martedì 11 aprile 2017

IN NOME DEL TEMPIO. IN NOME DEL BAMBINO


La guerra ha bisogno del simbolo che la giustifichi; l’ISIS insiste con Dio e distrugge le chiese, l’Occidente, privato dell’alibi della guerra di religione si fa filantropo e lancia i suoi missili in nome dei bambini 

L’attacco firmato Daesh o IS alle chiese copte in Egitto è un’azione dagli alti contenuti simbolici. Si è scatenato contro un popolo di martirio e di pace, come ha detto il prete della comunità copta di Firenze; è avvenuto a tre settimane dalla visita del papa in Egitto, come a dire che il bersaglio grosso è lui; è stato perpetrato contro una chiesa piena di fedeli, a Tanta, e contro la cattedrale del patriarca Tavadros II ad Alessandria; è stato compiuto mentre erano in corso la messa in piazza san Pietro e le due messe celebrate nello stesso momento in Egitto, nel giorno liturgico della domenica delle palme, quando si ricorda che Gesù è stato ucciso con l’accusa di aver minacciato la distruzione del tempio.
Questo sovraccarico di simboli religiosi dice che i terroristi dello Stato islamico hanno assoluto bisogno di far passare la loro guerra per una guerra religiosa, volta a islamizzare il pianeta.
Naturalmente non lo è, come essa non è un puro esercizio di violenza di belve inferocite, quale è raccontata in Occidente. Secondo gli analisti più attenti  è qualcosa di diverso e di più: è un’espressione del risentimento anti-occidentale, alimentato da quattro secoli di dominio, in cui oggi precipita e si materializza un risentimento più generale, quello dell’anti-potere, e si manifesta un desiderio di vendetta dei succubi per l’espropriazione economica subita e la discriminazione privativa dei diritti. Lo scrive ad esempio dal Cairo, dove vive, Marco Alloni (in  “Il cattivo infinito, capire ISIS” editoriale Aliberti, Cavriago) – sostenendo che sotto attacco è il modello neoliberale che ha generato mostri creando “un unico scenario di un’unica tragedia ormai sotto gli occhi di tutti”.

Per consumare questa vendetta l’ISIS, che se l’è intestata, ha bisogno di un simbolo forte, la religione. Il simbolo non è la ragione della guerra, è la sua narrazione, la sua legittimazione popolare, il suo nome nobiliare. Sempre le guerre hanno avuto bisogno di nomi e di simboli, ma oggi più che mai perché nel mondo globalizzato il messaggio è tutto e tutto è messaggio. Non solo “il mezzo è il messaggio”, ma lo è l’azione stessa, incurante del mezzo: i mezzi, i “media”, inevitabilmente seguiranno.
La massima potenza simbolica storicamente messa a disposizione della guerra è quella di Dio: la guerra santa, la guerra giusta, cioè giustificata da Dio, la guerra fatta in suo nome, la guerra per la terra promessa da Dio, la guerra agli infedeli. le crociate, Costantino, “in hoc signo vinces”.
L’IS o “Stato islamico” ci prova di nuovo. La guerra all’Occidente, o quella contro i rivali interni alla stessa Umma musulmana, è guerra di religione. Non è un male, dicono, uccidere gli infedeli (questo lo dicevano anche i cristiani, per san Bernardo non era omicidio, ma “malicidio”). Ma la comunità islamica non è affatto d’accordo, non pensa a un Maometto sempre con la spada, e il 19 settembre 2014 leader islamici di tutto il mondo hanno scritto al sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi sconfessando la sua azione che fa dell’ Islam “una religione di durezza, brutalità, tortura e assassinio”. Ma l’ISIS insiste, senza la religione non può fare la guerra, e se Gesù voleva “distruggere” il tempio, esso attacca le chiese cristiane in nome del tempio, in nome di Dio.
Però c’è un problema nuovo. La guerra di religione non si può più fare, perché per farla bisogna essere in due, L’Occidente la farebbe volentieri, come l’ha sempre fatta anche se mascherata in molteplici forme, ma non la può più fare, perché il papa di Roma gliel’ha tolta dalle mani, dicendo che “il Dio della guerra non esiste”: cioè presentando al mondo un messaggio nuovo, che rivela un’altra immagine, un’altra identità di Dio. Rispetto al Dio di violenza e di guerra i cristiani, a sentire papa Francesco, sono atei.
Dunque c’è un impedimento alla guerra. E in effetti quella guerra mondiale a pezzi diagnosticata dal papa, non è precipitata in un unico evento, e la guerra che in questi quattro anni sembrava lì lì per esplodere, non è scoppiata. Obama non l’ha fatta, e la Clinton non è stata eletta. La farà Trump? Sembrava di no perché aveva detto di non volersi occupare del mondo, che prima di tutto c’è l’America e che gli altri facciano quello che vogliono: perfino l’idea portante dei due Stati in Palestina era stata abbandonata, e Netanyahu era stato lasciato libero di annettersi quello che vuole. Ma è durato poco, perché gli Stati Uniti, chiunque stia alla Casa Bianca, non intendono rinunciare allo scettro del mondo, la destra americana non lo permette, l’influenza russa in Medio Oriente va fermata, e sullo sfondo c’è la sfida alla Cina, per cui Trump non può fare l’isolazionista.
Però senza messaggi forti anche lui la guerra non la può minacciare, non la può fare. Non può fare come il giovane Bush che faceva la guerra all’Iraq e la sera piangeva sulla spalla di Dio. Se Dio non è disponibile, occorre trovare un’altra icona. Ed ecco che arriva una strage. Le stragi e le fotografie che le ostendono sono un ottimo viatico per la guerra. Grazie al massacro di Racak la Nato potè fare la guerra del Kossovo. E grazie a quello di Iblid Trump può fare la guerra di Siria. Un crimine di guerra, dice il premier italiano Gentiloni, il primo allineato, giustifica la guerra. Cionondimeno ci vuole un simbolo. Venuto meno il divino occorreva un’altra potente provocazione simbolica, un segno nel cui nome scatenare le armi. I bambini uccisi dal gas a Iblid sono stati questo simbolo. Non importa che i bambini siano le vittime universali percosse a Oriente e Occidente, e che la Convenzione dei diritti del fanciullo non sia osservata da nessuno, né riguardo ai bambini naufragati nel Mediterraneo, né riguardo a quelli ristretti con le loro madri palestinesi nelle carceri israeliane, né riguardo ai bambini di cui si commerciano gli organi, né quanto a quelli contro cui si innalza il muro con il Messico o si tolgono le cure sanitarie. Trump e tutto l’Occidente con lui sono stati lesti a impadronirsi del simbolo di Iblid, e non potendo  fare la guerra in nome di Dio la fanno in nome del bambino, l’immagine a lui più somigliante. E si aggiungono simboli a simboli: cinquantanove sono le vittime delle bombe chimiche a Iblid, cinquantanove sono i missili lanciati dalle comandanti delle navi americane nel Mediterraneo; senza prezzo è ogni vita umana perduta, senza prezzo è ogni Tomahawk sparato, un milione di dollari l’uno, cinquantanove milioni di dollari solo per dare un avviso, solo per dire che gli Stati Uniti ci sono, e che “America first” non vuol dire solo respingere gli immigrati, ma vuol dire pretendere ancora di essere sovrani nel mondo.
Un avviso non vuol dire una guerra, la sfida ad Assad non è un’invasione, l’attrito senza precauzioni tra le armi americane e russe in Medio Oriente non vuol dire che scoppi la guerra anche se dalle parti della Corea i giochi si fanno pesanti. Può darsi perciò che la guerra in corso resti una guerra di simboli e che i singoli olocausti che essi pur richiedono, non si uniscano in un unico grande sacrificio. Ma il problema è che se in passato il mondo armato di atomiche è stato in mano di apprendisti stregoni e ne è uscito indenne, oggi non si tratta più di apprendisti, si tratta proprio di stregoni che hanno imparato il mestiere. L’allarme di massimo pericolo che ne scaturisce dovrebbe scuotere questa generazione, svegliarla dal sonno della ragione e mobilitarla perché salga a resistere e a cambiare il corso della storia.
 Raniero La Valle

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