lì proprio perché, quando si
tratta del potere, le cose possano essere viste da due parti diverse.
E’ falso che il Senato
venga riformato per valorizzare le Regioni e le autonomie locali. Anzi proprio
nel momento in cui si fa finta di fare un Senato delle autonomie, la scelta
autonomistica viene rovesciata, potremmo dire ripudiata.
Infatti si passa dal
regionalismo della Costituzione del ’48 al centralismo statale, in base alla
ideologia che tutto è dello Stato, e nulla al di fuori dello Stato. Non si
tratta solo di una diversa ripartizione di competenze tra le regioni e lo Stato;
in questo quadro, come dicono giustamente i fautori del Sì, una correzione
rispetto a una eccessiva varietà di normative (ad esempio riguardo al turismo e
al commercio estero) era necessaria. Si tratta invece del fatto che mentre
nella Costituzione vigente, all’art. 117, si prevede che alle regioni spetti la
potestà legislativa sulla generalità delle materie, tranne quelle espressamente
attribuite allo Stato, e quelle di competenza comune, nella riforma - abolita la legislazione concorrente - c’è
un’invadente esclusiva competenza legislativa dello Stato, di cui alcuni
residui sono lasciati alle Regioni. Ma si tratta soprattutto di leggi di ordine
organizzativo e promozionale (come ad esempio la “promozione”, ma non la tutela
e la valorizzazione, dell’ambiente e dei beni culturali). Nulla si toglie
invece ai privilegi delle Regioni a statuto speciale (che potranno essere
modificati solo d’accordo con le Regioni stesse), mentre altri frammenti di
autonomia potranno essere gentilmente concessi per legge dallo Stato a qualche
Regione meritevole o più ricca, dotata di bilanci virtuosi, in seguito a
specifiche trattative ed intese tra quella Regione e lo Stato. Per esempio si
dovrà vedere se la Regione Puglia, che ha fatto una legge per attribuire un
“reddito di dignità” ai non abbienti, per poterlo fare anche in futuro, a norma
dell’art. 116, 3 comma dovrà chiedere allo Stato che glielo conceda per legge,
sempre che dimostri di essere “in condizioni di equilibrio tra le entrate e le
spese del proprio bilancio”. In ogni caso, sia nella legislazione che nel
sostituirsi agli organi degli enti locali, a norma dell’art. 120, il governo può
avvalersi della “clausola di supremazia” in nome dell’unità giuridica ed
economica della Repubblica. In sostanza mentre si rottama il Senato, per gabellarlo
come Senato delle autonomie, le autonomie non ci sono più, ed è perciò che si
dice che il Senato si riunirà per poche ore al mese; e dunque si passa dalla
forma di Stato articolato in Regioni, che in un recente dibattito televisivo Luciano
Violante ha definito come un “policentrismo anarchico” al ristabilimento della
supremazia dello Stato e della sua piena sovranità rispetto agli enti
territoriali. Ma la forma di Stato è anche la forma della democrazia. E
l’alternativa di società fatta di “formazioni sociali” e di autonomie che sta
scritta nella prima parte della Costituzione, fu scelta dal costituente del
1947 come antidoto a quella che è stata chiamata “la sindrome del tiranno”.
Resta allora che i veri
obiettivi della riforma del Senato erano due: il primo, quello di togliere al governo
il fastidio di dover ottenere la fiducia di due Camere; il secondo, quello di
sterilizzare il Senato e le comunità territoriali che esso dovrebbe rappresentare,
rispetto alle decisioni supreme relative alla pace e alla guerra.
Quali garanzie contro guerre
inconsulte?
Venuta meno la doppia
garanzia di una conforme decisione di Camera e Senato sulla deliberazione dello
stato di guerra, si potrebbe pensare però che l’ostacolo a guerre inconsulte
sarebbe rappresentato da quanto previsto, e non formalmente abrogato, nella
prima parte e segnatamente nell’art. 11 della Costituzione.
Ma purtroppo così non
è, perché di fatto quel limite all’ingresso dell’Italia in guerre non sue è
stato cancellato e poi superato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine
della guerra fredda. Fino a quel momento, secondo gli articoli 11 e 52 della
Costituzione, l’unica guerra ammissibile, l’unica guerra in cui legittimamente
l’Italia potesse e dovesse combattere, era quella corrispondente al “sacro dovere”
– come lo definisce l’art. 52 – della difesa della Patria. E per difesa della
Patria si intendeva la difesa del popolo e del territorio, tant’è vero che
l’esercito era schierato sulla soglia di Gorizia per far fronte ai famosi cosacchi che
dovevano venire dall’Est. Ma nel 1991
l’Italia sdoganò la guerra partecipando alla prima guerra del Golfo contro
l’Iraq. E il 26 novembre 1991, come ho
raccontato in un recente discorso a Messina, il governo venne da noi in
Parlamento e presentò alla Commissione Difesa alla Camera (di cui facevo parte)
un Nuovo Modello di Difesa in cui la guerra tornava a essere legittimata e la
difesa non era più identificata con la difesa dei sacri confini della Patria,
ma con la tutela degli interessi anche economici e produttivi dell’Italia
dovunque essi fossero in gioco; a tale
scopo veniva potenziato un esercito professionale ristrutturato come Forza
di intervento rapido e di proiezione di potenza e più tardi lo stesso servizio
obbligatorio di leva veniva lasciato cadere. In più si provvedeva alla
sostituzione del nemico, che non essendo più quello sovietico veniva
individuato nell’Islam secondo il modello del conflitto divenuto ormai permanente
tra Israele e mondo arabo.
Il Modello di Difesa
non venne mai discusso né approvato dal Parlamento, ma venne di fatto tradotto
nella legislazione sulle Forze Armate, nei bilanci della difesa e nelle scelte
dei governi. Venuto meno il limite stabilito dalla Costituzione, la decisione
sulle guerre da fare veniva di fatto affidata ai governi, e i loro primi
ministri ne fecero largamente uso. Addirittura l’Italia partecipò ad una nuova
guerra in Europa contro la Jugoslavia e il presidente D’Alema teorizzò il
valore politico di quella scelta interpretandola come una espressione
necessaria della politica estera dell’Italia e del suo contare nel mondo.
Poiché un’analoga
concezione della difesa e dell’uso delle forze armate è stata nello stesso
tempo adottata dalla NATO e da tutto l’Occidente, tutto ciò che ne è seguito,
ivi compreso il terrorismo, la catastrofe delle Due Torri, il parto cruento dello
Stato islamico, lo scontro con l’Islam, i soldati italiani in Libia e a Mosul,
e ora la sfida alla Russia, sono conseguenze di quella scelta.
Si direbbe che
l’Occidente il cui sistema economico e politico è entrato in una profonda crisi
essendosi mostrato incompatibile con l’ordine del mondo, cerchi nell’incremento
delle armi, nell’estensione del dominio e nella disseminazione delle guerre una
risposta alla sua angoscia riguardo al futuro; ed è come se noi dovessimo
partecipare a tutte le guerre di un capitalismo sfrenato, invece che operare,
come dice il generale dei Gesuiti, “per superare la povertà, l’ineguaglianza e
l’oppressione”.
In questa situazione, in
cui si accentua la discrezionalità dei governi, diventa molto pericoloso che
non si possano esprimere le voci dei popoli e che le decisioni possano essere
prese da capi politici dai poteri incondizionati e liberi da controlli e
garanzie.
Questa è la ragione per
cui una Costituzione che tende ad assicurare una governabilità insindacabile
per cinque anni e a ridurre il controllo del Parlamento sul capo politico di turno, mentre si stende come
un’ombra l’ipoteca dei grandi poteri militari e finanziari mondiali, sguarnisce
i popoli di ogni difesa contro inconsulte decisioni di guerra. Nel caso
italiano il nuovo sistema costituzionale risultante dal combinato disposto
della Costituzione riformata e della legge elettorale maggioritaria, istituisce
una nuova forma di governo che è stata chiamata in dottrina una “forma di
governo di legislatura a vertice monocratico elettivo” . Questo modello,
costruito sulla formula del “Sindaco d’Italia”, ormai al di fuori della forma
della democrazia parlamentare, finisce
per attribuire al primo ministro un solitario potere di decidere tra la pace e
la guerra. Il fatto che per la sua sussistenza, mediante la fiducia, il governo
dipenda solo dalla Camera e che la maggioranza assoluta dei deputati, pur
necessaria per la deliberazione dello stato di guerra, sia rappresentata da
parlamentari di un solo partito, per di più scelti dallo stesso primo ministro
e non eletti dal popolo, fa sì che nella situazione di massimo pericolo in cui
il mondo è oggi precipitato il rischio di essere portati verso una guerra, mentre giornali,
televisioni e commentatori politici parlano d’altro, è molto elevato.
Basta ricordare che la
decisione di muovere la guerra alla Turchia e di invadere la Libia, che fu l’inizio
del lungo conflitto, che si ripete ancor oggi, fra l’Italia e l’Islam, nel settembre
del 1911 fu decisa dal solo Giolitti, che se ne stava a Dronero, mentre il Re
era in vacanza a San Rossore e il Parlamento era chiuso per ferie. Il problema
è che il mondo di oggi è molto più pericoloso di quello di allora, ci sono le armi
atomiche e i nuovi califfi, islamici o no, non sono affatto al tramonto come lo
era allora il potere dell’Impero ottomano.
Facciamo questo
discorso in un momento particolarmente delicato perché dobbiamo registrare il
fallimento sul piano internazionale della presidenza di Obama. Voleva fare un
mondo senza guerre, e lascia un mondo più frantumato e in guerra di prima. E
ciò proprio per le politiche sbagliate degli Stati Uniti che hanno un’innata
tendenza al dominio che passa da un’amministrazione a un’altra: essa fu
formalizzata, all’inizio del 2000, nella scelta dell’obiettivo di “un nuovo
secolo americano” a cui erano finalizzate le politiche di riarmo e di egemonia
adottate nella cosiddetta nuova “Strategia della sicurezza nazionale”. La
devastazione dell’America Latina, il braccio di ferro con la Russia, e
soprattutto la spinta al dominio del mondo arabo nel Medio Oriente ne sono dei
capitoli. E’ possibile che questa spinta verso un mondo e un tempo “americani”–
caduti i tentennamenti di Obama – continui nella presidenza di Hillary Clinton (esorcizzato il
fantasma di Trump), e che l’America sia portata a fare tutte le guerre del
capitalismo in armi. Ed è solo grazie al papa che queste guerre non potranno
più essere definite come guerre sante o di civiltà. Sono guerre e basta.
E qui si vede il
pericolo di una totale dipendenza dei primi ministri italiani dal presidente
americano, come quella manifestata ed enfatizzata da Renzi alla Casa
Bianca, perché vuol dire che l’Italia sarà
chiamata a fare tutte le guerre che l’America deciderà di fare o vorrà che
siano fatte. Ciò rende Obama uno sponsor non troppo affidabile del SI al referendum
costituzionale. Anzi l’endorsement di
Obama è un ottimo indicatore: proprio perché l’America dice di Sì, forse
l’Italia dovrebbe dire di No.
Raniero La Valle
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