domenica 3 aprile 2011

La monomania della guerra

di Raniero La Valle


I monarchiani erano quegli eretici dell’antichità cristiana che per affermare l’assoluta unicità di Dio si opponevano alla nascente elaborazione teologica trinitaria; contro i diversi modi di intendere la distinzione tra il Padre e il Figlio incarnato, proclamavano: “monarchiam tenemus”, donde il nome di monarchiani. Da lì derivarono tutte le eresie monistiche: monofisismo, monotelismo, monoenergismo (una sola natura in Cristo, una sola volontà, una sola energia); vedendo una sola cosa quegli eretici non riuscivano a vederne e a concepirne altre, cioè non riuscivano a vedere il cristianesimo; erano maniaci di una sola cosa, non teisti, ma idolatri.

Anche gli statisti moderni sono monarchiani, conoscono una sola cosa, sanno fare una sola cosa, sono maniaci di una sola cosa: la guerra. Ci vuole il petrolio, bisogna allargare i mercati, c’è un dittatore, i diritti umani sono violati, un Paese è invaso, gli insorti sono repressi? Subito è pronta la risposta, quella “fretta della guerra” che è stata denunciata all’inizio dell’intervento contro la Libia
 dal vescovo Giudici presidente di Pax Christi; la monocultura della guerra non sa produrre altra idea che questa. Così avvenne con l’Iraq, così con la Iugoslavia, così con l’Afghanistan, così con la Georgia, per non parlare dei mille conflitti dimenticati che fanno della guerra un “continuum” nel succedersi delle stagioni.

È vero che la sovranità moderna nasce con questo segno di identificazione: sovrano è chi ha il diritto di guerra, gli Stati sovrani sono quelli che fanno la guerra; però non è questa la sola e unica cosa che potrebbero fare, potrebbero inventare e fare dell’altro, soprattutto da quando la guerra è stata messa al bando dal diritto internazionale, e la Carta dell’ONU ha prescritto tutte le cose che si dovrebbero fare invece della guerra per mantenere la sicurezza e per costruire un ordine di giustizia e di pace tra le nazioni, come dice anche la Costituzione italiana.

Anche questa volta, insorto il problema con la Libia, la coalizione dei volenterosi non ha saputo fare altro che la guerra; e siccome questa volta non c’era l’America, la confusione, l’improvvisazione e il caos sono stati ancora maggiori. Anche l’Italia è corsa alle armi; il 36° stormo, di stanza a Trapani Birgi, ha potuto finalmente dare sfogo all’odio contro Gheddafi al quale era stato addestrato, come potemmo vedere con la Commissione Difesa della Camera in occasione di una visita che molti anni or sono facemmo a quella base. Eppure se c’era un Paese al mondo che non avrebbe dovuto fare guerra alla Libia, nemmeno la guerra più sacrosanta, se pur ve ne fosse una, questo Paese era l’Italia, per la vergogna e il pentimento di ciò che essa in passato aveva fatto alla Libia, assoggettandosela e violentandola come colonia; e tanto meno avrebbe dovuto farla Berlusconi, che a Gheddafi aveva giurato amicizia eterna, e con la Libia aveva stipulato un patto con cui aveva promesso pace, non aggressione, non ingerenza, rapporti di uguaglianza sovrana, rispetto del suo diritto ad avere il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale, e aveva assicurato che non avrebbe permesso l’uso delle basi italiane contro di lei; promesse in cui ne andava dell’onore del Paese e del futuro del Mediterraneo, non come le promesse di fare un campo da golf e un casinò a Lampedusa, o di ridipingere le facciate delle case.

Però, si obietta, c’era la questione degli insorti, la minaccia del dittatore libico di sterminarli, l’esigenza di un intervento umanitario. Anche il centrosinistra si è pronunciato perciò a favore dell’azione militare, e perfino Ingrao, che pure è noto come pacifista. Ma se l’unica risposta è la guerra, che fare quando altri popoli insorgeranno, quando altri Stati vorranno reprimere ribellioni e secessioni, quando altri patrioti e resistenti rischieranno di soccombere? E perché non scendere in guerra per andare a liberare i territori palestinesi occupati, cosa per cui pur si potrebbe fare appello a centinaia di risoluzioni delle Nazioni Unite?

Con l’idolatria della guerra, nascostamente penetrata anche nella cultura democratica, e con il giustificazionismo umanitario che ha sopito le reazioni, altre volte veementi contro la guerra, anche di uomini di Chiesa, il futuro si presenta assai tormentato. Gli assetti del mondo stanno infatti cambiando, nuove potenze emergono, altre declinano, popoli nuovi si affacciano sulla scena, perfino le coordinate geopolitiche di Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo, stanno sfumando in nuove combinazioni e contrapposizioni. Ci vorranno molte decisioni nuove, molte risposte inedite a problemi mai finora conosciuti. Guai se continuerà a dominare la monocultura della guerra, guai se le risposte non verranno trovate nella politica, nel diritto, in un nuovo costituzionalismo internazionale. E bisognerà cominciare col dare attuazione, nelle parti ancora inadempiute, al cap. VII della Carta dell’ONU, per garantire che eventuali interventi armati condotti in suo nome non siano fatti per interessi di parte e non giungano mai alla distruttività della guerra; e, dopo l’esperienza del Giappone, bisognerà che la stessa comunità internazionale sia fatta responsabile dei beni comuni e degli interessi generali della intera famiglia umana.

Raniero La Valle

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