venerdì 11 novembre 2016

Con Trump e la politica in pezzi teniamo ferma la garanzia della Costituzione



Discorso tenuto  il 9 novembre nell’Auditorium Fabia Gardinazzi di Viadana (Mantova).

          Il 9 novembre al Centro Sociale di Salerno ho partecipato a un incontro sul referendum il cui titolo era: “Le ragioni del Sì, quelle del No, le ragioni del dubbio”.
          Il prof. Alfonso Conte che mi interrogava mi ha rivolto una domanda cruciale: “davvero se si vota Sì si innesca una deriva autoritaria, ed è a rischio la stessa democrazia? E si può pensare che un Renzi, che cita La Pira e vanta una formazione da scout, proponga una riforma che è contro i poveri e manca di lealtà verso la democrazia?”.
          A questa domanda ho risposto appellandomi alla terza delle tre ipotesi in discussione: le ragioni del dubbio.
          Non è certo che con la nuova Costituzione della Boschi e di Renzi si prepari un futuro autoritario e che la democrazia vada perduta. E’ vero, si diminuiscono le difese e si aprono dei varchi, ma non si può dare per certo che la democrazia perisca, né che, al contrario, essa continui e si rafforzi. Sulla scorta delle analisi dei maggiori costituzionalisti, è lecito il dubbio; anzi proprio il dubbio è la posizione più ragionevole.

          Ma il problema è: quando sono in gioco la democrazia, la pace sociale, i giusti rapporti tra il popolo e il potere, possiamo permetterci il dubbio? Noi sappiamo bene quanto questi valori, di recente acquisiti, siano costati, in lotte, dolori e sangue; sappiamo quanto sia vitale che mai più siano perduti e sappiamo che cosa essi valgano per noi e per i nostri figli, proprio i figli a beneficio dei quali si dice che sarebbero fatte “le riforme”. Possiamo giocare d’azzardo, mettere sul tavolo verde democrazia e libertà, nel dubbio scommettere che il potere non abusi dei suoi nuovi artigli, in nome di procedure più stringenti e spicciative?
          Se il dubbio non è rimosso (e non è nemmeno il cambiamento della legge elettorale che potrebbe scioglierlo) e la democrazia è a rischio, occorre far ricorso, al principio di precauzione che è quello che si deve adottare quando sono in gioco valori supremi, come la stessa vita. E’ questo ad esempio il principio che viene invocato nelle discussioni sul futuro della terra, quando si dibatte se davvero il sovvertimento climatico provocato dall’uomo possa mettere fine alla vita sulla terra: nel dubbio, e prima che l’irreparabile accada, responsabilità vuole che si faccia la scelta dettata dal principio di precauzione; devono essere bloccate o diminuite le possibilità stesse che ciò accada.
          Questa scelta di responsabilità tanto più deve essere fatta quando con l’elezione di Trump in America tutte le previsioni, anche le più scontate, sono saltate; il fallimento della globalizzazione (che è in realtà il nuovo nome del capitalismo), l’incapacità della politica a dare risposte al problema di 62 milioni di fuggiaschi, di profughi e di migranti gettati nel mondo, stanno provocando reazioni angosciose negli elettorati e hanno aperto una nuova fase nella storia del mondo, in cui tutto è possibile.
          Non sono colpite le ideologie, ma la vita, le case, gli ambienti vitali, il futuro delle persone. Guerra ed esodo, che ci sono sempre stati, stanno assumendo, con la loro pervasività universale, caratteristiche nuove e distruttive non solo delle cose, ma del nucleo più profondo della personalità umana.
          Una psicoterapeuta, adusa alla frequentazione di queste sofferenze, Anna Sabatini Scalmati, così ha evocato questi due fenomeni in una relazione a un convegno su “Psicoanalisi e luoghi del trauma sociale”, tenutosi il 22 ottobre a Lecce.
“Nelle aree di guerra – ha detto Anna Sabatini – la morte lavora all’ingrosso, conta il numero dei ‘colpiti’ con cifre a più zeri, annienta la vita psichica; i bombardamenti trasformano in cumuli di macerie i luoghi di culto; i monumenti – rimandi culturali eretti a memoria di eventi fondativi della comunità; le abitazioni civili, gli edifici che il contratto sociale ha eretto a protezione della vita: ospedali, scuole, palazzi della politica, istituti culturali, ecc…
          “La guerra mette tra parentesi l’interdetto delle tavole della legge, rende lecito l’uccidere, ottunde l’autorevolezza dei garanti metasociali, svilisce la Dichiarazione universale dei Diritti. Distrugge le infrastrutture: la rete idrica, elettrica, i ponti e  le linee di comunicazione. Semina la terra con mine antiuomo, rende insicure l’agricoltura e la pastorizia: antiche, primarie fonti di sussistenza.
          “La guerra opacizza il lutto. Dei bombardamenti si conosce il numero approssimativo dei morti; ma il macroscopico oblitera il microscopico. Si piangono i singoli, non le migliaia; più il numero è grande, più l’individuo, la singolarità, l’unicità della sua esperienza, scompare.
          “Sulla scia della guerra avanza lo spettro della fame e l’alito malsano della miseria. L’angoscia si duplica e macula l’orizzonte di paure.
          “La paura discende dal cielo che – da regno del sole e della luna, da reggia dell’olimpo, del dio delle religioni monoteiste, a cui per millenni l’umanità ha offerto sacrifici, rivolto preghiere, bruciato incenso e tratti presagi dal volo degli uccelli – è divenuto un inverecondo arsenale di morte. Dai suoi spazi solcati da fortezze volanti – F16, droni, caccia, ecc. – precipitano sulla terra uragani di bombe.
          “La paura sgorga dal mare sulle cui acque navigano portaerei, sottomarini atomici.
          “La paura abita la terra ove avanzano rombanti le truppe amiche e nemiche e, nei luoghi ove pulsa la vita quotidiana, esplodono i kamikaze.
          “Paure che sopravanzano ogni pensiero, tingono di vergogna l’immagine dell’umano che reca la morte a sé e al simile, rendono nefasta la stanzialità e impossibile la continuità della vita sulla terra degli antenati. La paura rizza la pelle e nel contempo chiede di prendere atto della realtà, di ciò che non si può pensare fino in fondo: abbandonare la terra, la casa, le mura che, mute testimoni dei linguaggi affettivi, dei progetti dell’intimità coniugale, dai vagiti dei nuovi nati, hanno protetto il sonno dopo pesanti ore di lavoro e assistito al ‘supremo scolorir del sembiante’ di coloro che vi sono deceduti. Abbandonare la casa, pelle seconda, esterna, pregna di proiezioni, consce e meno, del proprio ‘Io/ambiente/mondo’, è una decisione lacerante.
          “La sopravvivenza, la razionalità, suggerisce la fuga, ma la mente – appesantita da oscure paure – fa fatica a sostenerla. Si preparano i fagotti, si serrano le porte, ma le gambe tremano, un’inedita vulnerabilità le soverchia; uno stato di insensatezza dissolve il senso dell’esistenza”.
          E riguardo allo sradicamento di uomini e donne in fuga dalla loro patria, e al rifiuto di accoglierli, la relatrice dice:
“Non indignarsi di fronte ai fatti che sbarrano la strada alle popolazioni in fuga da una morte certa ci spoglia di ogni innocenza. Tra le vittime e gli oppressori, sottolinea Escobar, ‘tra chi fa e chi guarda non c’è un confine netto, ma un’area grigia nella quale gli ‘innocenti’ rischiano di trasformarsi in complici. Si tratta di un rischio che riguarda tutti, e che a tutti tocca di valutare’.
“L’imponente flusso dei profughi dei nostri giorni avanza con rischi che l’intera comunità è chiamata ad affrontare affinché le diversità culturali non degenerino in metastasi sociali e non umilino con divieti paranoici – no al Burqa, no al Burqini – la comunità. Lo ‘spettro che si aggira per l’Europa’, non è l’umanità in cerca di salvezza, ma l’intolleranza verso l’altro, il diverso. Intolleranza che corrompe le coscienze, virus che con inattesa rapidità infetta intere nazioni e rende il vicino di ieri il nemico di oggi”.
          E chi deve rispondere, chi deve curare queste patologie?          Gli psicanalisti? I medici? Le guardie di frontiera, la protezione civile?  No, la politica; solo la politica può correggere i guasti della globalizzazione, può aver ragione della guerra, può dare risposte al dramma di un’umanità che è una, ma che oggi è divisa tra residenti e profughi, tra stanziali e fuggiaschi, tra cittadini e stranieri,  tra necessari ed esuberi, tra presi e scartati. La politica, e naturalmente le Costituzioni e, più ancora, il costituzionalismo, sono le grandi risorse di cui ci siamo dotati per maneggiare le crisi.
          Resta la domanda: si può pensare che riformatori che vengono da tradizioni democratiche, da esperienze cristiane, da ideologie di sinistra, con le loro ostinate proposte di riforma vogliano mettere a rischio costituzionalismo e democrazia?
          Respingendo qui la tentazione del dubbio, si può rispondere di no. Però spesso in politica c’è un’eterogenesi dei fini. Per calcoli sbagliati, o incauti, o un’insufficiente etica pubblica, si può aprire la strada a esiti non voluti. A vedere certe esibizioni sul referendum, soprattutto quelle televisive, si direbbe che questa riforma sia più frutto di ignoranza che di cattiveria. Ma questo rende ancora più doverosa l’adozione del principio di precauzione, e tanto più dopo la vittoria di Trump, che mostra che cosa succede quando a governare sono le banche e il denaro, e la gente cerca un’altra offerta politica. E se le offerte politiche alternative non sono all’altezza della sfida, come ultima difesa resta la Costituzione.
          Chi ha il potere e maldestramente lo usa, può finire, e condurre altri, dove non voleva. C’è una figura famosa in letteratura che è quella dell’apprendista stregone. Quando ero giovane non ero abbastanza colto da aver letto la ballata di Goethe L’apprendista stregone ispirata a un testo di Luciano di Samosata, però fui colpito dal film Fantasia di Walt Disney, in cui l’incauto apprendista per rubare il mestiere al maestro stregone mise in movimento delle forze incontrollabili che non fu più in grado di far rientrare nell’ordine. Anche se gli apprendisti stregoni sono in buona fede, basta un No per impedire loro di nuocere.
                                                    Raniero La Valle









           


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