Raniero La Valle
Quinto discorso su
“La verità del referendum” tenuto il 7 novembre per Agorà 2015 nella Parrocchia
del Volto Santo di Salerno.
Chi vincerà il prossimo
referendum? Ormai da molti mesi l’unico scopo, l’”oggetto immenso” della
politica italiana è la vittoria nel referendum.
Renzi non pensa ad
altro, e attribuisce all’esito del referendum conseguenze epocali sia per il
vincitore – che dovrebbe essere lui – sia per i perdenti che dovrebbero essere
tutti gli altri (D’Alema, Bersani, Zagrebelski, i Cinque Stelle, i gufi, i
parrucconi).
Alla
Leopolda, il 5 novembre, tirava una brutta aria: come ha sintetizzato la Repubblica: “abbracci agli amici,
botte ai nemici”. Scrive Michele Prospero sull’Espresso: «Renzi cerca
continuamente un nemico, qualcuno a cui stare antipatico: se ne è creati molti,
spesso scientificamente. Renzi cerca la
contrapposizione così come cerca continuamente l’acclamazione. La cerca alla
Leopolda o durante le direzioni del Pd, che sono entrambi luoghi di obbedienza
e celebrazione».
E la parola d’ordine
alla Leopolda era di dare battaglia anche in caso di sconfitta, di “non farsi
rosolare” a Palazzo Chigi.
Come riferiva il Corriere della Sera quello stesso giorno,
Renzi avrebbe detto che in ogni caso avrebbe deciso di andare avanti e di “non
mollare”, perché è meglio “morire da Renzi che vivere da pecora”.
In questa visione la
vittoria è ciò che fa la differenza; se poi non si vince bisogna rilanciare e
giocarsi tutto, perché, parafrasando ciò
che si diceva una volta, è meglio vivere un giorno da Renzi che cent’anni da
pecora.
Ciò mette la vittoria
al centro della visione della politica. Non è affatto una visione peregrina,
perché corrisponde ad una illustre dottrina elaborata durante il nazismo dal
grande giuspubblicista tedesco Carl Schmitt, secondo cui la politica
consisterebbe nella dialettica amico – nemico, e avrebbe perciò nella vittoria
il suo naturale e necessario obiettivo.
Questa visione non è
però quella della Costituzione Italiana che coltiva il progetto di una società
di liberi e di eguali, in cui non ci siano sconfitti e perciò nessuno sia
considerato nemico.
Ora il problema non è
che il Presidente del Consiglio abbia personalmente un’altra opinione, com’è
legittimo. Il problema è che la riforma costituzionale sottoposta a referendum
insieme alla legge elettorale che l’accompagna, assume precisamente la vittoria
come criterio supremo della politica, e disegna un progetto di società divisa
in vincitori e vinti.
E’ questo infatti
l’obiettivo più ambizioso dei riformatori, continuamente riproposto nel facile
slogan secondo cui la sera delle elezioni si deve sapere chi ha vinto e chi,
invece, è rimasto sconfitto, e lo dovrà necessariamente rimanere nella migliore
delle ipotesi per cinque anni, fino alle successive elezioni. La proposta
referendaria sposta l’accento da una società in cui non ci sono sconfitti (e in
cui anzi è compito della Repubblica rimuovere le cause, anche di ordine
economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini ne fanno degli sconfitti) a una società di vincitori e di vinti.
Questa non è una buona
cosa. Il massimo beneficio di un sistema elettorale non è di far sapere subito
chi vince, e mettere fuori gioco chi perde; questa è la cosiddetta democrazia
governante dei riformatori, secondo la quale chi vince vince tutto, chi perde
perde tutto, e il trofeo e il frutto
della vittoria sono lo spoils system, cioè la divisione delle
spoglie. È questo il valore che oggi viene innalzato sugli scudi dai fautori
della semplificazione e dell’efficienza di una democrazia decisionista, questa
è la nuova morale politica, che in realtà è la vecchia, reazionaria concezione
politica del Principe secondo Machiavelli.
Io credo invece che per
salvare la politica e per salvare la democrazia dobbiamo reagire contro
l’ideologia della vittoria. E’ questa l’ideologia del potere incontrollato,
l’ideologia di Cesare: “veni, vidi, vici” (venni, vidi, vinsi); è l’ideologia
di Brenno contro i Romani: “vae victis” (guai ai vinti); è l’ideologia di
Costantino che con il suo sogno a Ponte Milvio ha inquinato 1700 anni di storia
cristiana trasformando il cristianesimo in cristianità: “in hoc signo vinces”;
la croce massimo simbolo di amore e di condivisione usata come insegna e totem
di vittoria, toponimo delle crociate e stigma d’identità; un marchio selettivo e
ostile, rappresentativo di un’identità nazionale e politica, atea e devota,
cosa che è durata fino a ieri, fino a papa Francesco che ha deciso di uscire
dalla cristianità per tornare al cristianesimo, che è la vera riforma oggi in
corso.
In effetti la vittoria
non è tutto. Nel mondo ci sono ben altri problemi che vincere o perdere. Tra
Israele e Palestina il problema è di chi vince? Tra chi vuole salvare i
profughi e chi vuole abbandonarli al mare, il problema è chi vince? Tra la
gente accampata nella giungla di Calais e gli inglesi che sbarrano il tunnel
della Manica, il problema è chi vince?
La vittoria rimanda al
potere. Il discorso sulla vittoria è un discorso sul potere. La vittoria è il
movente e il fine della politica moderna intesa come scontro tra nemici. Ma la
vittoria non è affatto il movente e lo scopo della politica, non è il criterio
di giudizio sulla qualità del potere, e non è per niente tra i principi e i valori
fondamentali su cui è costruita la Costituzione Italiana e l’ordinamento dello
Stato. Il potere non deve vincere per dividere, ma deve governare per unire; il
consenso, la mediazione, il sostegno ai poveri e ai perdenti dovrebbero essere
la norma per il potere. I re dell’Antico Medio Oriente, ai tempi del codice di
Hammurabi, erano i difensori degli sconfitti, avevano il compito di compensare
con la forza del potere la debolezza dei poveri. Antichi codici parlano del re
come del padre dell’orfano, marito della vedova, sostegno di chi non ha madre.
L’ideologia della
vittoria fa brutti scherzi; la Germania umiliata dopo la sconfitta nella Grande
Guerra produsse Hitler, le democrazie del dopoguerra nell’Italia stremata e
nella Germania divisa rinacquero con il piano Marshall.
L’ideologia della
vittoria è quella che ci sta facendo rischiare la Costituzione, che non è più
considerata in se stessa, ma solo come strumento di una battaglia campale per
innalzare o abbattere un potere; essa fa da capro espiatorio di una contesa
tutta politica, sicché perfino i filosofi dicono che la Costituzione proposta è
un orrore, però la votano per far vincere Renzi; la vittoria diventa così il
massimo bene, la grande occasione offerta all’Italia, perché grazie alla
riforma ci sarà sempre un vincitore e ci saranno dei perdenti, e l’ultima
parola della storia non sarà più né capitalismo né democrazia, ma sarà
vittoriocrazia. Chi vince è il sovrano, tutti gli altri tornano ad essere
sudditi. Questo è il futuro? No, questo di certo è il passato, non è il nuovo
che avanza, è il vecchio che ritorna.
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