Pubblico una lettera scritta per il sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri a seguito di un chiarimento su diverse questioni che erano state sollevate.
Care amiche ed amici,
queste “Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” e il sito che le invia hanno taciuto dall’8 giugno dopo una grave critica avanzata da un giornalista della comunità di san Paolo, secondo cui l’attuale direttore del sito farebbe abuso del “Movimento” esprimendo a suo nome opinioni ecclesiali sociali e, peggio, politiche che sono solo sue. Questa critica è stata poi condivisa anche da una delle persone che fanno parte del gruppo dei promotori e organizzatori dell’iniziativa da cui il sito deriva.
Ciò ha offerto l’occasione per un chiarimento nell’ambito del gruppo promotore che è bene mettere in comune.
1) Chiesa di tutti Chiesa dei poveri non è un movimento, ma è una casa comune nella quale idealmente abitano persone gruppi riviste e interessati alla vita della Chiesa che all’avvicinarsi dei 50 anni dall’inizio del Concilio, nel 2012 vollero levare un grido per rivendicarne l’attualità e impedire che esso fosse seppellito nella Chiesa come c’era stata ragione di temere nel corso degli ultimi pontificati. Alla prima assemblea romana dedicata a questo scopo ne seguirono altre negli anni successivi, ma ormai quel grido era stato levato e fatto risuonare in tutta la Chiesa e anche nel mondo da papa Francesco. Si pensò perciò di continuare con una specie di incontro virtuale permanente che prese le forme comunicative del sito web e relativa newsletter, senza nessun altro cemento o vincolo comune che il patrimonio di idee e di analisi accumulatosi, con l’apporto di molti, nelle assemblea succedutesi a partire dalla prima; assemblee in cui quell’incontro virtuale aveva potuto rendersi visibile così come potrà accadere ancora in futuro.
Dunque non esiste un’entità organizzata “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” di cui si possa pretendere che esista un’opinione autentica o addirittura ufficiale, e nemmeno un’ecclesiologia o una teologia o un’ermeneutica che le sia propria. Esiste invece un consenso, espresso e reiterato, a scegliere di servire il Dio della misericordia, a invocare il patto di non uccidersi e a confidare che nell’attuale durezza del tempo, possa venire un tempo, e sia questo, in cui il Vangelo è annunziato in modo nuovo e possa fiorire la gioia di tutti e specialmente dei poveri.
2) In questa prospettiva che è propria del regime di incarnazione, non è neanche pensabile che si faccia astrazione dai problemi della società e della storia. Non ci sono spazi sacri alla politica con cui non ci si debba contaminare, non ci sono territori off limits in cui i critici del secolo non dovrebbero entrare, non ci sono spazi posseduti dal mondo ma interdetti ai credenti, in cui essi non abbiano voce, o in cui possano parlare solo a patto che svestano i loro panni, si censurino, e facciano finta che la fede non c’è. Un laicismo così volgare non è più invocato nemmeno dai mangiapreti, anche se è del tutto funzionale a conservare il mondo com’è.
Perciò una sollecitazione a un sito che ha un nome cristiano a occuparsi solo di incensi, di dottrine o di dissensi ecclesiali e non di politica, col motivo che a causa della sua natura, ma anche della sua patologia, in essa è molto più difficile trovarsi d’accordo, non è ricevibile. È uscito in questi giorni in Italia un libro di Martìn-Barό, uno dei gesuiti uccisi dagli squadroni della morte nell’Università Centro Americana del Salvador, in cui si fonda un nuovo sapere, la “Psicologia della liberazione”. L’assunto, come per la teologia della liberazione, è che venga superato il dualismo tra la storia della salvezza e la storia del mondo, tra un rassegnato e indegno “qui ed ora” e un felice “dopo”, ideologia preconciliare, questa, che ha causato vere e proprie devastazioni in America Latina e non solo. La storia è solo una, non c’è un ordine sociale stabilito per natura che non debba essere investito dalla parola della liberazione.
Perciò il sito e questa lettera, quando è necessario, parlano anche di politica, che si tratti del 4 dicembre in cui si è salvata la Costituzione, o del 4 marzo in cui i partiti che si credevano titolari e interpreti predestinati dell’ordine naturale delle cose, hanno perso le elezioni e il potere.
3) L’altra questione da chiarire – e qui chi scrive parla in prima persona – è con quale autorità io pubblichi nel sito e scriva la sua newsletter. Trattandosi di una pubblicazione periodica che reagisce anche ai fatti del giorno, la figura a cui sito e lettera devono essere assimilati è quella di un giornale, come anche è suggerito nella dicitura dell’home page. Di tale giornale non sono io – Raniero La Valle – né il proprietario, né l’editore che sarebbe semmai il gruppo dei promotori e organizzatori. Avendone però da questi ricevuto il mandato, ne sono responsabile come direttore. Ciò comporta per me un duplice obbligo: di rendere onore in questa funzione alla professione del giornalista, e di corrispondere con dignità alla responsabilità e al rischio di dirigere un organo di informazione. Credo però che ciò sia possibile solo se lo si fa secondo verità e in piena libertà.
Non sempre è facile e spesso ciò è causa di angustie personali e di strappi dolorosi. Posso ricordare due episodi di quando dirigevo “l’Avvenire d’Italia”. Una volta, a Natale del 1964, l’editore esigeva che in nome dell’unità politica dei cattolici richiesta dalla Chiesa, sostenessimo l’obbligo dei parlamentari democristiani, a pena di essere considerati pubblici peccatori, a eleggere Giovanni Leone presidente della Repubblica, mentre il Parlamento si orientava in tutt’altra direzione. L’editore era il papa, perché “l’Avvenire d’Italia” era il giornale nazionale dei cattolici, e un po’ di soldi, registrati però come capitale, venivano dal Vaticano; il giornale non era in pareggio perché carente della fonte principale di finanziamento che era (e ancora è) la pubblicità, dal momento che i vescovi non volevano nemmeno che si mettessero in pubblicità i film che allora il Centro Cattolico Cinematografico “vietava” ai minori di 16 anni. Ma mentre il papa voleva l’unità degli eletti, il giornale seguiva la linea di rispettare la laicità del Parlamento, nonostante il parere della proprietà, e non la mutò. Fu quella la prima volta, del resto, dodici anni prima della candidatura dei cattolici nelle liste del PCI, che l’unità politica dei cattolici fu rotta in Parlamento (e in quella occasione, per la scelta di principio di Leone contro Fanfani, fu eletto Saragat).
Un’altra volta l’editore (ancora Paolo VI) voleva che il giornale smettesse di condannare i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord, per attestarsi invece sulla linea di neutralità della Santa Sede, e il giornale non lo fece. Su ciò saltò poi non solo il giornale ma anche la diocesi di Bologna; tuttavia tutte e due le volte era il giornale che aveva ragione. Ma lì il principio era che ciascuno facesse in coscienza, cioè in verità e libertà, il suo dovere: il direttore facesse il direttore, il papa il papa, il vescovo il vescovo. A ognuno il suo peso, a ognuno dire il suo “SI SI NO NO”. La penso ancora così: ma è l’ordine delle cose.
4) Perciò mi sono accorto di uno sbaglio che ho fatto quando per scrupolo ho firmato con il mio nome alcune di queste newsletter che più direttamente comportavano opinabili valutazioni politiche: il 7 marzo, il 29 maggio, il I, il 5 e l’8 giugno. Alle volte per tutta la vita si combatte contro un determinato errore, e poi si finisce per caderci senza accorgersene.
L’errore è quello dell’artificio inventato da Jacques Maritain che è servito per decenni a legittimare il clericalismo dei partiti cattolici e l’apparente laicità della loro sembianza. L’artificio consisteva nella distinzione schizofrenica tra ciò che i cattolici facevano “in quanto cattolici”, secondo le direttive della Chiesa, e ciò che facevano “in quanto cittadini” nello spazio residuo che gli era lasciato per decidere da loro. Nel nostro caso l’errore sarebbe di distinguere ciò che uno scrive come direttore di un organo di opinione, e ciò che uno scrive come persona; nel primo caso come responsabile, nel secondo caso come utilizzatore dell’organo che dirige. L’errore sta in questo, che in ogni giornale ciò che non è firmato è riferito al direttore, e ciò che è firmato è di chi lo scrive, non al di fuori però della responsabilità di chi dirige. Perciò non c’è bisogno che questa o quella newsletter sia firmata, a meno che non sia scritta da autori diversi dal direttore del sito. Ciò naturalmente non comporta alcuna presunzione che le valutazioni espresse nelle lettere corrispondano a quelle di tutti coloro che si riconoscono nell’ispirazione di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, e ancor meno di tutti gli iscritti consenzienti alla newsletter, molti dei quali, senza scelte di merito, vogliono semplicemente essere informati e seguire questa iniziativa.
5) Né sarebbe accettabile la proposta di sostituire alla gestione responsabile del sito una “gestione democratica”, per la quale in una lista di attesa fossero prenotati “aderenti al movimento” che a turno ogni tre o quattro mesi si alternassero a trattare ogni argomento, che si tratti di intimazioni al papa su come deve fare il papa, o del rimpianto per l’occasione perduta di Renzi. Qui il modello è quello che dilaga nelle tavole rotonde, nei talk-show televisivi, nelle maratone elettorali e nei fili diretti radiofonici, in cui il pensiero unico si riproduce e si impone nelle variegate vesti di Arlecchino.
6) Pertanto avendo il gruppo dei promotori e organizzatori del sito confermato il mandato di dirigerlo al direttore in carica, ciò di cui egli ringrazia, e chiarita la questione della imputabilità a lui di quanto pubblicato senza altra specificazione di fonte, riprendiamo l’invio della newsletter che non sarà firmata, salvo che abbia altri autori, o in casi di eccezione e finché non sia diversamente stabilito.
Continua...