martedì 18 settembre 2018

IL TEMPO CHE VIENE


Mentre papa Francesco andava a Palermo c’è stato a Fonte Avellana, che è un monastero camaldolese, un incontro  per richiamare la “profezia” di padre Benedetto Calati, un grande monaco del Novecento morto alla fine del 2000, proprio sulla soglia del nuovo millennio.
Profezia è, nel linguaggio cristiano, uno svelamento e un annuncio ispirato delle cose che devono venire, qui nella storia ma anche oltre la storia. In questo senso si dice dello stesso popolo cristiano che è un popolo profetico, nella continuità della profezia di Gesù.
A Fonte Avellana si è convenuto che la profezia di padre Benedetto Calati “parla ancora” e se ne è ricostruita la radicalità, che andava ben oltre un riformismo progressista. Era una profezia che prima di tutto afferma il primato dell’amore sopra ogni altra cosa, anche sopra la legge e le dottrine; vede la Chiesa terrena non come una istituzione che guarda se stessa, ma come una pedagogia, sicché la Chiesa dovrebbe insegnare a far a meno della Chiesa, trasformando le persone stesse in Vangelo vivente;  relativizza i sacramenti come segni e non sostituti delle realtà significate; riconosce che il controllo della fede non si può fare e che si debba lasciar campo allo Spirito che parla alle Chiese, ciò da cui deriva anche l’incongruenza di un organo deputato al vaglio della dottrina della fede; postula il superamento del letteralismo biblico e afferma la sovrana libertà del cristiano. Detto così, sembra una rivoluzione e invece, come diceva padre Benedetto, è storia salvifica in atto.
Ma il problema della profezia non è che continui a parlare chi la propone e non venga meno chi la ascolti, come si è fatto a Fonte Avellana; il problema della profezia è come essa si realizza, come “accade”.  Perché ci sono profeti e profeti, e ci sono anche i profeti di sventura “che annunciano eventi sempre infausti quasi incombesse la fine del mondo”, come denunciò Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II, e come ce ne sono tanti oggi che proliferano nella Chiesa.  La promessa che invece allora ci fu elargita, da papa Giovanni e dal Concilio, fu quella espressa nella profezia positiva, che si andasse verso “un nuovo ordine di rapporti umani che per opera degli uomini, e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori ed inattesi».
Oggi siamo a questo bivio: che o questa profezia si realizza, o tutto, anche la Chiesa, può andare perduto. La crisi infatti ci assale dappertutto.

Il passaggio della profezia dall’annuncio al suo avverarsi consiste nel passare dal tempo della visione al tempo messianico,  cioè all’agone per la realizzazione delle promesse, e nel trasformarsi del popolo profetico in popolo messianico. Ben lo vide Walter Benjamin quando riconobbe nel presente il tempo in cui sono sparse schegge di quello messianico. Ebbene, è quello che sta accadendo, non ancora per il popolo, ma per il papato che con Francesco si sta rivelando come un pontificato messianico, perché cerca instancabilmente ogni giorno di trasformare l’annuncio in avvenimento, in modo lentissimo, certo, tra mille insidie e offese lanciate contro di lui, ma senza abbandonare il progetto operoso di un’umanità nuova, fuori della globalizzazione dell’indifferenza e dell’economia che uccide, e nella prospettiva di una vera Chiesa di Chiese.
È un progetto certo difficilissimo e aborrito dal “mondo”, a cui non pare vero che sia esploso il dramma della pedofilia, che senza dubbio  la Chiesa deve continuare a combattere con trasparenza e con rigore, ma che può e forse già viene usato dal mondo avverso alla salvezza come un’arma di distrazione di massa per impedire il rinnovamento.
Il passaggio dalla profezia alla scelta messianica è decisivo. Nella vita stessa di Gesù si possono individuare alcuni di questi momenti cruciali. Il primo, all’inizio, è quando nella sinagoga di Nazaret legge Isaia, ma solo fino al versetto che annuncia l’anno di misericordia del Signore, perché si ferma e lo censura quando ci sarebbe da annunciare “un  giorno di vendetta del nostro Dio”  e aprire la strada al sionismo politico. Non a caso già allora quelli della Sinagoga, che da lui volevano solo i miracoli, cercarono di farlo morire. Un altro momento è quando al pozzo di Sicar annuncia alla Samaritana un tempo, “ed è questo”, in cui né a Gerusalemme né sul monte Garizim si adorerà il Padre, ma i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità. Il terzo momento è quando nel giardino del sepolcro dice a Maria di annunziare ai fratelli la sua resurrezione e la sua salita al Padre suo e Padre loro, al Dio suo e Dio loro. In tutte e tre queste circostanze ci sono, determinanti,  delle donne un po’ fuori dell’ordinario: Nazaret è la città di Maria, la vergine che però aveva partorito; al pozzo di Giacobbe c’è la Samaritana che aveva avuto cinque mariti e quello con cui stava non era suo marito, però annuncia ai suoi, che erano stranieri per Israele, di aver incontrato il Messia;  e c’è una tradizione che identifica la Maria del giardino della resurrezione, la prima apostola, con la peccatrice. Ci si può chiedere come mai da questi annunci messianici di Gesù si sia poi andati a scadere nell’etica sessuofobica della Chiesa, e le donne siano state messe a tacere e private di autorità nella Chiesa.
Ora questi tre passaggi cruciali  dalla profezia al messianismo consistono in questo: la negazione della vendetta e il ripudio della concezione di un Dio violento; il sopravvento della fede e della libertà di coscienza sull’istituzione; il rifiuto, nel primato dell'amore, di ogni resa alla morte: il messianismo infatti istituisce una forza frenante, una forza di resistenza alla morte, alle morti ingiustamente inflitte per qualsiasi causa, e non concepisce la morte senza la resurrezione.
Appunto questo è’ ciò che oggi è necessario: il nuovo ordine di rapporti umani significa realizzare l’unità umana, l’unico contesto in cui l’irreversibile problema dei migranti può essere risolto. Essi sono ormai il prodotto inevitabile della globalizzazione, e ormai non si può tornare indietro. Gli apprendisti stregoni hanno fatto uscire i demoni dalla bottiglia, pensando di fare libero il denaro e di tenere rinserrati gli uomini, ma hanno perso il controllo della loro impresa e ormai i demoni non si possono ricacciare nella bottiglia. Perciò non c’è che la strada di frontiere aperte, di un ordinamento politico non più fatto di Stati sovrani ciascuno dei quali pretenda di esser “prima” degli altri, e di farsi giustizia da sé, e non c'è che la via politica del riconoscimento del diritto fondamentale ed universale per tutti di migrare e di stabilire ciascuno la propria vita in qualunque parte della terra che a tutti gli uomini e le donne è stata donata.


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