Relazione tenuta al convegno di “L’altra pagine” dell’8-9 settembre 2018, sul tema. “Approdi e naufragi”
Raniero La Valle
Un discorso
sui migranti dovrebbe cominciare con le statistiche. Dovrebbe dire per esempio
che nel 2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al
giorno: è la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3771, mentre
nel 2017 le vittime sono state 3081.
Dovrebbe poi
dire che dal 1 gennaio al 22 giugno 2018 i migranti sbarcati in Italia sono
stati solo 16.316, e che in Italia ci sono solo 2,4 rifugiati ogni 1000
abitanti, che è tra le percentuali più basse in Europa.
Un discorso
sui migranti dovrebbe dire che nel 2017 ci sono stati 68 milioni e
cinquecentomila persone vaganti e costrette alle fuga. I richiedenti asilo che
all’inizio dell’anno scorso erano in attesa di una decisione sulla loro
richiesta di protezione erano 3 milioni centomila. .
Un discorso
sui migranti dovrebbe dire che la maggior parte delle persone in fuga sono
giovani, nel 53 per cento dei casi sono minori, molti dei quali non
accompagnati o separati dalle loro famiglie.
Dovrebbe dire
che entro il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti
ambientali ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.
Però un
discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono numeri. I
150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e giorni di far
sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia morale e
politica più grave rispetto ai 3000 naufraghi scomparsi in mare senza che
nessuno potesse dar loro soccorso..
D’altronde ci
sono altri numeri non meno agghiaccianti di quelli che riguardano i profughi:
per esempio i numeri che denunciano l’orrore di un fenomeno che credevamo
scomparso, la
schiavitù. Nel mondo ci sono 45 milioni e 800.000 schiavi; 18
milioni 300.000 solo in India, ma alcune stime parlano di 200 milioni di
persone che nel mondo sono in condizioni di schiavitù, nonostante la sua abolizione
ufficiale. Anche l’Europa non ne è esente, in Italia si calcola che ce ne siano
128.000, per molti si parla di nuove schiavitù, come quella della tratta degli
esseri umani, dello sfruttamento sessuale di donne e bambine considerate come
oggetto di proprietà, della vendita di organi. E poi ci sono i numeri
spaventosi di tutte le guerre, dal mezzo milione di morti della guerra irachena
ai 350.000 della guerra siriana, alle innumerevoli vittime della guerra mondiale
a pezzi che, come dice il papa, abbraccia di fatto tutto il mondo.
Quindi ci
sono statistiche peggiori di quelle che riguardano i migranti.
Però ci sono
numeri e numeri. E c’è una ragione per la quale i numeri che riguardano i
migranti sono oggi più importanti di
tutti gli altri numeri. Perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e causa
un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che stiamo
passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una
discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra
è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come
si reagì alla scoperta dell’America. È su come rispondere a questa novità
dirompente che massimamente sono chiamate in causa la nostra etica, la nostra
cultura, la nostra politica, il nostro diritto, cioè la nostra capacità di
stare al mondo e di dare un ordine al mondo.
Naturalmente
è chiamata in causa anche la nostra fede; ma io oso sperare che la nostra fede
la risposta ce l’abbia e che anzi, con papa Francesco, questa risposta l’abbia
già data, come del resto l’ha data qualche giorno fa la Chiesa italiana nel caso
della liberazione dei migranti prigionieri a Catania, e non certo per fare un
piacere a Salvini.
Vi ho detto i
motivi per i quali il discorso sui migranti non può essere il discorso dei
numeri, dei flussi, non può essere il calcolo di quanti ne potremmo accogliere perché
facciano loro i lavori che ci servono o di quanti addirittura ne avremmo
bisogno in Italia e in Europa per compensare il nostro deficit demografico, il
nostro egoismo procreativo; questo sarebbe ancora un modo utilitaristico e
usuraio di affrontare il problema, anche se purtroppo è proprio questo il modo
mercantile e meschino con cui questo problema è affrontato dall’Europa in
declino.
Il naufragio fondatore
Vorrei invece
parlare dei migranti come del kairós del tempo che viene. E prima di parlare
degli approdi, che del resto sono negati, dobbiamo parlare dei naufragi.
Per farlo io
vorrei risalire dai naufragi di oggi a un altro naufragio, che è un po’ il
prototipo dei naufragi nel Mediterraneo, è un po’ il naufragio fondatore della
storia del Mediterraneo. Freud parla di un delitto fondatore che sta all’origine
delle società e delle culture. Io vorrei parlare qui di un naufragio fondatore.
Il naufragio
fondatore è quello di Giona, il profeta. Come sapete dal racconto biblico la
sua presenza sulla nave che da Giaffa andava a Tarsis è causa di una grande
tempesta, e allora i marinai per salvarsi lo gettano a mare, e lì nel cuore del mare le acque lo
sommergono, l’abisso lo avvolge, l’alga si avvince al suo capo, la terra chiude
le sue spranghe dietro di lui, e nel contempo il mare placa la sua furia.
Dunque col
naufragio di Giona sembra che tutti sia finito; i marinai che lo hanno gettato
in mare sono in salvo, e così anche la nave, il Mediterraneo è ritornato calmo,
le terre che lo circondano sono al sicuro, mentre il naufrago è scomparso,
inghiottito dai flutti, non darà più fastidio e pena a nessuno. È un po’ quello
che pensiamo noi, che pensa l’Europa, quando i barconi dei profughi spariscono dai radar, non importa dove siano
andati a finire, tanto sono numeri, di morti, di dispersi oppure di respinti, ,
di deportati lì dove non vorrebbero andare.
Ma così non è,
non tutto è finito: Giona, inghiottito da un pesce, è da questo rigettato
sull’asciutto e torna a incombere sul
futuro come una partita che non si è chiusa. Infatti il pericolo rappresentato
da Giona diventa ancora maggiore di quello di prima, perché si volgerà contro la grande città che
troneggia sulla terraferma a cui egli annunzierà addirittura la distruzione, in
pratica il genocidio, pretendendo che sia Dio stesso ad eseguirlo. In effetti
non si sa in che modo debba avvenire la
distruzione e lo sterminio di Ninive; secondo la Bibbia sarà opera di Dio, ma
qui la Bibbia si sbaglia, Dio non fa nessun genocidio, però ancora non era
venuto Gesù a dirlo, non era ancora
venuto a fare l’esegesi di Dio, e quindi la Bibbia non lo sa. E così anche noi
oggi non sappiamo chi sarà nel nostro tempo a perpetrare devastazioni e
genocidi. Però una cosa la Bibbia ebraica sapeva, e una cosa possiamo sapere
anche noi; che se Ninive si converte, se i cittadini di Ninive, dal più grande
al più piccolo si ravvedono e cambiano la loro condotta, e se i re di Ninive,
invece di diffondere odio e paura, si alzano dal trono e chiedono che ognuno si
converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani, la
città non sarà distrutta, e il genocidio non ci sarà.
Il nostro naufragio
Questo
apologo può aiutarci a capire la situazione in cui siamo.
Siamo in una
situazione di naufragio. Ma il naufragio non è principalmente quello dei
migranti. È il nostro naufragio. Quando a livello di governo, col favore
dell’opinione pubblica monitorato dai sondaggi, si arriva a concepire una sorta
di Guantanamo italiana, e si tengono prigionieri 150 naufraghi su un nave
militare italiana nel porto di Catania, questo è un naufragio. È il naufragio
della comune umanità; ma è anche il naufragio della Costituzione italiana, che
all’art. 13 dice che la libertà personale è inviolabile, che nessuno può coartarla
se non un giudice e secondo laì legge, e questo vale non solo per i cittadini
ma per tutti, né possono esistere nel nostro ordinamento zone franche dal
diritto. Il ministro dell’Interno è giustamente indagato perché egli non ha
alcun potere sulla vita e sulla libertà delle persone recuperate in mare alle
quali non può impedire lo sbarco e l’esercizio dei propri diritti, sia il
diritto di chiedere l’asilo, sia il diritto alla protezione dei minori, sia il
diritto alla salute, e in ogni caso il diritto alla vita.
Ma il
naufragio è anche quello dell’Europa, e qui Salvini ha ragione, perché le
frontiere che si chiudono in Italia sono le frontiere che aveva già chiuso
l’Europa, sono le norme di sbarramento dello scellerato trattato di Dublino,
sono i fili spinati tesi a bloccare la rotta dei Balcani, sono la caccia ai
profughi a Ventimiglia e sulle Alpi francesi, sono le baracche dei migranti
rase al suolo e bruciate nella città satellite o “giungla” di Calais, come sono
le motovedette italiane fornite dal ministro Minniti alla Libia perché
catturino e riportino i fuggiaschi negli inferni da cui sono usciti.
E il
naufragio è anche quello degli Stati Uniti dove Trump innalza ed allunga il
muro col Messico già costruito da Clinton e da Obama,
Allora ecco
in che consiste il vero naufragio. Esso consiste nel ricadere in quella notte
oscura da cui l’Europa e il mondo erano usciti alla fine della seconda guerra
mondiale. E fu quando essi decisero che mai più avrebbe dovuto esserci un
genocidio, e che anzi quella parola nuova che era stata coniata per definirlo
sarebbe stata una parola destinata a morire insieme alla realtà da lei
nominata, che non avrebbe dovuto prodursi mai più. Per questo il
primo atto che le Nazioni che si erano unite nella guerra antifascista e si
incontrarono a San Francisco per dare inizio a un mondo nuovo, fu la
Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Il
Novecento non era stato avaro di genocidi, anche se nessuno ancora li aveva
chiamati così: dal genocidio degli Armeni a inizio del secolo a quello degli
Ebrei al culmine dei suoi orrori, ma anche degli zingari e di altre specifiche aggregazioni umane che si volevano
eliminare come tali, dagli omosessuali ai dissidenti politici agli uomini
considerati di qualità inferiore.
Perciò nella
Convenzione contro il genocidio si ebbe cura di affermare che si intende per
genocidio non solo lo sterminio di un popolo intero, ma ogni atto volto “a
distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso
come tale”; dunque il popolo che la Convenzione intende tutelare è ogni gruppo
umano accomunato da fattori e circostanze che fortemente lo identificano; e tra gli atti sanzionati per tale crimine vengono
esplicitati le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del
gruppo, la sottoposizione del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la
sua distruzione fisica, totale o parziale, le misure miranti a impedire nascite
all’interno del gruppo.
Se ora
applichiamo tali criteri alla specifica condizione umana dei migranti, vediamo
come anch’essi siano un popolo, un popolo in cammino, di uomini e donne che in gruppi ed
aggregazioni le più diverse, insieme affrontano il mare o le rotte terrestri
per andare da un Paese all’altro, tutti muovendosi con le stesse motivazioni e
condividendo lo stesso destino; ed è questo popolo come tale, nelle sue diverse
espressioni, che l’Occidente e molti Paesi d’arrivo respingono e perseguono per la sola e comune
ragione che si tratta di un popolo di migranti; si tratta cioè di aggregati
umani che le politiche e gli ordinamenti di questi Stati negano nel loro stesso
diritto di esistere, di avere una cittadinanza, di essere ricompresi nelle
regole del diritto; e proprio come è vietato nella Convenzione dell’ONU, i
membri di questi gruppi sono esposti a lesioni gravi della loro integrità
fisica e mentale, e i gruppi stessi sottoposti a condizioni che di fatto li
distruggono in modo totale o parziale, le donne sono messe in condizioni per
cui sono impedite le nascite, e spesso i fanciulli sono separati dal gruppo e
forzatamente inclusi in un altro.
Perciò in un
appello partito da un’assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, appello che ha poi
raccolto migliaia di firme a cominciare da quelle di quattro Premi Nobel per la
pace, noi abbiamo definito il delitto
che si commette nei confronti delle collettività dei migranti come un genocidio.
Si tratta di un appello a resistere a questa deriva omicida, per dare luogo
invece a “un mondo non genocida” – non più genocida – che, come vorrebbe essere
la Chiesa di papa Francesco, sia patria di tutti e soprattutto patria dei
poveri.
Il documento
parte dalla denuncia che oggi si ragiona, si decide e si governa come se la
scelta di porre fine all’età dei genocidi nel ’45 non ci fosse stata. E infatti
il rifiuto, anche italiano, di firmare il Trattato per l’interdizione delle
armi nucleari, la minaccia di combattersi con l’atomica tra Corea del Nord e
Stati Uniti, la distruzione di popoli interi per abbatterne dittatori e regimi,
l’economia che uccide concentrando le ricchezze nelle mani di pochi e
attentando alla vita di popolazioni intere, la devastazione dell’habitat
naturale della terra, sono altrettante forme di genocidio, attuato o promesso;
e quanto alla questione dei profughi il genocidio consiste nel fatto che
“intercettare il popolo dei migranti e dei profughi, fermarlo coi muri e coi
cani, respingerlo con navi e uomini armati, discriminarlo secondo che fugga
dalla guerra o dalla fame e toglierlo
alla vista così che non esista per gli altri, significa fondare la
civiltà sulla cancellazione dell’altro, che è lo scopo del genocidio”.
E ancora possiamo
dire, come dice il documento che “riguardo al popolo dei migranti, un popolo fatto di molte
nazioni, l’illusione di salvare la civiltà scartando pezzi di mondo è
particolarmente infelice, perché il rifiuto di accogliere migranti e profughi
li rende clandestini, li trasforma in rei non di un fare, ma di un esistere, La
conseguenza è che gli stessi Stati di diritto e di democrazia
costituzionale tradiscono se stessi perché accanto ai
cittadini soggetti di diritto concentrano masse di persone illegali,
giuridicamente invisibili e perciò esposte a qualunque vessazione e
sfruttamento, pur avendo tutti non solo lo stesso suolo che li accoglie ma lo
stesso sangue” umano che li nutre.
Una resistenza messianica
È contro
tutto questo allora che bisogna reagire e resistere. Però c’è un’importante
novità. Ci sembra infatti di dover dire che la resistenza oggi necessaria non
sia una resistenza qualsiasi, una resistenza ordinaria come quella che nel
Novecento si oppose ai fascismi, ma debba essere una resistenza messianica.
Perciò quel
nostro appello a resistere l’abbiamo chiamato “katécon”. Katécon è la parola
che usa san Paolo nella II lettera ai Tessalonicesi per descrivere la
resistenza, la forza frenante che dovrà intercettare le forze della distruzione
e impedire che il mondo abbia fine. Perché saremo in pericolo. Quello che sarà
all’opera, in quei tempi decisivi, dice san Paolo, sarà il mistero dell’anomia,
sarà l’ “anomos”, che alcuni interpreti traducono come l’anticristo. Nella
realtà si tratta della perdita di ogni legge, dello scempio e della perdita del
diritto, della pretesa dell’uomo e del potere “senza legge”, “anomos” appunto,
di mettersi al di sopra di tutto additando se stesso come Dio. Sono gli idoli.
Questa è la previsione di san Paolo. Ora, secolarizzando questo concetto
teologico, come l’Occidente a dire
di Carl Schmitt ha sempre fatto fin qui, possiamo dire che è proprio questo il
punto a cui oggi noi siamo, in questa fase selvaggia della globalizzazione
capitalistica, che riconosce solo la legge del denaro e calpesta ogni altra
legge, riducendo a nulla i diritti di tutti.
La resistenza
messianica, il katècon, consiste appunto in questo, che contro il meccanismo
idolatrico avanzante, sia in campo una forza frenante, una volontà antagonista
che lo trattenga, lo arresti, ne abbia ragione. Noi pensiamo che questa forza
che trattiene, questo antagonista che si alzi e impedisca che i popoli siano
devastati, siano i popoli stessi. Sono i popoli stessi che devono operare il
cambiamento, cambiando anzitutto se stessi, uscendo ciascuno dall’autoidolatria
del “noi per primi”, del “prima l’America”, “prima l’Europa”, “prima l’Italia”,
“prima la Padania”. Sono i popoli che cambiando se stessi cambiano la storia,
sono Ninive che si ravvede, sono i re di Ninive che invece di esercitare il
dominio convertono il potere e lo mettono al servizio della causa della
liberazione.
Quello che
noi vediamo è un rovesciamento, del resto annunciato dal Vangelo, per cui le
vittime diventano esse stesse le artefici della vittoria.
Una rivoluzione che riesce
Protagonista
di questo rivolgimento è proprio il popolo dei migranti. È chiaro che le
migrazioni non si potranno fermare, e in questo Salvini è già sconfitto, ma
anche l’Europa è sconfitta. Del resto non siamo stati noi a deciderlo; a
deciderlo sono stati proprio gli apprendisti stregoni che vorrebbero ora
fermare i flussi che essi stessi hanno suscitato. Hanno voluto una globalizzazione
incontrollata, che il denaro avesse libero transito da un capo all’altro della
terra, hanno creato supermercati e centri commerciali che sono uguali in tutto
il mondo, hanno voluto cancellare le differenze, sopprimere le monete, ridurre
l’uomo all’unico modello dell’ homo
oeconomicus, e farne nient’altro che un consumatore, hanno voluto
trasformare i cittadini in clienti, i partiti in comitati d’affari, hanno
mercificato e uniformato i format televisivi in tutto il mondo, livellato la
comunicazione, censurato l’informazione, e dopo tutto questo vorrebbero che
persone e popoli se ne stessero fermi dove stanno, non si mettessero in
movimento per andare da una parte all’altra della terra creando nuovi equilibri,
come fanno i liquidi in un sistema di vasi comunicanti? I migranti non si
possono fermare perché non arrivano con armi e bastoni, come forse avrebbero
motivo di fare dato che, come ha detto l’arcivescovo di Palermo, noi siamo stati
i loro predoni, siamo stati “i predoni dell’Africa” e non solo. Ma se venissero
in armi sarebbe un gioco fermarli, potenti come siamo. Invece arrivano nudi ed
inermi e si fanno salvare da noi. Per questo sono invincibili. Salvini dice di
aver vinto perché 100 profughi della Diciotti li ha presi la Chiesa italiana.
Ma appunto questo vuol dire che sono entrati in Italia, insieme ai malati
sbarcati già prima, non sono stati
respinti e sono stati salvati da noi. E così avverrà anche in futuro. Se i migranti
sono una rivoluzione, questa è una rivoluzione che riesce.
I soggetti della liberazione
E qui c’è la
risposta ad una domanda che ci ponemmo in un convegno a Cortona nel 1986, nel
momento in cui il comunismo stava finendo e noi dicemmo che non per questo
doveva venir meno l’istanza della rivoluzione. Insieme a Claudio Napoleoni e alla
migliore intelligenza cattolica del tempo, dicemmo che la rivoluzione che
restava necessaria non era definibile, come avevano fatto i comunisti fino ad
allora, solo come un’ “uscita dal capitalismo”,
ma più radicalmente doveva essere un’uscita dal sistema di dominio e di
guerra. Uscire dal sistema di dominio voleva dire anche rovesciare il dominio
delle cose sull’uomo, del prodotto su chi lo produce, voleva dire rovesciare il
dominio dell’uomo sull’uomo, di un popolo sugli altri popoli, e privare lo
stesso dominio del suo strumento sovrano, la guerra. Una bella
rivoluzione da fare, non violenta. Ma quali avrebbero potuto essere i soggetti
di questa rivoluzione? La classe operaia non c’era più, qualcuno disse che
allora sarebbero state le donne, altri dissero i giovani, altri i popoli nuovi, le masse oppresse del Terzo
Mondo. Nessuna di queste ipotesi si è avverata, e la rivoluzione non c’è stata.
Ora quella
dei migranti è una vera rivoluzione. Basta vedere come stiano facendo saltare
gli equilibri politici in Europa, basta vedere come stiano smascherando il
mitico sogno americano negli Stati Uniti. Ebbene, l’unico modo in cui la crisi
dei migranti si può concludere, che sia all’altezza della sfida, è il
riconoscimento dello ius migrandi,
del diritto di migrazione come diritto fondamentale umano universale, come fu
già proclamato all’inizio della modernità ma oggi è negato. E allora sarà una
vera rivoluzione, in quanto tutto dovrà cambiare nell’economia nella cultura e
nel diritto, perché un mondo dove nessuno sia straniero non può essere
organizzato come è stato fin qui, cioè come un mondo di cittadini e stranieri,
comunitari ed extracomunitari, Romani e Barbari, Greci e Sciti, Ebrei e
Gentili.
Ebbene i
soggetti di questa rivoluzione sono i migranti stessi. Essi non sono turisti,
viaggiatori, deportisti, “palestrati” come dice la volgarità di quanti lottano
contro di loro. L’ONU non li chiama
nemmeno migranti. Sono rifugiati, fuggiaschi, richiedenti protezione e asilo, sfollati
interni, Internally Displaced People, ed è
impossibile distinguere tra migranti economici e politici. Sono soggetti
rivoluzionari perché non dicono, ma fanno, mettono in gioco i loro corpi, usano
mani e piedi, lottano per la vita dando la vita, perseguono un fine che se
raggiunto non vale solo per loro, ma per tutti, perché ne verrebbe un mondo
diverso e magari questo fine sarà raggiunto per altri, non da loro. Per questo
sono rivoluzionari, e sono non violenti perché non mettono in questione il
sistema con le armi, ma ne svelano l’ottusità e ingiustizia col semplice
muoversi, andare, sfidare il mare ma anche le torture e i lager. Fanno
obiezione di coscienza a un mondo che non li vuole.
Si può fare la
controrivoluzione contro di loro, ma come si è visto non funziona. E allora ci
vuole un’altra risposta. La risposta politica è quella di passare,
nell’ordinamento giuridico, dal riconoscimento del diritto d’asilo (come c’è
anche nella Costituzione italiana) all’affermazione come diritto universale dello
ius migrandi (che non è solo il
diritto di lasciare il proprio Paese, già riconosciuto dalla Convenzione
internazionale sui diritti civili e politici, ma è il diritto di stabilirsi in
qualsiasi Paese); ciò vuol dire aprire porti e frontiere, far viaggiare su navi
ed aerei, sancire la libertà di circolazione delle persone e non solo del
denaro e delle merci in tutto il mondo.
Ma questa risposta
politica ha bisogno di una motivazione non solo di opportunità o utilità, ha
bisogno di una motivazione molto più profonda. Si tratta infatti di rispondere
a una radicale esigenza che riguarda lo stesso ordine umano. La vera risposta è
riconoscere la vera ragione per cui questa diversa risposta deve essere data.
E la ragione è
l’unità e l’eguaglianza della intera famiglia umana, che forma un solo corpo
oltre ogni diversità di nazioni, di culture, di lingua, di condizioni
economiche e sociali, di religioni.
In molti modi si può parlare
di questa unità della famiglia umana, che storicamente è sempre stata lacerata
e divisa, ma anche sempre ha conosciuto l’anelito a una ricomposizione, ha
sentito la spinta a una progressiva contaminazione e integrazione. Il
meticciato è stato storicamente un fenomeno ben più potente della fissità
identitaria. Francisco De Vitoria all’inizio dell’età moderna, vi rintracciava
un diritto originario, quando scriveva nella sua “relectio de Indis” che “all’inizio del mondo, quando tutto era
comune era lecito a ognuno trasferirsi e muoversi in qualunque regione volesse;
ora non pare che la divisione dei territori abbia annullato questo diritto, dal
momento che l’intenzione dei popoli non è mai stata di abolire, con quella
divisione, la comunicazione reciproca fra gli uomini. Non sarebbe lecito ai
francesi proibire agli spagnoli di muoversi in Francia o anche di vivervi, né
viceversa, purché questo non rechi loro danno e tanto meno faccia loro torto”,
e questo perché “totus orbis aliquo modo
est una respublica”, tutto il mondo in qualche modo è una repubblica. Questa
dunque è un’aspirazione che già appartiene alla nostra cultura: un’unità che
non faccia torto alle differenze.
Ma la risposta più
radicale che dà ragione dell’innegabile unità della famiglia umana, la vorrei
trarre da una suggestione ricevuta in occasione dell’ultima festa del Corpus
Domini. Nella lettura biblica prima della festa una suora camaldolese, ha
ricordato che in un’antica liturgia romana della Messa c’erano due “epiclesi”,
cioè due invocazioni, prima della consacrazione; nella prima si chiedeva, come
di consueto, che il pane e il vino si trasformassero nel corpo e nel sangue di
Cristo, nella seconda si chiedeva che fossero i partecipanti al rito a
trasformarsi essi stessi nel corpo e nel sangue del Signore: questo infatti è
l’eucarestia. In tal modo mentre il pane e il vino diventano il “corpo mistico”
di Cristo, rappresentando così il “mistero” che non si vede, gli uomini, le
donne, i poveri, i popoli, la storia, diventano il “corpo reale di Cristo”, che
invece si vede. “Non è un’immagine, ma è realmente carne” hanno scritto di
recente i gesuiti della “Civiltà Cattolica”.
Un altro gesuita,
Henri De Lubac, commentando un testo della “Didaché”, ci ha trasmesso la
celebre analogia: “Come il pane e il vino sono formati da una miriade di
chicchi di grano e di gocce spremute da grappoli d’uva, così questa comunità si
forma dall’unificarsi di tutte le persone che partecipano all’eucarestia e
diventano membri dell’unico corpo di Cristo”. Le analogie non sono innocue; e
questa, portata fino in fondo, dice che questa unità si realizza, secondo il
gesto compiuto da Gesù, se il pane viene spezzato, e in quanto spezzato viene
poi condiviso e così si ristabilisce l’unità.
Così è dell’unità di
tutti gli uomini tra loro. Prima essa è spezzata, frantumata, dispersa; poi, in
forza della condivisione realizzata tra loro, essi giungeranno all’unità.
Oggi siamo
all’umanità spezzata; e mai la sua carne è stata più frantumata e lacerata come
da quando celebriamo la libertà della globalizzazione che non può realizzarsi
che in forza di un capitalismo integrale, di quel neoliberismo ignaro delle
persone e dei corpi che papa Francesco ha chiamato “globalizzazione
dell’indifferenza”.
È questa umanità
spezzata che va ora ricomposta. Viene perciò il tempo dell’umanità condivisa.
Il compito più grande, il vero cambiamento non solo per l’Italia, ma per
l’Europa e per il mondo, è di portare all’unità la carne spezzata delle nostre
storie divise, mediante culture e politiche di condivisione, estendendo alle
persone la libertà di muoversi e di stabilirsi che abbiamo dato alle cose. Per
questo lo slogan “Prima l’America”, o uno che fosse “Prima i bianchi”, ma
anche, quello oggi più in auge, “Prima i cittadini”, sono contro il nuovo
traguardo dell’umano. Perché siamo tutti di colore, e siamo tutti stranieri.
Infatti se siamo cittadini per noi, siamo stranieri per gli altri, e gli altri
sono cittadini per noi.. Certo non è per oggi raggiungere questo traguardo, ma
questo è il cammino da iniziare, questo è il percorso, su questo va giudicato
ogni cambiamento e promessa di cambiamento.
Se questo faremo non
faremo naufragio, o almeno torneremo ad uscire dal ventre del pesce, e tutti
insieme arriveremo all’approdo.
Raniero La Valle
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