Raniero La Valle
Sesto discorso su “La verità
del referendum” tenuto il 12 novembre a Modena
È abbastanza paradossale che mentre si
scatena il ciclone della vittoria di Trump e tutto si muove, noi dobbiamo
discutere di un falso referendum, fatto di piccole vendette contro la casta dei
politici, di un CNEL che non è mai esistito e a cui togliamo la targhetta dalla
porta, di un bicameralismo che non è affatto superato, e di 90 centesimi di
risparmio a testa per ogni italiano come compenso per lo sconquasso del Senato
e l’uscita dalla democrazia parlamentare. Ciò si deve al fatto che mentre parlava
di alta velocità, Renzi mandava la politica italiana su un binario morto.
Ma
noi sappiamo che il vero referendum è un altro, è quello che decide la
transizione da un regime politico ed economico a un altro, da un’idea di
Repubblica a un’altra; è per questo che ci tengono tanto, addirittura da
spedire quattro milioni di lettere ad altrettanti italiani che stanno
all’estero, e che magari in Italia non ci sono mai stati. Ma dopo Trump è
chiaro che invece dobbiamo uscire dal binario morto, salvare la Costituzione e riaprire
la partita del futuro.
La vittoria di Trump è il segno di un
duplice fallimento. È fallita la globalizzazione, la quale pretendeva di
realizzare il mito del liberalismo classico: nel libero mercato l’eterna pace.
Non è successo: il libero mercato ha ripristinato la schiavitù del lavoro, e la
guerra è dappertutto.
Poi è fallita la risposta alla caduta
del Muro: doveva nascere un mondo senza muri, dove non solo i capitali ma
popoli e lavoratori potessero incontrarsi e liberamente muoversi da un luogo
all’altro, e abbiamo invece fili spinati e barriere dappertutto, in Palestina,
in Messico, in Ungheria, a Calais, a Ventimiglia per non parlare del fossato
del cimitero mediterraneo; e i popoli si chiudono a riccio, uno contro l’altro,
e come dice il papa i poveri dei Paesi ricchi temono l’accoglienza dei poveri
che vengono dai Paesi poveri.
In questa crisi profonda gli
elettorati reagiscono in modo angoscioso e votano contro i poteri stabiliti.
Perché le classi dirigenti al potere,
perché gli “establishment” sono sconfitti? Perché non hanno semplicemente
subito questa crisi, l’hanno creata.
La scelta della globalizzazione, dopo
la rimozione del muro di Berlino, è stata la scelta fatta dai vincitori della
guerra fredda di estendere il capitalismo in tutto il mondo, cambiandogli il
nome. Capitalismo era un nome ideologico, inevitabile finché un socialismo gli
si contrapponeva. Si chiamava capitalismo perché Marx aveva messo a tema teoria
e prassi del “capitale”. Venuto meno il socialismo, non c’era bisogno di
chiamarlo capitalismo, bastava un nome che lo mostrasse innocuo, che lo facesse
coincidere con la realtà stessa, con il “globo”, col mondo (i francesi la
chiamano “mondialisation”), che lo facesse diventare un fatto di natura, buono
per tutti i luoghi e tutti i tempi. Anche in Europa non si è chiamato più
capitalismo, si è chiamato semplicemente Europa (“ce lo chiede l’Europa”, si
dice); ma quelli che hanno firmato Maastricht, che hanno firmato Lisbona, che
hanno firmato il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sapevano
benissimo – ma non ce l’hanno detto – che firmavano la trasformazione del
capitalismo da ideologia a regime, da dottrina economica a Costituzione politica:
la concorrenza, la competizione, il mercato, il profitto diventavano la
Costituzione europea.
È per questo che ora vogliono cambiare
la Costituzione italiana: perché le due Costituzioni non sono compatibili.
Questa constatazione diventa tanto più
drammatica di fronte a eventi come la vittoria di Trump. Essa dimostra che cosa
succede quando a governare sono le banche e il denaro. Gli effetti sono
devastanti, la gente ne dà la responsabilità alla politica e cerca un’altra
offerta politica; e se questa non c’è o non è all’altezza del dramma, la scelta
diventa quella dell’antipolitica, e possono avere libero corso pulsioni
populiste, identitarie, difensive nei confronti degli altri, degli stranieri,
nazionaliste e razziste. Ora vediamo come il blocco di potere che sostiene, con
Renzi, il Sì al referendum tenta di giocare la carta Trump per accreditare la
continuità del potere esistente come unica difesa rispetto al rischio di un
sovvertimento. E insiste nel dire che ormai non conterebbe più, “svapora” il “merito”
del quesito referendario, di fronte all’unica domanda che conta, che è quella
del potere.
La lezione di quanto è avvenuto è
invece esattamente l’opposto. E’ proprio se arriva un’incognita come quella
rappresentata da Trump, che è necessario che resti ben ferma la Costituzione
che c’è, perché non si annulli la differenza esistente tra ciò che miseramente accade,
e ciò che invece dovrebbe accadere, tra l’essere e il dover essere, tra il
fatto e il diritto, tra la società che c’è e quella che secondo la Costituzione
si dovrebbe costruire.
Si dice che in ogni caso sarebbe
meglio cambiare perché è da trent’anni che si attende un cambiamento che non
arriva.
Questo vuol dire che il cambiamento
che si vuole introdurre è precisamente quello di trent’anni fa. Il problema era
allora quello posto da Gelli, da Craxi: il grande bene da conseguire era che avesse più potere
il potere. C’erano troppi diritti, troppi movimenti, troppa partecipazione
politica, troppa democrazia in fabbrica, troppi sindacati, troppi nuovi diritti
riconosciuti alle persone, alle famiglie.
C’era stato il Concilio, che aveva
messo in movimento la Chiesa, a Parma si occupava la cattedrale, e c’era stato
il ’68 che aveva portato la rivoluzione della vita quotidiana. Il potere si
sentiva in difficoltà e dunque ci voleva più potere per arginare le spinte
verso una società diversa. Ma non è vero che la riforma non c’è stata. C’è
stata, ma di segno opposto: il sequestro e l’uccisione di Moro, il periodo della repressione, l’installazione dei
missili a Comiso, l’ubriacatura craxiana,
e poi Cossiga che con un messaggio alle Camere dichiara la Costituzione
superata dopo il crollo del Muro, e infine il ripristino della guerra con
l’esaltazione della guerra del Golfo e addirittura l’intervento in essa.
Ma oggi? La politica è distrutta, i
partiti non ci sono più, i sindacati sono indeboliti, la Fiat se n’è andata in
America, il miracolo economico è stato sacrificato al mito della
globalizzazione. Di che cos’altro ha bisogno il potere? Che cosa ancora vogliono da noi i sacerdoti
del “mercato interno” (europeo) di Bruxelles, la banca Morgan, la Commissione
Trilaterale, il Wall Street Journal americano, l’Economist inglese? Quali altri
sacrifici ed olocausti sull’altare della privatizzazione, dell’austerità, del
pareggio di bilancio, della sottomissione alle prerogative sacrali dell’euro?
Una riforma che arriva trent’anni dopo è una riforma vecchia, che appunto ci
riporta al passato, non affronta i nuovi problemi, la guerra, la pace, i
profughi, lo straniero.
Il problema è però se la nuova
Costituzione italiana, resa conforme ai principi dottrinali ed economici della costituzione
europea, è ancora una Costituzione costituzionale; è il problema della
legittimità costituzionale della nuova
Costituzione. Non alludo qui al problema già rilevante della contestabile
legittimità di una Costituzione modificata da un Parlamento eletto con legge
dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Parlo di una incostituzionalità
sostanziale: il vero problema, l’ultima verità del referendum è che esso
propone al nostro voto una Costituzione non costituzionale.
Non si tratta di un gioco di parole.
Qualcuno dirà che una Costituzione incostituzionale è impossibile per
definizione: un ossimoro. Per di più la ministra Boschi e tutti i fautori del
Sì dicono che non è in causa la Costituzione come tale perché la riforma
riguarda solo la seconda parte e non lambisce nemmeno i principi fondamentali e
i valori che sono enunciati nella prima.
Però non è affatto detto che sia così,
perché resta una verifica da fare. Secondo
una sentenza della Corte Costituzionale del 15-29 dicembre 1988, neppure
le leggi di revisione costituzionale o altre leggi costituzionali possono
sovvertire o modificare nel loro contenuto essenziale alcuni principi supremi
contenuti nella Costituzione italiana. E non soltanto i principi che la stessa
Costituzione dichiara indisponibili, come quello della forma repubblicana dello
Stato, ma anche “i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra
quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale,
appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione
italiana”. Questi principi non possono essere disattesi.
Questa affermazione della Corte aveva
tanta più autorità, perché espressa in una sentenza in cui essa sottoponeva a
un giudizio di costituzionalità, per una norma sulle immunità, lo stesso
Statuto del Trentino-Alto Adige, che è un sistema normativo di rango
costituzionale. Anche quello, dicevano i giudici della Consulta, era soggetto
al vaglio di costituzionalità. Pertanto, nella misura in cui questi principi
supremi sono enunciati nella prima parte della Costituzione, il loro
sovvertimento o abbandono nella seconda parte comporta un contrasto tra la
prima e la seconda parte della Carta, e quindi produce una Costituzione
incostituzionale.
Quali sono questi principi supremi su
cui dobbiamo fare la verifica della riforma proposta? Sono almeno cinque: il
principio della sovranità popolare, il principio lavorista, il principio della
democrazia parlamentare, il principio pacifista, il principio internazionalista.
Tutti e cinque questi valori supremi
sono di fatto traditi dalla riforma della Costituzione che ci viene proposta. E’ su questo che gli italiani devono meditare
e su cui noi stessi dovremo riflettere.
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