venerdì 2 marzo 2012

Girardi e l’età del dialogo

di Raniero La Valle

Con la morte di Giulio Girardi, teologo dell’inclusione e filosofo della liberazione, si può considerare simbolicamente conclusa l’età del dialogo. Essa ha attraversato una larga parte del Novecento e ha interessato politiche, ideologie e religioni; si può dire che quanto più erano visibili i patimenti e le minacce arrecate dalle contrapposizioni in atto (c’era violenza per i popoli e al mondo era annunciata la morte nucleare), tanto più si cercavano punti d’intesa, si lavorava al negoziato, si cercavano terreni di comune umanità. 
A partire dal Concilio questo dialogo ha avuto il suo centro e il suo motore nella Chiesa cattolica. Papa Giovanni ne aveva provato l’efficacia arginando la crisi di Cuba, e nella “Pacem in terris” l’aveva fondato sulla fiducia, prendendo in parola gli Stati che dicevano di non voler usare le armi per distruggersi; egli sostenne che gli uomini potessero incontrarsi tra loro nonostante e attraverso i loro errori, e di un dialogo fatto per amore
offrì una struggente icona ricevendo la figlia e il genero di Krusciov. Al Concilio arrivarono i testimoni delle altre Chiese cristiane, non più considerate come sette di eretici e scismatici; Paolo VI nella sua prima enciclica fece del dialogo la missione stessa della Chiesa, la sua “parola”: dialogo con gli altri cristiani, dialogo con le religioni non cristiane, dialogo con i non credenti, dialogo col mondo. Dossetti osservò che a questo livello di estensione e di profondità, per la Chiesa più che di dialogo, si dovesse parlare di comunione. E al di là delle sedi istituzionali ci fu tutto un fervore di ricerche, di incontri, di prove di lavoro comune, culturale e politico, pur in mezzo a feroci polemiche degli zelanti. In ogni caso c’era vita, perché si comunicava nelle idee, non nel Denaro.
Un capitolo importante di questo dialogo fu quello tra cristianesimo e marxismo. Erano due antropologie che si mettevano a confronto, l’una fondata sulla fede, l’altra sulla dialettica e sull’utopia. E si sfidavano, ciascuna nel proprio campo costretta a interrogarsi su “quale marxismo”, su “quale cristianesimo”. E c’erano ricerche su nuovi marxismi e su un “nuovo” cristianesimo. Innamorata e curiosa del mondo appena scoperto, la Chiesa addirittura istituì un Segretariato per i non credenti, e mandava i suo cardinali a discutere con gli “atei” negli incontri internazionali di dialogo, mentre sul versante laico facevano notizia, e cultura, i convegni della tedesca Paulusgesellshaft.
Di questo dialogo Giulio Girardi fu un pioniere; ne pose le basi filosofiche, teologiche e spirituali; il primo libro “Marxismo e cristianesimo”, poi sempre ristampato, fu pubblicato dalla Cittadella di Assisi nel 1965 con una prefazione del cardinale Koenig, e molti altri la Cittadella ne pubblicò sullo stesso tema fino al 1975. Poi ci furono altri libri, altri Editori, Giulio Girardi si coinvolse nella teologia della liberazione, nelle lotte e nelle speranze dell’America Latina, il Nicaragua, Cuba, la dignità degli indios, dei “vinti”.
Ci fu una parabola, perché all’inizio Girardi partì nell’ufficialità, quando tutta la Chiesa era partecipe di quella straordinaria apertura. Poi le università cattoliche, i salesiani, i vescovi non furono più d’accordo. Cominciarono le rimozioni, le esclusioni, dall’insegnamento, dai salesiani, dagli ordini sacri (ed è stato bello che il Rettore dell’Ateneo salesiano sia venuto ai suoi funerali). Ma non è per il dialogo che Girardi ha pagato questo prezzo. A lui interessava la verità, nel cristianesimo, nel marxismo, nella storia; era la verità che lo metteva in relazione, in dialogo con gli altri. Ma può la verità meritare che si paghi per essa un prezzo così alto, di sofferenze morali e fisiche? No, se la verità è l’oggetto inerte di una speculazione intellettuale. Ma se la verità è la vita, se è cercata per amore del mondo e del prossimo, se è uno dei fondamenti della pace, se è coetanea della libertà, se consiste nel proclamare la dignità e l’eguaglianza per natura degli uomini e dei popoli, come è scritto nel magistero del Concilio e dei Papi conciliari, allora vale la pena che per essa si perda la vita. 
Questo del resto è il divino nell’uomo. Ci si può chiedere allora che senso abbia che Girardi sia stato sospeso “a divinis”. Nel gergo canonico vuol dire essere staccati dalle cose sacre, che secondo l’ideologia veterotestamentaria sono le cose separate dagli uomini, messe da parte per Dio e maneggiate in modo esclusivo dagli appartenenti alla tribù dei leviti. Ma nel lessico cristiano la sospensione a divinis è la sottrazione all’uomo della sua vera umanità, l’estrapolazione di Dio fuori delle cose a tutti comuni, la sospensione dell’incarnazione per la quale, come dice il Concilio, “il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. No, nessuno può essere sospeso dal divino.  

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