Nella lettura biblica prima della
festa del Corpus Domini, sabato scorso, Marta Tedeschini Lalli, una suora
camaldolese, ha ricordato che in una liturgia romana della Messa, ora non più
in uso, c’erano due “epiclesi”, cioè invocazioni, prima della consacrazione;
nella prima si chiedeva, come di consueto, che il pane e il vino si
trasformassero nel corpo e nel sangue di Cristo, nella seconda si chiedeva che
gli stessi partecipanti al rito si trasformassero nel corpo e nel sangue del
Signore: questo infatti è l’eucarestia. Ciò comporta un significativo
rovesciamento perché alla luce di questa più acuta percezione della fede,
attestata del resto nei primi secoli del cristianesimo dai Padri della Chiesa,
il pane e il vino sono quelli che diventano il “corpo mistico” di Cristo, che
non si vede, mentre gli uomini, le donne, i poveri, i popoli, la storia, diventano
il “corpo reale di Cristo”, che si vede. “Non è un’immagine, ma è realmente
carne” ha scritto di recente la Civiltà Cattolica.
Questa, come cristiani, è la buona ragione per cui amiamo gli uomini e le donne, “presenza
reale” di Dio , per cui pensiamo e facciamo politica, ci struggiamo per la
storia, e ora anche per l’ecologia, incuranti del falso dibattito se sia più
laico chi nomina o chi non nomina Dio, chi non pretende o chi pretende il
crocefisso nelle scuole.
Un altro gesuita, Henri De Lubac,
commentando un testo della “Didaché”, ci ha trasmesso la celebre analogia:
“Come il pane e il vino sono formati da una miriade di chicchi di grano e di
gocce spremute da grappoli d’uva, così questa comunità si forma dall’unificarsi
di tutte le persone che partecipano all’eucarestia e diventano membri
dell’unico corpo di Cristo”. Le analogie non sono innocue; e questa, portata
fino in fondo, dice che questa unità si realizza, secondo il gesto compiuto da
Gesù, se il pane viene spezzato, e in quanto spezzato viene poi condiviso e
così ristabilisce l’unità.
Così è dell’unità di tutti gli
uomini tra loro. Prima essa è spezzata, frantumata, dispersa; poi, in forza
della condivisione realizzata tra loro, essi giungeranno all’unità.
Oggi siamo all’umanità spezzata;
e mai la sua carne è stata più frantumata e lacerata come da quando celebriamo la
libertà della globalizzazione. Si tratta della libertà per cui tutto può andare
dappertutto; ma questa libertà di muoversi per tutti i luoghi e in tutte le
direzioni, l’abbiamo istituita e riservata solo alle cose: al capitale, alle
merci, alle fabbriche depurate dagli operai, alle manifatture, ai servizi, ai
call center, ma non l’abbiamo data alle persone. In questa sua attuale forma
economica e finanziaria la globalizzazione non può realizzarsi che in forza di
un capitalismo integrale, di quel neoliberismo ignaro delle persone e dei corpi
che in un altro universo di valori viene chiamato “globalizzazione dell’indifferenza”.
È questa umanità spezzata che va
ora ricomposta. Viene perciò il tempo dell’umanità condivisa. Il compito più
grande, il vero cambiamento non solo per l’Italia, ma per l’Europa e per il
mondo, è di portare all’unità la carne spezzata delle nostre storie divise,
mediante culture e politiche di condivisione, estendendo alle persone la
libertà di muoversi e di stabilirsi che abbiamo dato alle cose. Per questo lo
slogan “Prima l’America”, o uno che fosse “Prima i bianchi”, ma anche, quello
oggi più in auge, “Prima i cittadini”, sono
contro il nuovo traguardo dell’umano. Perché siamo tutti di colore, e siamo
tutti stranieri. Infatti se siamo cittadini per noi, siamo stranieri per gli
altri, e perciò ognuno è all’altro straniero, e di conseguenza nessuno è
straniero. Certo non è per oggi raggiungere questo traguardo, ma a partire dal
nuovo globalismo di oggi, questo è il cammino da iniziare, su questo vanno
giudicati ogni cambiamento e promessa di cambiamento.
Quanto al governo che si è
presentato oggi alle Camere, staremo a vedere, con vigilanza, nello stesso spirito
con cui abbiamo seguito la lunga crisi seguita alle elezioni del 4 marzo. Avevamo
detto nella nostra newsletter n.72 del 7 marzo (“Una felice discontinuità”) di
amare tutte e due le Italie uscite dalle urne, raffigurate nelle cartine
mostrate in TV, quasi tutta di un colore l’Italia del Nord, tutta d’un altro
colore quella del Sud; ora si è fatta viva una terza Italia, contrapposta alle
prime due e ferocemente critica del governo che esse hanno fatto insieme; e noi
amiamo anche questa, tutte e tre come un’Italia sola, con un amore fatto di
stima e di rispetto.
Per questo non siamo d’accordo con i toni alti
di chi denuncia una “viltà generale” perché si è permesso che andasse al potere
“l’estrema destra razzista e golpista”, descritta come pari o peggio del
fascismo, “con o senza distintivo”, cosa non vera; né siamo d’accordo col
disprezzo con cui è guardata la nuova maggioranza; né ci ha disturbato la
spavalderia di cui sono stati accusati i “Cinque stelle”quando sono saliti
tutti compatti alla festa del Quirinale come se entrassero in una terra di
conquista; può darsi che dessero questa impressione, ma era la prima volta
dalla “inequa” unità d’Italia che il Sud giungesse al Quirinale e nei sacrari
del potere non nelle umiliate vesti del Gattopardo.
Ci ha interessato di più
l’anatema di Berlusconi che ha accusato l’inedita alleanza costituitasi in
italia di “pauperismo e giustizialismo”: un’accusa che va decodificata, perché
oggi per mettere alla gogna il buono si dice “buonismo”, per neutralizzare il
popolo si dice “populismo”, per invalidare la sovranità si dice “sovranismo” e
per liquidare la fede si dice “fideismo”. Dunque, così decodificata la condanna
di Berlusconi – povertà e giustizia - l’accusa alla nuova maggioranza è quella di
accorgersi della povertà. di volervi porre rimedio, e di fare giustizia. In
verità lotta alla povertà e giustizia sarebbe un magnifico programma di
governo, e Berlusconi stesso lo addita deprecandolo, dopo l’opposto messaggio
da lui trasmesso per anni con i suoi
governi e le sue televisioni. Magari fosse così, fosse questa la cifra del
governo, non ne siamo affatto sicuri, e non solo per i limiti suoi e dei suoi
attori principali, ma perché dovrebbe cambiare profondamente la cultura non di
un’Italia, ma di tutte e tre, e ancor più, non solo dell’Italia, ma dell’Europa
e dell’Occidente.
Dunque staremo a vedere, con
molta vigilanza, sperando sempre che ciò che nasce cresca, che il nuovo non
fallisca, che il meglio accada, perché il “tanto peggio tanto meglio” non è
solo un ossimoro, è un delitto.
Raniero La Valle
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