di Raniero La Valle (su "Liberazione" del 29/10/2011)
C'è una domanda che si aggira per l'Europa: come mai il giorno prima l'Europa ride di Berlusconi e del suo governo, e il giorno dopo freme di ammirazione dinnanzi alla lettera portata a Bruxelles dallo stesso Berlusconi, limitandosi a esprimere una certa incredulità sulla sua reale attuazione? La ragione è che quello di Berlusconi è un documento ideologico che porta alle estreme conseguenze l'ideologia monetaria e neo-liberista su cui l'Europa è stata fondata, ma che nessuno Stato europeo è riuscito finora veramente a realizzare. È il libro dei segni tatcheriano: ma appunto la Tatcher fu detronizzata in Inghilterra.
Ben al di là dei liberi licenziamenti in libera impresa, e della pensione a 67 anni e 7 mesi con la specifica motivazione che si deve avvicinare la data della pensione a quella della morte, il documento berlusconiano illustra uno scadenzario che dovrebbe nel giro di due mesi, quattro mesi, otto mesi ed un anno riformare l'"architettura" materiale e costituzionale dello Stato, trasformando l'Italia da Repubblica democratica fondata sul lavoro a Repubblica classista fondata sul patrimonio (per questo la "patrimoniale" non s'ha da fare né domani né mai).
Per raggiungere tale scopo ci sono tutti gli ingredienti: abolizione dei controlli sulle imprese, rimozione di regole e vincoli, anche derivanti da norme e restrizioni regionali o locali, alla concorrenza; competizione e concorrenza anche tra le università (con libertà di aumentare le tasse), tra i professionisti, tra i distributori di carburante, di gas e quant'altro;
liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali, a esclusione dell'acqua messa in salvo da un referendum popolare; libertà di licenziamento nel settore privato; blocco del turn over, mobilità obbligatoria, riduzione salariale e del personale nel settore pubblico; meccanismi "di salvaguardia" per la riduzione automatica delle agevolazioni fiscali vigenti, eventuali aumenti delle imposte indirette, misure per favorire l'accumulazione del capitale, sgravi fiscali per i capitali di rischio; dismissioni e vendite del patrimonio pubblico; abolizione delle province, ridimensionamento, tanto per cominciare numerico, del Parlamento; in Costituzione soppressione del vincolo dell'attività economica all'utilità sociale e incostituzionalità dei bilanci in disavanzo, insieme alle altre minacciate riforme per rafforzare l'esecutivo e la maggioranza e avviare l'Italia su una deriva decisionista e autoritaria.
È per fare queste cose che Berlusconi vuole durare, e non solo per salvarsi dai suoi guai giudiziari, come dice una vulgata banalizzante in voga anche a sinistra. Bisogna invece prendere molto sul serio questa inamovibilità dal potere, perché qualcuno che vorrà fare queste cose anche senza Berlusconi sicuramente verrà fuori.
Il rimedio è allora rimuovere le cause che hanno impedito finora di mandare a casa Berlusconi, e che impedirebbero domani di mandare a casa uno come lui. Il rimedio è rifondare il Parlamento come luogo dove nascono e cadono i governi, liquidare l'ideologia dell'investitura popolare di un capo, togliere l'iniquità degli sbarramenti elettorali proibitivi e dei premi di maggioranza alla bulgara, ripristinare sia la rappresentatività parlamentare sia il diritto dei cittadini a concorrere non solo col voto a "determinare la politica nazionale", e uscire dall'artificio del bipolarismo che permette a una fazione, anche minoritaria, di prendere tutto il potere, comprese le "spoglie del sistema", e di imporre la sua volontà, almeno fino "al termine naturale della legislatura", a tutto il Paese, decidendone il destino e forse, come ormai da tempo si teme, la rovina.
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