di Raniero La Valle
Con la copertura e l’alibi del governo tecnico, il sistema politico sta passando da un modello a un altro, senza che nessuno teorizzi il cambiamento, ne sveli l’ideologia o dichiari esplicitamente dove si vuole andare.
C’è però qualcuno che dice le cose in chiaro, che cerca di fornire la teoria di ciò che gli altri fanno senza dirlo. Chi si è assunto questo compito è un gruppo di cattolici, alcuni dei quali stanno nel Partito democratico, alcuni in quello di Berlusconi, alcuni con Casini. Tra loro sono intellettuali, come gli ex presidenti della FUCI Ceccanti Tonini e Guzzetta, che grazie a questa loro
ascendenza, sono propensi a dare la linea e a formulare le idee che altri attuano senza avvedersene. Perciò è utile vedere quali sono le intenzioni espresse da questo gruppo, perché fanno capire il senso di un movimento che va ben di là di esso.
L’opportunità ce ne è offerta da un convegno svoltosi il 23 febbraio scorso all’Università gregoriana, dedicato a “I cattolici e il bipolarismo”: ed era un titolo un po’ abusivo perché non c’è nessuna attinenza tra “i cattolici” e il bipolarismo, e se certamente ci sono molti cattolici bipolari, altri non lo sono affatto e anzi lo avversano. Il convegno, che voleva andare oltre Todi, è stato promosso da due fondazioni di segno opposto, una di area berlusconiana, l’altra di area del partito democratico (“Magna Carta” e “Libertà Eguale”). Basta questo a dire che si è trattato di un “convegno molto originale”, come lo ha definito Stefano Ceccanti; e originale era anche il composto di relatori e partecipanti, da Luca Diotallevi (considerato vicino alla CEI) a Maurizio Gasparri, a Giovanni Guzzetta, a Quagliariello, Buttiglione, Ceccanti, Tonini, Mantovano, Brunelli, Follini, Paola Binetti, Mariastella Gelmini, Maurizio Sacconi, Sandro Magister, Francesco D’Agostino ed altri.
Mettendo insieme le linee che emergono dalle relazioni, dagli interventi e dai messaggi web di alcuni di loro viene fuori un inquietante disegno.
Sarebbe in atto, sostiene Ceccanti, un processo di differenziazione sociale, per il quale la politica sarebbe solo una tra le sfere sociali, senza primati e gerarchie, sullo stesso piano dell’economia. Chi si oppone a questo riallineamento tra politica ed economia sarebbe statalista, e nella misura in cui non accolga la “lezione antimonarchica” del crollo del Muro di Berlino, e non sostenga la libertà economica contro il prepotere dello Stato e della politica, sarebbe come quei tradizionalisti che rifiutano la libertà religiosa, sarebbe come Lefebvre.
Vi sono stati due filoni di pensiero, dice Guzzetta. Il primo, quello della democrazia sostanziale (valore programmatico della Costituzione, dirigismo statale in economia e centralità dei partiti) prevalse nella “Prima Repubblica” e in campo cattolico può essere ricondotto ai vari Dossetti, La Pira, i professorini ecc. Il secondo, quello della democrazia procedurale di tipo liberaldemocratico (democrazia come tecnica di libera contrapposizione degli interessi, sussidiarietà dello Stato rispetto alla società, democrazia dell’alternanza in prospettiva bipolare) addirittura potrebbe essere fatto risalire a Sturzo, De Gasperi, Moro, e più di recente a Ruffilli, Segni, Andreatta, fino alla FUCI e alle ACLI. Si tratterebbe oggi di far prevalere il secondo filone, per indirizzare il sistema verso una “relativizzazione del ruolo dello Stato nella società poliarchica” (in questi pensatori il termine poliarchia – pluralità dei poteri – tende a sostituire il termine democrazia – potere del popolo); occorrerebbe attuare una sussidiarietà non solo verticale ma soprattutto orizzontale (“non faccia la politica – dice Ceccanti – quello che può fare l’economia”), superare le forme di governo fondate sui partiti, artefici di dirigismo e assistenzialismo, consolidare il bipolarismo, assicurare la personalizzazione della leadership e la relativa investitura diretta del Primo Ministro.
Al di là degli “argomenti”, il convegno ha anche voluto esplicitare, nella relazione di Diotallevi, quali sarebbero “gli interessi” che suggerirebbero al cattolicesimo italiano di optare per una tale democrazia bipolare. Con la proporzionale i cattolici non sarebbero determinanti, mentre in una competizione bipolare, spostandosi prima del voto da sinistra a destra o viceversa, diventerebbero decisivi in una competizione che sempre meno sarebbe tra visioni complessive e sigle, e sempre più tra programmi e nomi, fino a diventare nel tempo una competizione tra riformismi diversi ma in sostanza eguali; una competizione, dice Ceccanti, tra due liberalismi, “tra liber-riformisti e liberal-conservatori”. L’interesse dei cattolici starebbe anche nel fatto che in tale sistema sono le entità sociali e non quelle politiche che più facilmente possono “occupare il centro, dettare l’agenda e alzare il prezzo del proprio consenso”. E qui il riferimento esplicito è alla CEI.
Molto ci sarebbe da dire su ciascuna di queste cose. Ma una cosa sembra decisiva: la politica è l’unica casa dove abita la democrazia, la quale non ha il suo luogo né nell’economia, né nella Chiesa, né nelle imprese; quanto più nella società si riduce ed esce di scena la politica, tanto più si riduce ed esce di scena la democrazia.
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