di Raniero La Valle
“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?”, è la domanda posta da Gesù agli apostoli. A giudicare dalla scarsa o nulla attenzione che viene prestata alla salvaguardia del creato, la cosa potrebbe non essere troppo lontana, e per non fargli trovare brutte sorprese la Chiesa cattolica ha indetto un “anno della fede” in coincidenza con i cinquant’anni dal Concilio.
In effetti la fede e le Chiese attraversano una crisi di cui si parla poco perché non se ne occupano le agenzie di rating, ma non è meno grave di quella che, sotto altri profili, imperversa in tutta la società. Per quanto riguarda l’abbandono della fede da parte delle giovani generazioni in Italia, ne abbiamo parlato nell’articolo precedente.
Perciò viene bene il richiamo al Concilio, per una rinnovata e straordinaria azione pastorale. Ma nell’indicare come fare, il cardinale Levada, prefetto della Congregazione dottrinale, mette avanti due risorse: una appunto, come di rito, è il Concilio, l’altra è il “Catechismo della Chiesa cattolica” e addirittura il suo “Compendio”, nel
presupposto che siano la stessa cosa, l’una speculare e traduzione dell’altra. Senonché se i contenuti sono gli stessi (e tuttavia non coincidenti, perché non tutte le enunciazioni di una fonte si trovano nell’altra), le metodologie di trasmissione della fede sono profondamente diverse: una è una metodologia narrativa, una “storia” di salvezza, che viene dal principio e continua tuttora, l’altra è una metodologia deduttiva, dottrinale, didattica. Giovanni XXIII convocò il Concilio perché capì in anticipo che con quest’ultima metodologia la fede non sarebbe stata più trasmissibile nel mondo moderno, occorreva un nuovo linguaggio; e mentre tutte le altre “narrazioni” mondane sfiorivano e cadevano dai cuori, il Concilio ripropose la narrazione cristiana con una forza di novità e di persuasione che lasciò tutto il mondo a bocca aperta. Rimettere ora in serie Concilio e Catechismo, perché ognuno scelga come crede, è come rimettere in serie la Messa in latino di san Pio V e la Messa decrittata della liturgia postconciliare, perché ognuno scelga quella che gli aggrada; ma in tal modo la guida pastorale si perde, e il Concilio è come se non ci fosse stato. Se invece si fa appello al Concilio per ridare corso alla fede, occorre riprendere quella grande narrazione.Inoltre, a interrogare il Concilio, si scoprirebbe che la Chiesa non è quella che appare nei giornali, ma è essenzialmente eucarestia, è coestensiva all’eucarestia; non che non ci sia altro al di là di questa, ma il Concilio dice che la liturgia è la fonte e il culmine di tutto ciò che la Chiesa fa prima e di tutto ciò che attua dopo la celebrazione del mistero pasquale. Dunque senza eucarestia non c’è Chiesa e la fede non vive.
Eppure in crescente misura le eucarestie non si possono celebrare perché non ci sono preti, e saranno sempre meno i preti celibatari che realizzino il modello sublime di prete riproposto anche dal Concilio. Né è possibile pensare oggi a un sacerdozio sposato nella Chiesa latina; la questione è chiusa, hanno risposto i vescovi ai cristiani di base, come quelli austriaci, che lo chiedevano; e un gesuita francese, Joseph Moingt, ha riferito di un papa, precedente a quello regnante, che avrebbe detto: “So bene che dopo di me bisognerà ordinare degli uomini sposati, ma finché io vivrò manterrò la consegna”: e ci sarà sempre un papa a Roma che “manterrà la consegna”. D’altronde preti esemplari, fedeli al carisma del celibato, di grande statura, saranno sempre necessari alla Chiesa soprattutto per il ministero della riconciliazione, oggi caduto in disuso; ed è bene che non venga meno la confessione perché, come diceva Lutero, è importante che ci sia un’altra persona che annuncia al peccatore il perdono di Dio, come un fatto oggettivo, contro i ripiegamenti soggettivistici nel senso di colpa del “cuore incurvato in se stesso”.
Per quanto però riguarda l’eucarestia sguarnita di preti, si potrebbe pensare a una diversa ripartizione di compiti tra i ministri ordinati dal vescovo, sacerdoti e diaconi. Come negli “Atti” gli apostoli decisero di dedicarsi soprattutto alla predicazione e alla preghiera, attribuendo ai diaconi il “servizio delle mense” (che nelle prime comunità non erano distinte dalla cena eucaristica), così potrebbero oggi i diaconi moltiplicarsi per provvedere al “servizio delle mense” dell’eucarestia, in nome e per mandato del vescovo.
Il Concilio ha ripristinato il diaconato permanente, ammettendo diaconi sposati, ma non che i diaconi si sposino. A legislazione e disciplina vigente si potrebbero perciò ordinare diaconi sia uomini sposati, sia uomini che non intendano sposarsi, sia uomini che vogliano abbracciare ambedue le vocazioni, celebrando il matrimonio prima dell’ordinazione. E attraverso i diaconi, sposati e no, si potrebbe stabilire un nuovo dinamismo ecclesiale, e una circolarità tra laicato e clero, tra vita religiosa e vita comune, tra famiglie e comunità; e l’eucarestia potrebbe avere dovunque i suoi ministri, la Chiesa esistere e la fede essere annunziata.
Raniero La Valle
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