L’avvio del governo
derivante dalle elezioni del 4 marzo, ci consente di trarre qualche conclusione
sugli insegnamenti di questa lunga crisi. Non intendo dare qui però un giudizio
politico, ben sapendo quanto siano fieramente opposte le opinioni in proposito.
Ma per quanto possano essere fondate le riserve sul governo Conte-Di
Maio-Salvini, non credo che sarebbero stati preferibili il fallimento e il
collasso della legislatura, prima ancora del suo inizio. Non lo credo per la
ragione per cui abbiamo lottato per tutta la vita, e a volte fatto anche scelte
difficili e dolorose, e perfino laceranti nella nostra comunità ecclesiale; e
la ragione è che quando la democrazia giunge a un blocco per la quale non può
più proseguire, bisogna fare le scelte anche più ardue perché non venga meno il
principio potente che è alla base di tutto, che è quello dei numeri, che è il
governo dei più, non dei più forti; perché è vero che la democrazia non sta
solo nei numeri (perciò ci sono le Costituzioni) ma senza i numeri non c’è
affatto democrazia; e la democrazia non sta in natura, è un prodotto della
ragione, può finire. E la seconda ragione per cui un fallimento sarebbe stato distruttivo non solo della
democrazia ma della stessa politica, è che non si può dare per acquisito che le
forme e le regole del capitalismo - anche costituzionalizzato e tradotto in
regime come lo è purtroppo nei Trattati europei - non si possono cambiare e
addirittura nemmeno discutere.
L’analisi che di
questa drammatica esperienza è ora utile e necessario fare, al di là di quelle
di partito, è un’analisi di antropologia politica. Perché quello che colpisce è
quanto, contro la stessa lezione di Machiavelli, i diversi soggetti abbiano
operato in questa vicenda, quasi spinti da un fato, a favore non di se stessi
ma dei propri “nemici” e in modo da far accadere precisamente ciò contro cui
più strenuamente combattevano; si potrebbe dire, in termini colti, che si è assistito
a una gigantesca eterogenesi dei fini.
Per primo è capitato
al presidente Mattarella, che giustamente voleva tutelare l’euro, la pace
sociale e i risparmi degli italiani. Ma proclamando ufficialmente dalla città
sul monte del Quirinale che il diniego a Savona era motivato dal fatto che il
suo insediamento all’Economia avrebbe potuto essere visto come tale da
“provocare probabilmente o addirittura inevitabilmente
la fuoruscita dell’Italia dall’euro”, mentre assicurava che quel governo non ci
sarebbe stato, certificava nello stesso tempo che in Italia c’era già in atto,
e non solo in ipotesi nel futuro, una maggioranza dell’elettorato e di seggi
parlamentari pronti a buttare a mare l’euro e a tornare alla lira. Di qui il
panico dei mercati, la febbre delle cancellerie, il salto in alto dello spread,
i miliardi bruciati nelle borse di mezzo mondo.
Il secondo a farsi del
male è stato Di Maio che precipitandosi nel baratro della richiesta di impeachment dimostrava l’immaturità
politica del movimento, distruggeva la credibilità istituzionale acquisita
nella sua lunga marcia da forza anti-sistema a ortodosso innovatore del
sistema, e lanciava un’inopinata ciambella di salvataggio al suo maggior
nemico, il partito democratico, che poteva tornare sulla scena issando lo
stendardo del Quirinale e proponendosi come albergo di una santa alleanza a
difesa del santo Graal monetario e del reddito di sussistenza degli italiani a
rischio di miseria.
Terzo è stato Salvini,
che nella sua scaltrezza disinnescava la mina dell’impeachment, ma perdeva il valore aggiunto di chiave di volta di
una maggioranza parlamentare e, risucchiato nell’alleanza di destra, rimetteva
in corsa il cavaliere che era il suo vero antagonista e che si affrettava a
candidarsi lui stesso al governo per salvare la patria.
Quarto Renzi, che perorava
l’immediato abbandono della nave ammutinatasi il 4 marzo e voleva nuove
elezioni già il 29 luglio, per lucrare il dividendo del disastro e
recuperare qualcosa dei consensi perduti, destinati invece in tal modo a
perdersi sempre più.
Quinto, Romano Prodi,
che a difesa di tutta la politica interna ed estera seguita dall'Italia dal
dopoguerra ad oggi (in cui egli stesso ha avuto gran parte dall’IRI all’euro,
da Roma a Bruxelles) ha chiesto di fare delle prossime elezioni un referendum sullo
stare o fuoruscire dall’euro, ormai identificato con l’Europa, chiamando alla
lotta un ampio schieramento di forze politiche e sociali. Il
paradosso sta nel fatto che il referendum sull’euro, illegittimo per la
Costituzione, è stato finora ragione di veemente accusa contro coloro che lo
volevano promuovere; e se ora è il ceto istituzionale stesso che lo vuole
indire sotto le mentite spoglie delle elezioni politiche, se lo si perde, come
Renzi ha perso il suo, non c’è più Mattarella che tenga e l’euro se ne va in
frantumi. Prova questa che la politica, quando è schiacciata sul paradigma del
denaro, diventa ciò che del denaro è la massima sfida: un gioco d’azzardo.
Sesto, il coro del
circuito mediatico e televisivo che a forza di manipolare l’informazione
rischia di non poter informare più. Ne è stato esempio la falsa e devastante notizia
diffusa dall’Huffington Post
sull’uscita dall’euro e dal debito che sarebbe stata contenuta nella prima
bozza del famoso “contratto”, quando invece era un “draft” proposto all’inizio
da uno dei molti partecipanti alla trattativa; con la conseguenza che qualunque
altro negoziato futuro dovrà avvenire in segreto senza informazione alcuna, secondo l’antica saggezza del Conclave che
stacca ogni comunicazione col mondo e si fa vivo solo con segnali di fumo.
L’unico a uscire
indenne da questo generale autolesionismo è stato il povero Conte, dileggiato
come il Signor Nessuno, l’Uomo Qualunque o il Cavaliere inesistente, uscito di
scena con dignità e poi silenziosamente riapparso “nei pressi di Montecitorio”
nel giorno peggiore della crisi, dando occasione alla TV che ne ha colto al
volo l’immagine di risuscitare la speranza che quel governo si potesse
realizzare. E altrettanto bene Cottarelli, che ha lasciato il Quirinale
affermando che la soluzione di un governo politico era di gran lunga migliore
di quella “tecnica” da lui stesso tentata, e ponendo fine alla febbre delle
elezioni da rifare.
Questo è stato
l’angoscioso scenario della crisi, fino a quando un ravvedimento operoso ha
mostrato che a decidere può non essere il fato, o un’altra astrazione idolatrica
simile a lui, ma può essere la politica, cioè l’intelligenza e il cuore delle
persone. Così Mattarella ha fatto finta di non ricordarsi che Di Maio gli
voleva scatenare l’impeachment; Di
Maio ha avuto l’umiltà di riconoscere il suo errore e di chiederne scusa;
Salvini ha mostrato che il governo davvero lo voleva fare e non, come tutti lo
accusavano, di voler approfittare a spese del Paese del vento in poppa
elettorale; Savona ha accettato di passare come un ministro senza portafoglio
da tenere sotto sorveglianza; di Conte e Cottarelli abbiamo detto.
Ora che il governo
c’è, ognuno assuma il suo ruolo, di maggioranza o di opposizione, di appoggio o
di critica. Per quanto ci riguarda il criterio supremo sul quale
giudicarlo è quello della salvaguardia e
dell’onore offerti allo straniero, perché “ricordatevi che anche voi siete
stati stranieri in Egitto”. E non sta questo alla base della famosa tradizione
giudeocristiana che Salvini ha rivendicato nei comizi giurando sulla
Costituzione e sul Vangelo e con il rosario in mano, con la promessa che “gli ultimi diventeranno i
primi”?
Raniero La Valle
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