La guerra ha bisogno del simbolo che la giustifichi; l’ISIS insiste con Dio e distrugge le chiese, l’Occidente, privato dell’alibi della guerra di religione si fa filantropo e lancia i suoi missili in nome dei bambini
L’attacco
firmato Daesh o IS alle chiese copte in Egitto è un’azione dagli alti contenuti
simbolici. Si è scatenato contro un popolo di martirio e di pace, come ha detto
il prete della comunità copta di Firenze; è avvenuto a tre settimane dalla
visita del papa in Egitto, come a dire che il bersaglio grosso è lui; è stato
perpetrato contro una chiesa piena di fedeli, a Tanta, e contro la cattedrale
del patriarca Tavadros II ad Alessandria; è stato compiuto mentre erano in
corso la messa in piazza san Pietro e le due messe celebrate nello stesso
momento in Egitto, nel giorno liturgico della domenica delle palme, quando si
ricorda che Gesù è stato ucciso con l’accusa di aver minacciato la distruzione
del tempio.
Questo
sovraccarico di simboli religiosi dice che i terroristi dello Stato islamico
hanno assoluto bisogno di far passare la loro guerra per una guerra religiosa,
volta a islamizzare il pianeta.
Naturalmente non lo è, come essa non è un puro
esercizio di violenza di belve inferocite, quale è raccontata in Occidente.
Secondo gli analisti più attenti è
qualcosa di diverso e di più: è un’espressione del risentimento
anti-occidentale, alimentato da quattro secoli di dominio, in cui oggi
precipita e si materializza un risentimento più generale, quello
dell’anti-potere, e si manifesta un desiderio di vendetta dei succubi per
l’espropriazione economica subita e la discriminazione privativa dei diritti. Lo
scrive ad esempio dal Cairo, dove vive, Marco Alloni (in “Il cattivo infinito, capire ISIS” editoriale
Aliberti, Cavriago) – sostenendo che sotto attacco è il modello neoliberale che
ha generato mostri creando “un unico
scenario di un’unica tragedia ormai sotto gli occhi di tutti”.
Per
consumare questa vendetta l’ISIS, che se l’è intestata, ha bisogno di un
simbolo forte, la religione. Il simbolo non è la ragione della guerra, è la sua
narrazione, la sua legittimazione popolare, il suo nome nobiliare. Sempre le
guerre hanno avuto bisogno di nomi e di simboli, ma oggi più che mai perché nel
mondo globalizzato il messaggio è tutto e tutto è messaggio. Non solo “il mezzo
è il messaggio”, ma lo è l’azione stessa, incurante del mezzo: i mezzi, i
“media”, inevitabilmente seguiranno.
La
massima potenza simbolica storicamente messa a disposizione della guerra è
quella di Dio: la guerra santa, la guerra giusta, cioè giustificata da Dio, la
guerra fatta in suo nome, la guerra per la terra promessa da Dio, la guerra
agli infedeli. le crociate, Costantino, “in hoc signo vinces”.
L’IS
o “Stato islamico” ci prova di nuovo. La guerra all’Occidente, o quella contro
i rivali interni alla stessa Umma musulmana, è guerra di religione. Non è un
male, dicono, uccidere gli infedeli (questo lo dicevano anche i cristiani, per
san Bernardo non era omicidio, ma “malicidio”). Ma la comunità islamica non è
affatto d’accordo, non pensa a un Maometto sempre con la spada, e il 19
settembre 2014 leader islamici di tutto il mondo hanno scritto al sedicente
califfo Abu Bakr al-Baghdadi sconfessando la sua azione che fa dell’ Islam “una
religione di durezza, brutalità, tortura e assassinio”. Ma l’ISIS insiste,
senza la religione non può fare la guerra, e se Gesù voleva “distruggere” il
tempio, esso attacca le chiese cristiane in nome del tempio, in nome di Dio.
Però
c’è un problema nuovo. La guerra di religione non si può più fare, perché per
farla bisogna essere in due, L’Occidente la farebbe volentieri, come l’ha
sempre fatta anche se mascherata in molteplici forme, ma non la può più fare,
perché il papa di Roma gliel’ha tolta dalle mani, dicendo che “il Dio della
guerra non esiste”: cioè presentando al mondo un messaggio nuovo, che rivela
un’altra immagine, un’altra identità di Dio. Rispetto al Dio di violenza e di
guerra i cristiani, a sentire papa Francesco, sono atei.
Dunque
c’è un impedimento alla guerra. E in effetti quella guerra mondiale a pezzi
diagnosticata dal papa, non è precipitata in un unico evento, e la guerra che
in questi quattro anni sembrava lì lì per esplodere, non è scoppiata. Obama non
l’ha fatta, e la Clinton non è stata eletta. La farà Trump? Sembrava di no
perché aveva detto di non volersi occupare del mondo, che prima di tutto c’è
l’America e che gli altri facciano quello che vogliono: perfino l’idea portante
dei due Stati in Palestina era stata abbandonata, e Netanyahu era stato
lasciato libero di annettersi quello che vuole. Ma è durato poco, perché gli
Stati Uniti, chiunque stia alla Casa Bianca, non intendono rinunciare allo
scettro del mondo, la destra americana non lo permette, l’influenza russa in
Medio Oriente va fermata, e sullo sfondo c’è la sfida alla Cina, per cui Trump
non può fare l’isolazionista.
Però
senza messaggi forti anche lui la guerra non la può minacciare, non la può
fare. Non può fare come il giovane Bush che faceva la guerra all’Iraq e la sera
piangeva sulla spalla di Dio. Se Dio non è disponibile, occorre trovare
un’altra icona. Ed ecco che arriva una strage. Le stragi e le fotografie che le
ostendono sono un ottimo viatico per la guerra. Grazie al massacro di Racak la
Nato potè fare la guerra del Kossovo. E grazie a quello di Iblid Trump può fare
la guerra di Siria. Un crimine di guerra, dice il premier italiano Gentiloni,
il primo allineato, giustifica la guerra. Cionondimeno ci vuole un simbolo.
Venuto meno il divino occorreva un’altra potente provocazione simbolica, un
segno nel cui nome scatenare le armi. I bambini uccisi dal gas a Iblid sono
stati questo simbolo. Non importa che i bambini siano le vittime universali
percosse a Oriente e Occidente, e che la Convenzione dei diritti del fanciullo
non sia osservata da nessuno, né riguardo ai bambini naufragati nel
Mediterraneo, né riguardo a quelli ristretti con le loro madri palestinesi
nelle carceri israeliane, né riguardo ai bambini di cui si commerciano gli
organi, né quanto a quelli contro cui si innalza il muro con il Messico o si
tolgono le cure sanitarie. Trump e tutto l’Occidente con lui sono stati lesti a
impadronirsi del simbolo di Iblid, e non potendo fare la guerra in nome di Dio la fanno in nome
del bambino, l’immagine a lui più somigliante. E si aggiungono simboli a
simboli: cinquantanove sono le vittime delle bombe chimiche a Iblid,
cinquantanove sono i missili lanciati dalle comandanti delle navi americane nel
Mediterraneo; senza prezzo è ogni vita umana perduta, senza prezzo è ogni
Tomahawk sparato, un milione di dollari l’uno, cinquantanove milioni di dollari
solo per dare un avviso, solo per dire che gli Stati Uniti ci sono, e che
“America first” non vuol dire solo respingere gli immigrati, ma vuol dire
pretendere ancora di essere sovrani nel mondo.
Un
avviso non vuol dire una guerra, la sfida ad Assad non è un’invasione,
l’attrito senza precauzioni tra le armi americane e russe in Medio Oriente non
vuol dire che scoppi la guerra anche se dalle parti della Corea i giochi si
fanno pesanti. Può darsi perciò che la guerra in corso resti una guerra di
simboli e che i singoli olocausti che essi pur richiedono, non si uniscano in
un unico grande sacrificio. Ma il problema è che se in passato il mondo armato
di atomiche è stato in mano di apprendisti stregoni e ne è uscito indenne, oggi
non si tratta più di apprendisti, si tratta proprio di stregoni che hanno
imparato il mestiere. L’allarme di massimo pericolo che ne scaturisce dovrebbe
scuotere questa generazione, svegliarla dal sonno della ragione e mobilitarla
perché salga a resistere e a cambiare il corso della storia.
Raniero La Valle
Nessun commento:
Posta un commento