di Raniero La Valle
Dopo
lo spartiacque del 4 dicembre
L’esito
del referendum costituzionale del 4 dicembre, mostrando un’intelligenza
politica popolare tutt’altro che spenta,
ci consegna una responsabilità
che non possiamo ridurre a proposte di corto respiro; occorre invece affrontare
come prioritari i nodi che oggi bloccano la politica e strozzano lo sviluppo
stesso della civiltà in tutto il mondo. Fare politica vuol dire precisamente
rimuovere queste strozzature.
Io
vedo tre questioni prioritarie, tre “forze frenanti” su cui dovrebbero
misurarsi il pensiero e l’iniziativa culturale, politica e religiosa per consentire la ripresa
di un cammino di civiltà, che per ora sembra bloccato o addirittura in
ripiegamento rispetto alle conquiste del ‘900; e non solo per Trump.
Il
mondo è di tutti
Il
primo blocco consiste nella mancata risposta di civiltà al fenomeno della
migrazione di massa. Ma non si tratta di un fenomeno, cioè di un evento, si
tratta piuttosto di un nuovo mondo, il mondo globalizzato, che è stato pensato
come un mondo di residenti, e risponde presentandosi invece come un mondo di
migranti; era un mondo di stabilità la cui qualità era la durata – il tempo
indeterminato - e si ritrova costruito come un mondo di precarietà, la cui
qualità è vivere nell’imprevedibile. Per integrare in un cammino di civiltà
tale mondo nuovo è necessario che si riprenda il processo dell’imputazione dei
diritti fondamentali a tutti gli uomini come diritti universali e permanenti e
se ne preveda l’effettività per tutti gli abitanti del pianeta. E’ dalla conquista
dell’America, cioè dal primo apparire di un “nuovo mondo” che tale cantiere si
è aperto. Aveva scritto Francisco de Vitoria in una sua “relectio de Indis” che “all’inizio del mondo, quando tutto era
comune era lecito a ognuno trasferirsi e muoversi in qualunque regione volesse;
ora non pare che la divisione dei territori abbia annullato questo diritto, dal
momento che l’intenzione dei popoli non è mai stata di abolire, con quella
divisione, la comunicazione reciproca fra gli uomini. Non sarebbe lecito ai
francesi proibire agli spagnoli di muoversi in Francia o anche di vivervi, né
viceversa, purché questo non rechi loro danno e tanto meno faccia loro torto”,
e questo perché “totus orbis aliquo modo
est una respublica”, tutto il mondo in qualche modo è una repubblica.
La
condizione è di non recarsi danno a vicenda. Ma la costruzione di questo
edificio è ancora tutta da fare. Il principio è stato enunciato con la massima
chiarezza nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e
uguali in dignità e diritti”; e oltre che nelle Carte e nelle Costituzioni, il
principio dell’eguaglianza universale è stato espresso con la massima efficacia
nell’enciclica “Pacem in terris” di
Giovanni XXIII, e sembrò allora ricevere il generale consenso: “non ci sono
esseri umani superiori per natura ed esseri umani inferiori per natura, ma
tutti gli esseri umani sono eguali per dignità naturale. Di conseguenza non ci
sono neppure comunità politiche superiori per natura e comunità politiche
inferiori per natura: tutte le comunità politiche sono uguali per dignità
naturale” (Pacem in terris n.50). Ciò
è affermato come una verità, non solo come una decisione etica positiva.
Questo
principio comportava che quanto al godimento dei diritti umani fondamentali,
oltre alle discriminazioni già escluse (razza, sesso, religione, ecc.), non
potesse ammettersi quella relativa alla cittadinanza. E per quanto attiene al
diritto di mobilità e di immigrazione, la cosa era detta così: “ogni essere
umano ha la libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità
politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi
lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse.
Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla
perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa
famiglia umana, e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità
mondiale” (Pacem in terris n. 12).
Questo
è il criterio con cui dovrebbe essere
affrontata la crisi delle migrazioni, la crisi più grave – come è stato detto –
dalla fine della seconda guerra mondiale; ed è anche il criterio in base a cui
il mondo nuovo sarebbe assunto nel processo della civiltà; ma sarebbe anche il
criterio in base al quale nulla potrebbe restare com’è, e profondi cambiamenti
dovrebbero essere introdotti nelle mentalità, nel costume, negli ordinamenti,
nella politica, nell’economia e nella finanza.
Per
questo è molto difficile fare questa scelta e anche nelle società pur pervase
da sentimenti umanitari, o che si danno da
fare per salvare o accogliere un certo numero di profughi e di
stranieri, nessuno fa appello a questo criterio. L’unico a dirlo è papa Francesco
che, costante nel suo appello ad accogliere i profughi, nel messaggio per la
giornata del migrante 2017 ha ancora una volta ripetuto che “le migrazioni oggi non sono un fenomeno
limitato ad alcune aree del pianeta, ma toccano tutti i continenti e vanno
sempre più assumendo le dimensioni di una drammatica questione mondiale. Non si
tratta solo di persone in cerca di un lavoro dignitoso o di migliori condizioni
di vita, ma anche di uomini e donne, anziani e bambini che sono costretti ad
abbandonare le loro case con la speranza di salvarsi e di trovare altrove pace
e sicurezza. Sono in primo luogo i minori a pagare i costi gravosi
dell’emigrazione, provocata quasi sempre dalla violenza, dalla miseria e dalle
condizioni ambientali, fattori ai quali
si associa anche la globalizzazione nei suoi aspetti negativi”. E nella Laudato sì egli aveva sottolineato come
i cambiamenti climatici intacchino le risorse produttive dei più poveri, i
quali “si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della
loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la
miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come
rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita
abbandonata senza alcuna tutela normativa”: così il papa. E in Italia il solo
che incessantemente sostiene che bisogna accogliere tutti gli immigrati e poi
anche dar loro il diritto di voto è il Centro per la pace di Viterbo. Per il
resto, l’apertura delle frontiere, dei porti, degli aeroporti, dei valichi agli
immigranti, la loro integrazione, il riconoscimento anche a loro dei diritti
politici è oggetto di esorcismo, è il tabù che non si può violare; e l’Europa,
che doveva essere il luogo dove la storia si compie di contro ai “popoli senza
storia”, muore. Anche Hegel è fallito.
Affrontare
questo tema nelle sue diverse implicazioni – a cominciare da una nuova
considerazione nella Costituzione Italiana del cosiddetto diritto di asilo, che
era stato concepito come un caso di eccezione in una situazione del tutto
diversa – dovrebbe essere il primo cimento di una nuova responsabilità politica.
Altrimenti non ci sarà l’ostacolo della Costituzione a impedire l’iniquità,
annunciata dal ministro Minniti, di respingere e cacciare dalI’Italia il 90 (!)
per cento dei profughi considerandoli immigrati “irregolari”. Insieme a ciò,
dovrebbe essere posto come priorità di un programma politico il disegno di portare tutti i Paesi dell’ Unione a una rinegoziazione
dei Trattati europei, così che dall’Europa non sia scartato nessuno. Il fatto che nemmeno si metta in conto come
ipotesi, neanche a sinistra, di intraprendere questa strada, fa sì che le
opinioni pubbliche siano politicamente e
culturalmente condizionate a difendere l’esistente e a chiudere le porte ed i
varchi agli “estranei”, e apre un’autostrada alle proposte politiche dei
predicatori dell’egoismo e del primato della Nazione (“prima di tutto l’America”, “ prima gli
italiani” o i francesi o gli inglesi)
alla Trump, alla Salvini, alla Le Pen, alla May. È vero che dopo la “Brexit”, l’elezione di
Trump e la ripresa dei protezionismi, la
globalizzazione, fallita nelle sue promesse, è oggi rimessa in discussione, ma
non è affatto detto che ciò porti a rallentare i flussi migratori; anzi c’è
addirittura chi prevede 250 milioni di migranti e profughi a metà di questo
secolo.
La violenza religiosa
Il
secondo blocco che intercetta e ipoteca lo sviluppo storico è il ritorno in
forme incontrollate e cruente della violenza religiosa, che scaturisce non più
come in passato da matrici cristiane, ma da matrici islamiche. E’ evidente che
una violenza che viene da soggetti e gruppi di cultura o anche di fede islamica
non è violenza dell’Islam, ed è noto che nel suo complesso la “Umma” (comunità) musulmana, sconfessa e
condanna la violenza estremista, per cui in nessun modo si può interpretare la
guerra stragista in atto come una guerra religiosa, e tanto meno come una
guerra tra Islam e Occidente, anche se proprio questo era stato lo scenario su cui
in Italia e nella NATO nel 1991 era stato impostato il nuovo “Modello di
Difesa”, dopo il venir meno del nemico sovietico. E se c’è una cosa che ancora
oggi impedisce alla lotta per la supremazia nel Medio Oriente e alla lotta contro il terrorismo di degenerare
in guerra di religione, non è certo la cultura dell’Occidente ma è il fermo
rifiuto di papa Francesco di un coinvolgimento della Chiesa e delle religioni
in una simile guerra.
Tuttavia
non c’è dubbio che lo scontro con lo Stato Islamico e col terrorismo si nutre, sia
in un campo che nell’altro, di motivazioni religiose, sincere o strumentali che
siano. Ciò comporta che la questione religiosa non possa essere messa tra
parentesi o semplicemente ignorata, ma debba essere assunta nella gestione e soluzione
anche politica della crisi, se si vuole affrontare quello che veramente sta
accadendo e non una sua falsa o monca rappresentazione.
Perciò
la questione religiosa, e segnatamente quella del rapporto tra le grandi
religioni monoteiste, Islam, ebraismo e cristianesimo, va affrontata non come
estranea al conflitto e alla crisi geopolitica in atto, ma come fattore
rilevante se non determinante di essa.
Per
poterlo fare occorre però riconoscere che il conflitto non è tra le tre
religioni e le tre culture come tali, ma è tra le degenerazioni di queste tre
religioni, cioè, mondanamente, è un conflitto tra un radicalismo islamico, il sionismo
e l’ideologia della cristianità occidentale, intesa come cristianesimo ridotto
a potere politico sacrale in Occidente. Si tratta di tre forme storiche di
queste tradizioni, che sono filiazioni o deformazioni di quella che è la loro autenticità
religiosa originaria. E allora se vogliamo venirne fuori occorre sciogliere questi nodi, superare i
conflitti tra queste tre ideologie, e bisogna che ciascuna religione in qualche
modo converta se stessa. Il cristianesimo ha cominciato a farlo, papa Francesco
è l’esempio di questo superamento dell’idea di un cristianesimo come sovranità,
come cristianità, cioè come civiltà, come potere. Però questo deve avvenire
anche per le ideologie tratte dalle altre due religioni, sia per il sionismo
rispetto all’ebraismo, sia per l’islamismo estremista rispetto all’Islam.
Non basta la laicità
Qui però c’è un vuoto da colmare. Infatti la risposta,
l’unica risposta che finora la modernità occidentale ha dato a questo problema e propone a tutto
il mondo, è del tutto insufficiente, anzi addirittura sta altrove, rispetto al
problema. L’unica risposta data finora è
quella della secolarizzazione, che è il punto d’arrivo di quella pur feconda cultura
della laicità messa in campo dalla modernità per impedire che il progresso
storico venisse bloccato da una malposta ipoteca religiosa. Sulla scia di
questo vissuto lo schema su cui si muove l’Occidente suppone che da questa pseudo guerra di
religione si esca con la laicizzazione, con la secolarizzazione, con la
riduzione della religione a una dimensione privata. In tal modo si pensa che ogni religione possa in qualche modo essere messa
in uno stato di estraneità, in condizione di non nuocere. Ma è anche una
reazione conservatrice, che difende il potere com’è. Non si può infatti
ignorare il movente religioso di molte obiezioni di coscienza al potere, e non
si può reprimere o dissolvere, in nome della laicità, la potenza di
rinnovamento e di resistenza all’iniquità che prorompe dal Vangelo. Altrimenti
sarebbe illegittimo l’“aggiornamento” dell’annuncio evangelico di papa
Francesco, il suo far credito ai Movimenti Popolari, il suo appellarsi alla
responsabilità politica non solo dei credenti, ma di tutti gli abitanti della
terra.
Io penso che la soluzione non sia figurarsi un mondo
senza religioni, perché le religioni non scompaiono, e perché appunto il
conflitto non è fra le religioni, ma tra le ideologie che ne derivano. Invece il
rimedio è che ciascuna di queste religioni ritrovi la propria autenticità e che
quindi tutte vadano a monte del conflitto; e credo che oggi sia possibile, perché siamo in un momento in cui ciò di cui
si sta discutendo non è tanto l'assetto, l’ideologia, o i dogmi di questa o
quella religione, ma si sta scavando sull' identità e l' immagine di Dio, che è
alla fonte di tutte le religioni. E allora il vero problema è di quale Dio
parliamo, di quale Dio parlano queste religioni quando parlano di Dio: è il Dio
violento, il Dio della vendetta, il Dio del giudizio, il Dio che punisce, il Dio che nel giudizio
finale distribuisce punizioni e meriti come farebbe un giudice umano, oppure è
un altro Dio, il Dio della misericordia, dell' accoglienza, del perdono, quello
che “arriva primo nell' amore"? Questa mi pare che sia la questione.
Perché se l'Islam si rifà al Dio violento, al Dio con la spada, non si rifà al
vero Dio dell’Islam: ci sono molti testi islamici, e c’è anche un documento di
grandi saggi islamici rivolto nel settembre 2014 a Abū Bakr al-Baghdādī, il sedicente califfo,
in cui si dice che anche Maometto ha preso la spada per una contingenza
storica, ma non è quella l' identità e il destino dell'Islam. Qui da noi c'è
questo papa che ha scoperto e proclamato un Dio nonviolento. Il documento che egli ha
scritto per la giornata della pace 2017 fa della nonviolenza (che è stata
un'ideologia nata in territori anche non cristiani come quelli gandhiani)
l'identità stessa del cristianesimo. Allora il problema non è la
secolarizzazione ma la conversione rispetto ai falsi dei, rispetto agli idoli, rispetto al Dio della guerra, rispetto al Dio
della violenza, rispetto al Dio che legittima le sopraffazioni, le ingiustizie e
i soprusi del potere: un Dio, dice Francesco, “che non esiste”. Questo a me pare sia il futuro: non la pace
nonostante le religioni, ma la pace anche come primo anelito e potenza creativa
delle religioni.
Di quale Dio si parla
Si potrebbe obiettare che si tratta solo di un
problema religioso, che riguarda unicamente i credenti. Non è così. Se le
religioni sono le prime implicate in questo processo, la politica non vi è
estranea e non può pensarsi fuori del conflitto. Non certo per una ricaduta nel
giurisdizionalismo o addirittura in un giuseppinismo di vecchi tempi, o in
altre forme di reciproca ingerenza e di sbandate clericali, ma perché il Dio
sbagliato delle religioni ha profondamente influenzato, in passato e fino ad
ora, le posizioni e le culture politiche.
Dopo la sua ascesa alla Casa Bianca ci si è
interrogati su quale sia il Dio di Trump. E lo storico Alberto Melloni ha
risposto che nel suo discorso di insediamento, Trump, distorcendo il salmo 133 che
esalta l’unità dei fratelli in senso universalistico, l’ha attribuita agli
americani intesi come “popolo di Dio”, presentando Dio come il garante di un
privilegio americano, che farebbe dell’America un «“popolo eletto” portatore di
una specie di teologia della singolarità globale».
Non si tratta affatto di una cosa nuova. Dicendo
questo Trump interpreta perfettamente uno dei filoni in cui la “cristianità”
(intesa come unità organica di
istituzioni, popolo, civiltà e cristianesimo), si è articolata in
Occidente. Come scrive Erich Przywara nel suo “L’idea d’Europa” nell’età
costantiniana il cristianesimo invece di annunciarsi come la novità di un
rapporto - di “uno scambio” attraverso
la croce - tra Dio e l’uomo, si sviluppò in «una nuova “antica alleanza”», che
ripeteva quella che era stata propria degli Ebrei, ma estesa a nuovi eletti: tale fu il Sacro Impero, tale
fu poi la «nuova “comunità di eletti” fondata da Lutero che successivamente
Calvino strutturò a Ginevra basandola su “eletti predestinati”». Questa
impostazione comportò l’idea di «una “terra razionale e divina” secondo legge e
ordine» che «si diffuse con il puritanesimo, conquistando l’Inghilterra e il
Nord America che, ancora oggi, sono formati interiormente da questa idea. Ne è
scaturito il pensiero di una “terra razionale e divina anglosassone” che,
secondo legge e ordine, ha portato e porta al modo di funzionare e ai risultati
di un capitalismo fondato sul calvinismo».
Ma anche il marxismo, secondo Przywara, proviene dalla stessa matrice, rovesciandosi in
risultati opposti: il materialismo dialettico «scaturisce essenzialmente dal profetismo
rivoluzionario del primo ebraismo che (per quanto oggi non lo si voglia
riconoscere) è il fuoco più intimo della riflessione di Marx. Ma scaturisce
ugualmente dallo gnosticismo rivoluzionario russo, di tipo
apocalittico-escatologico il cui profeta
più infiammato è Bakunin». Per Przywara
Marx pur ateo, sarebbe nel profondo “un ebreo della più genuina antica
alleanza” e Bakunin, pur antiteista, sarebbe nel profondo “un cristiano
greco-ortodosso di quella nuova alleanza che attende e anticipa il regno del ritorno
di Cristo”.
Un altro filone in cui si è proposta la “cristianità” è
quello scaturito dal tentativo novecentesco di restaurare una società cristiana
mediante i partiti cristiani, il socialismo cristiano o altre forme di
“occidente cristiano”.
Questo è ciò che ci racconta la storia. Ma queste
diverse “forme cristiane” – secondo Przywara – sono una distorsione del
messaggio, «portano in sé un “no”, frutto di dura cervice, all’ “unico e vero
cristianesimo” che è il cristianesimo dello “scambio che redime”».
Erich Przywara era un teologo gesuita tedesco, e citarlo
qui non è casuale perché è l’autore a cui ha fatto riferimento papa Francesco
quando, riproponendo in termini nuovi il messaggio evangelico, ha postulato
l’uscita dalla cristianità, e nel ricevere il premio Carlo Magno ha ignorato lo
stereotipo dell’Europa cristiana e ha dato alla Chiesa la missione del servizio
e quello di “lavare i piedi” all’Europa. Uscire dal regime di cristianità per
non perdere il cristianesimo, significa tornare all’autenticità del messaggio
originario, e rompere l’identificazione tra fede, potere,
cultura e politica.
Questa
operazione però deve essere fatta anche dalle culture politiche e dalle forze
storiche che agiscono nella laicità, ma sono in diversi modi portatrici di
concezioni sacrali della politica (“il sacramento del potere” messo in luce
dall’opera storica di Paolo Prodi) e sono state o sono ancora interpreti di
modi di essere propri della cristianità; dunque questo è un compito proprio
della politica e può e deve essere parte di un progetto o programma politico
per la ripresa di un cammino di civiltà.
Per
la Chiesa uscire dalla cristianità vuol dire compiere molte, decisive
revisioni. Ma questo non vale solo per
il cristianesimo, vale anche per l’Islam
e per ogni altra religione. Perché il problema dell’uscita dalla “cristianità” non è solo del cristianesimo. Tutte le
religioni hanno avuto la loro notte oscura, in cui hanno sognato il sogno di
Costantino, “in hoc signo vinces”, in
cui si sono smarrite dando ascolto alla voce del Tentatore che ha voluto
persuaderle dicendo: “tutti questi regni ti darò col loro splendore se
prostrandoti mi adorerai”. Tutte le religioni, ognuna con i suoi tempi, devono
uscire dalla loro forma di cristianità, devono allontanarsi da quel sogno di
vittoria, spogliarsi delle maschere regali. L’Islam dovrà ritrovare nel Corano
il pluralismo, uscire dall’ideologia della sharia
realizzata contro la società degli infedeli, Israele deve separarsi dall’ideologia
di Sion e dello Stato degli Ebrei
concepito come lo “Stato della redenzione” (ma “catastrofe” per i palestinesi), l’induismo “convertito”,
come dice Raimundo Panikkar, tornerà a
bagnarsi nel Gange alle sue sorgenti, incontaminato dal potere, le culture
laiche dovranno rinunciare ai loro assoluti di riserva, a cominciare da quello
del denaro e del mercato.
Ciò non
vuol dire che si perderanno le differenze, il sincretismo globalista non è, né
deve essere, nel nostro futuro. Tutte le tradizioni manterranno la loro
identità; è sull’incontro tra le loro differenze che si fonda l’unità umana.
Rovesciare il denaro dal trono
Il terzo
blocco che oggi inibisce il cammino della civiltà e intercetta e soffoca lo
sviluppo storico, è prodotto dall’ascesa del denaro al potere sovrano nel mondo.
Se è proprio della politica innalzare o deporre i sovrani (e delle Costituzioni
e del diritto regolare l’esercizio della sovranità) il primo compito della
politica odierna è la decisione sul potere sovrano: è giusto che la sovranità
appartenga al denaro e a lui sia rimessa l’ultima decisione, e in quali forme e
limiti ne può essere regolato l’esercizio?
Non
stiamo parlando di una scelta tra sistemi economici, di una lotta tra
capitalismo e socialismo, tra globalizzazione e protezionismo. Cosa sarà di ciò
dipende da una ripresa del pensiero e del dibattito economico, dal rinnovato confronto
tra le ideologie politiche e appartiene a tutta la vicenda politica del futuro.
Parliamo di una cosa che viene prima, che è una scelta di civiltà, e da cui
dipende la legittimità sia dell’uno che dell’altro sistema. Perché è chiaro che
se a governare non è l’essere umano, ma il denaro, un manufatto, qualcosa che
non esiste in natura, che può essere creato dal nulla e spesso viene creato da
poteri irresponsabili, la questione non è più di economia politica, ma è una
questione antropologica, interpella l’idea dell’umano, anche se è la politica
che ha gli strumenti per dirimerla. E se vince il denaro, l’uomo è perduto.
Finisce il diritto del lavoro, se ne vanno le fabbriche, non trovano difese i
terremoti, si innalzano i muri, il mare fa da fossato confine e cimitero, la
terra può essere riscaldata e spremuta, la salute è calpestata e perfino il
paradiso, messo al plurale, non è più per l’uomo ma per i soldi scappati dal
fisco. E questo non è capitalismo, è barbarie. Perciò un progetto, un compito
politico diretto a sgombrare gli ostacoli che inibiscono la ripresa di un
cammino di civiltà, deve primariamente assumere questa tematica, deve prefiggersi
il rovesciamento del denaro dal trono, la sua restituzione come strumento al
servizio dell’economia e della vita, e il ristabilimento della sovranità in
capo agli esseri umani ed ai popoli.
Con
quali strumenti politici?
Attraverso
quali strumenti politici affrontare questi problemi cruciali? Quali soggetti
politici possono farsi carico di assumerli
e di lottare per la loro soluzione, per il superamento di queste chiusure che
bloccano l’incivilimento umano?
Trattandosi
di questioni che hanno origini e impatto globale, ci vorrebbe
un’Internazionale. Ma un grande soggetto politico internazionale non può che
partire da soggetti che emergano da singole Nazioni. Perciò non possiamo
sottrarci alla responsabilità di immaginare e promuovere soggettività politiche
in grado anche qui da noi di avviare questo processo. Occorrerebbe anzitutto suscitare
soggetti che si dessero il compito di far emergere classi dirigenti omogenee a
questi nuovi compiti, che ponessero questi temi all’ordine del giorno delle
Università e della cultura diffusa, che risvegliassero i sindacati, che
orientassero’opinione pubblica e innovassero il mondo dei media in funzione della formazione di un nuovo senso comune su
queste cose.
Certamente
però, nonostante la riattivazione di coscienza politica mostrata dal
referendum, ben oltre i partiti esistenti, non ci sono oggi le condizioni per
una nuova iniziativa che assuma la forma partito. Tuttavia questa non si può
escludere nel futuro: la stessa Costituzione, salvata dai cittadini ma da tutti
sentita come inattuata, contiene in sé il germe di nuove concretizzazioni
dell’art. 49. Non si tratterebbe di un partito che pretendesse intestarsi la
Costituzione, ma che ne proponga alcune attuazioni più urgenti e altrettanto
urgenti sviluppi. È vero che ciò non appare oggi possibile; ma non si capisce
la foga con cui questa ipotesi viene respinta come una pericolosa tentazione.
Anche nella riunione del 21 gennaio dei Comitati del No l’idea di dare seguito
alla vittoria referendaria non con singole mobilitazioni ma con un partito è
stata esorcizzata; ciò è stato giustissimo perché sarebbe un grave errore
immaginare un nuovo soggetto politico di sostegno alla Costituzione partendo
dal solo bacino dei voti del No, quando anche tra i sostenitori del Si sono
stati rivendicati, e spesso con verità, analoghi sentimenti di fedeltà alla
Costituzione, soprattutto nei suoi principi fondanti. Ciò che non si capisce però
è la ragione di una specie di opposizione di principio all’idea di un partito;
a volte sembra quasi che in campo progressista sia stata interiorizzata e fatta propria la polemica
contro la politica ed i partiti avanzata dalla destra per renderne immuni i
poteri esistenti. È ovvio che i partiti devono essere criticati, che devono
essere vincolati a regole costituzionalmente legittime, che se ne devono anche
inventare forme nuove, ma deve essere chiaro che senza partiti, senza
rappresentanza nelle istituzioni, senza confronto e lotta tra soggetti
omogenei, non si dà politica e non si realizza il disegno della Costituzione.
Sarebbe
legittimo ad esempio pensare all’ideazione di una forza politica di tipo nuovo,
una specie di Partito Costituzionale Italiano. Certo la Costituzione è un patto
tra le parti e super partes; e così è
stata e l’abbiamo vissuta dalla Costituente in poi (basta ricordare l’ “arco
costituzionale”). Il fatto è però che essa è sottoposta da decenni ad attacchi
“riformatori” ed è stata formalmente indicata come l’ostacolo da abbattere,
insieme alle altre Costituzioni “socialiste” del dopoguerra, dalla Banca Morgan
e da altre massime espressioni del Mercato internazionale. Dunque come effetto
indotto dallo stesso conflitto politico, è del tutto naturale che si formi un
partito per la Costituzione, senza alcuna pretesa di esclusività o di una
privilegiata autorità nella sua interpretazione. Che la Costituzione sia un
patrimonio comune non impedisce che se ne faccia una propria bandiera, più di
quanto la Repubblica non impedisca a un partito di chiamarsi repubblicano o la
democrazia non impedisca a un altro di chiamarsi democratico o l’universalità
della libertà impedisca a un altro di dirsi liberale.
Dovrebbe
trattarsi di un partito a vocazione proporzionale, pluralista e unitiva. La
novità potrebbe essere (ma già ci fu l’esempio del partito radicale) la facoltà
della doppia tessera per gli iscritti al partito, a significare che le sue
battaglie sulle priorità adottate per la nuova prospettiva politica sono
compatibili con l’ispirazione e i programmi di altri soggetti politici; la
presenza nelle istituzioni rappresentative potrebbe essere perseguita sia, come
è normale, con finalità di governo, sia anche solo per avere voce in esse
mediante quella forma riduttiva di rappresentanza che viene chiamata “diritto
di tribuna”, ove si voglia decidere di non voler entrare in concorrenza per il
potere. In ogni caso si dovrebbe fare della condivisione la condizione e il
fulcro della legislazione e della governabilità. Gli accordi in Parlamento sia
per la formazione dei governi che per la legislazione, dovrebbero essere
rivendicati e onorati come la strumentazione stessa della democrazia, contro il
mito demiurgico e la sua vulgata parafascista dell’innalzamento sugli scudi la
sera delle elezioni del capo o del partito che avrà il potere nei successivi
cinque anni. Adottare la forma partito non significa solo riconoscersi come una
parte, ma come una parte del tutto. In questo quadro l’opzione per la
proporzionale sarebbe irrinunciabile.
La
nuova forma partito dovrebbe porsi come
espressione non delle istituzioni ma della società. La sua democrazia interna dovrebbe
essere garantita da appositi statuti a norma dell’art. 49 della Costituzione.
La
“vision” o “mission” di tale partito,
irrealistico oggi ma possibile domani, sarebbe in estrema sintesi quella di un
costituzionalismo interno e internazionale accrescitivo e perfettibile, per
aprire un varco a quello che abbiamo detto essere il vero e più urgente compito della politica oggi: mettere al
sicuro i diritti, i valori e i beni
comuni storicamente già acquisiti e riaprire le porte e il cammino per
l’avanzamento della civiltà.
Raniero
La Valle
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