Discorso
tenuto il 9 novembre nell’Auditorium
Fabia Gardinazzi di Viadana (Mantova).
Il 9
novembre al Centro Sociale di Salerno ho partecipato a un incontro sul
referendum il cui titolo era: “Le ragioni del Sì, quelle del No, le ragioni del
dubbio”.
Il
prof. Alfonso Conte che mi interrogava mi ha rivolto una domanda cruciale:
“davvero se si vota Sì si innesca una deriva autoritaria, ed è a rischio la
stessa democrazia? E si può pensare che un Renzi, che cita La Pira e vanta una
formazione da scout, proponga una riforma che è contro i poveri e manca di
lealtà verso la democrazia?”.
A
questa domanda ho risposto appellandomi alla terza delle tre ipotesi in
discussione: le ragioni del dubbio.
Non è
certo che con la nuova Costituzione della Boschi e di Renzi si prepari un
futuro autoritario e che la democrazia vada perduta. E’ vero, si diminuiscono
le difese e si aprono dei varchi, ma non si può dare per certo che la
democrazia perisca, né che, al contrario, essa continui e si rafforzi. Sulla
scorta delle analisi dei maggiori costituzionalisti, è lecito il dubbio; anzi
proprio il dubbio è la posizione più ragionevole.
Ma il
problema è: quando sono in gioco la democrazia, la pace sociale, i giusti
rapporti tra il popolo e il potere, possiamo permetterci il dubbio? Noi
sappiamo bene quanto questi valori, di recente acquisiti, siano costati, in
lotte, dolori e sangue; sappiamo quanto sia vitale che mai più siano perduti e
sappiamo che cosa essi valgano per noi e per i nostri figli, proprio i figli a
beneficio dei quali si dice che sarebbero fatte “le riforme”. Possiamo giocare
d’azzardo, mettere sul tavolo verde democrazia e libertà, nel dubbio
scommettere che il potere non abusi dei suoi nuovi artigli, in nome di procedure
più stringenti e spicciative?
Se il
dubbio non è rimosso (e non è nemmeno il cambiamento della legge elettorale che
potrebbe scioglierlo) e la democrazia è a rischio, occorre far ricorso, al
principio di precauzione che è quello che si deve adottare quando sono in gioco
valori supremi, come la stessa vita. E’ questo ad esempio il principio che
viene invocato nelle discussioni sul futuro della terra, quando si dibatte se
davvero il sovvertimento climatico provocato dall’uomo possa mettere fine alla
vita sulla terra: nel dubbio, e prima che l’irreparabile accada, responsabilità
vuole che si faccia la scelta dettata dal principio di precauzione; devono
essere bloccate o diminuite le possibilità stesse che ciò accada.
Questa
scelta di responsabilità tanto più deve essere fatta quando con l’elezione di
Trump in America tutte le previsioni, anche le più scontate, sono saltate; il
fallimento della globalizzazione (che è in realtà il nuovo nome del
capitalismo), l’incapacità della politica a dare risposte al problema di 62
milioni di fuggiaschi, di profughi e di migranti gettati nel mondo, stanno
provocando reazioni angosciose negli elettorati e hanno aperto una nuova fase nella
storia del mondo, in cui tutto è possibile.
Non
sono colpite le ideologie, ma la vita, le case, gli ambienti vitali, il futuro
delle persone. Guerra ed esodo, che ci sono sempre stati, stanno assumendo, con
la loro pervasività universale, caratteristiche nuove e distruttive non solo
delle cose, ma del nucleo più profondo della personalità umana.
Una
psicoterapeuta, adusa alla frequentazione di queste sofferenze, Anna Sabatini
Scalmati, così ha evocato questi due fenomeni in una relazione a un convegno su
“Psicoanalisi e luoghi del trauma sociale”, tenutosi il 22 ottobre a Lecce.
“Nelle aree di guerra –
ha detto Anna Sabatini – la morte lavora all’ingrosso, conta il numero dei
‘colpiti’ con cifre a più zeri, annienta la vita psichica; i bombardamenti
trasformano in cumuli di macerie i luoghi di culto; i monumenti – rimandi
culturali eretti a memoria di eventi fondativi della comunità; le abitazioni
civili, gli edifici che il contratto sociale ha eretto a protezione della vita:
ospedali, scuole, palazzi della politica, istituti culturali, ecc…
“La
guerra mette tra parentesi l’interdetto delle tavole della legge, rende lecito
l’uccidere, ottunde l’autorevolezza dei garanti metasociali, svilisce la Dichiarazione universale dei Diritti.
Distrugge le infrastrutture: la rete idrica, elettrica, i ponti e le linee di comunicazione. Semina la terra con
mine antiuomo, rende insicure l’agricoltura e la pastorizia: antiche, primarie
fonti di sussistenza.
“La
guerra opacizza il lutto. Dei bombardamenti si conosce il numero approssimativo
dei morti; ma il macroscopico oblitera il microscopico. Si piangono i singoli,
non le migliaia; più il numero è grande, più l’individuo, la singolarità,
l’unicità della sua esperienza, scompare.
“Sulla
scia della guerra avanza lo spettro della fame e l’alito malsano della miseria.
L’angoscia si duplica e macula l’orizzonte di paure.
“La
paura discende dal cielo che – da regno del sole e della luna, da reggia
dell’olimpo, del dio delle religioni monoteiste, a cui per millenni l’umanità
ha offerto sacrifici, rivolto preghiere, bruciato incenso e tratti presagi dal
volo degli uccelli – è divenuto un inverecondo arsenale di morte. Dai suoi
spazi solcati da fortezze volanti – F16, droni, caccia, ecc. – precipitano
sulla terra uragani di bombe.
“La
paura sgorga dal mare sulle cui acque navigano portaerei, sottomarini atomici.
“La
paura abita la terra ove avanzano rombanti le truppe amiche e nemiche e, nei
luoghi ove pulsa la vita quotidiana, esplodono i kamikaze.
“Paure
che sopravanzano ogni pensiero, tingono di vergogna l’immagine dell’umano che
reca la morte a sé e al simile, rendono nefasta la stanzialità e impossibile la
continuità della vita sulla terra degli antenati. La paura rizza la pelle e nel
contempo chiede di prendere atto della realtà, di ciò che non si può pensare
fino in fondo: abbandonare la terra, la casa, le mura che, mute testimoni dei
linguaggi affettivi, dei progetti dell’intimità coniugale, dai vagiti dei nuovi
nati, hanno protetto il sonno dopo pesanti ore di lavoro e assistito al
‘supremo scolorir del sembiante’ di coloro che vi sono deceduti. Abbandonare la
casa, pelle seconda, esterna, pregna di proiezioni, consce e meno, del proprio
‘Io/ambiente/mondo’, è una decisione lacerante.
“La
sopravvivenza, la razionalità, suggerisce la fuga, ma la mente – appesantita da
oscure paure – fa fatica a sostenerla. Si preparano i fagotti, si serrano le
porte, ma le gambe tremano, un’inedita vulnerabilità le soverchia; uno stato di
insensatezza dissolve il senso dell’esistenza”.
E
riguardo allo sradicamento di uomini e donne in fuga dalla loro patria, e al
rifiuto di accoglierli, la relatrice dice:
“Non indignarsi di
fronte ai fatti che sbarrano la strada alle popolazioni in fuga da una morte
certa ci spoglia di ogni innocenza. Tra le vittime e gli oppressori, sottolinea
Escobar, ‘tra chi fa e chi guarda non c’è un confine netto, ma un’area grigia
nella quale gli ‘innocenti’ rischiano di trasformarsi in complici. Si tratta di
un rischio che riguarda tutti, e che a tutti tocca di valutare’.
“L’imponente flusso dei
profughi dei nostri giorni avanza con rischi che l’intera comunità è chiamata
ad affrontare affinché le diversità culturali non degenerino in metastasi
sociali e non umilino con divieti paranoici – no al Burqa, no al Burqini – la comunità.
Lo ‘spettro che si aggira per l’Europa’, non è l’umanità in cerca di salvezza,
ma l’intolleranza verso l’altro, il diverso. Intolleranza che corrompe le
coscienze, virus che con inattesa rapidità infetta intere nazioni e rende il
vicino di ieri il nemico di oggi”.
E chi
deve rispondere, chi deve curare queste patologie? Gli psicanalisti? I medici? Le guardie di frontiera, la
protezione civile? No, la politica; solo
la politica può correggere i guasti della globalizzazione, può aver ragione
della guerra, può dare risposte al dramma di un’umanità che è una, ma che oggi
è divisa tra residenti e profughi, tra stanziali e fuggiaschi, tra cittadini e
stranieri, tra necessari ed esuberi, tra
presi e scartati. La politica, e naturalmente le Costituzioni e, più ancora, il
costituzionalismo, sono le grandi risorse di cui ci siamo dotati per maneggiare
le crisi.
Resta
la domanda: si può pensare che riformatori che vengono da tradizioni
democratiche, da esperienze cristiane, da ideologie di sinistra, con le loro ostinate
proposte di riforma vogliano mettere a rischio costituzionalismo e democrazia?
Respingendo
qui la tentazione del dubbio, si può rispondere di no. Però spesso in politica
c’è un’eterogenesi dei fini. Per calcoli sbagliati, o incauti, o
un’insufficiente etica pubblica, si può aprire la strada a esiti non voluti. A
vedere certe esibizioni sul referendum, soprattutto quelle televisive, si direbbe
che questa riforma sia più frutto di ignoranza che di cattiveria. Ma questo
rende ancora più doverosa l’adozione del principio di precauzione, e tanto più
dopo la vittoria di Trump, che mostra che cosa succede quando a governare sono
le banche e il denaro, e la gente cerca un’altra offerta politica. E se le
offerte politiche alternative non sono all’altezza della sfida, come ultima
difesa resta la Costituzione.
Chi
ha il potere e maldestramente lo usa, può finire, e condurre altri, dove non
voleva. C’è una figura famosa in letteratura che è quella dell’apprendista
stregone. Quando ero giovane non ero abbastanza colto da aver letto la ballata
di Goethe L’apprendista stregone
ispirata a un testo di Luciano di Samosata, però fui colpito dal film Fantasia di Walt Disney, in cui
l’incauto apprendista per rubare il mestiere al maestro stregone mise in
movimento delle forze incontrollabili che non fu più in grado di far rientrare
nell’ordine. Anche se gli apprendisti stregoni sono in buona fede, basta un No
per impedire loro di nuocere.
Raniero
La Valle
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