di Raniero La Valle
Con grande forza simbolica, nel
febbraio di quest’anno di grazia 2013, hanno contemporaneamente fatto irruzione
sulla scena le due crisi epocali che il cattolicesimo critico aveva
identificato e denunciato negli anni Quaranta del Novecento, alla fine della
seconda guerra mondiale: la catastroficità della situazione politica e la
criticità della situazione ecclesiale, due crisi speculari e alimento l’una
dell’altra.
La prima si manifestava nel fatto
che nel nazismo, nella guerra e in Hiroshima era venuto a concludersi
tragicamente l’intero ciclo culturale e politico dell’Occidente; la seconda era
espressa dal drammatico interrogativo dell’arcivescovo di Parigi, cardinale
Suhard, tradotto in Italia dalla Corsia dei servi e da “Cronache sociali” col
titolo: “Agonia della Chiesa?” Fu soprattutto Giuseppe Dossetti che su questa
doppia diagnosi di situazione critica della società e della Chiesa, parlò con
spirito di profezia e impostò tutte le sue scelte e la sua vita, dalla Costituente
al Concilio, alla scelta monastica, alla Palestina, ai Comitati per la
Costituzione.
A queste due crisi catastrofiche
furono opposti nel Novecento due potenti antidoti: il primo fu il
costituzionalismo, i diritti dell’uomo e il ripudio della guerra; il secondo fu
il Concilio. Antidoti, non soluzioni. Sarebbe stato necessario, per uscire
dalla crisi, che il nuovo pensiero politico e giuridico e la novità del
Concilio fossero stati proseguiti, non rovesciati, non interrotti, ma davvero
realizzati. Così non è stato. Le speranze politiche sono state travolte dal
delirio di potenza del capitalismo finanziario vincitore globale dopo la
“caduta” del Muro dell’89, quelle ecclesiali dall’interdizione che sotto varie
forme – ermeneutiche e di governo – il Concilio ha subito nella sua attuazione,
per il ricatto dei tradizionalisti giunto fino alla scisma e per le
contraddizioni e le paure di vertici ecclesiastici provenienti quasi sempre da
quella che era stata la minoranza conciliare.
Così le due crisi si sono
ricongiunte e sono esplose nello sbigottimento dell’Europa per l’esito delle
elezioni italiane, e nel ritiro del Papa dal suo ufficio, casualmente
coincidenti ma risuonati insieme come grido potente, quasi da ultimo avviso, e
invito a cambiare strada prima che sia troppo tardi.
Non tutto, infatti, è perduto. La
crisi di un sistema istituzionale, politico e finanziario, non è infatti la fine della civiltà, non è il
venir meno delle risorse umane, non è la perdita della inventiva e della forza
di cambiamento di elettorati, popoli, classi impoverite e giovani espropriati
di futuro.
La crisi del papato non è la crisi della Chiesa che pur
finora si è adagiata sulla sua supplenza per tutte le cose, in una
sussidiarietà rovesciata; né la crisi della Chiesa “governata dal successore di
Pietro e dai vescovi in comunione con lui”, è la crisi dell’unica Chiesa di
Cristo che, come dice la Lumen Gentium
del Concilio, in essa “sussiste” senza esaurirvisi; la polvere che Benedetto
XVI (non ancora diventato “emerito”) aveva visto addensata sul suo volto, o
addirittura la sua “sporcizia” – termine brusco che in italiano ha un sapore
moralistico e impietoso che forse in tedesco non ha – nonché le divisioni del
corpo ecclesiale, e il servirsi di Dio per fini di denaro e di potere, sono
piaghe di una Chiesa “in questo mondo costituita e organizzata come società”,
non sono confutazioni dell’ “una, santa, cattolica ed apostolica Chiesa”
professata nel Credo.
Il contemporaneo esplodere di
queste due crisi è salutare se, al di là delle manifestazioni esteriori (le
piazze piene di Grillo e il balcone vuoto di San Pietro) si va alle realtà di
cui esse sono simbolo: l’afasia della politica istituzionale, da tempo incapace
di parole e gesti di vita, e il
silenzio di una Chiesa che dopo il Concilio ha mancato il suo appuntamento col
mondo. Queste due estraneità, della politica e della Chiesa, hanno messo la
gente in una condizione di esilio, senza una terra in cui stare: sono venuti a
mancare punti di riferimento, obiettivi politici, legami sociali, etiche
condivise, speranze teologali e preghiera, e c’è bisogno che questo retroterra
si ricostituisca. Se ora, scompaginando il sistema politico, i risultati
elettorali produrranno un cambiamento reale nella pratica della democrazia, nei
rapporti parlamentari e nel servizio dello Stato, essi potranno dirsi
eccellenti. Se, ritirandosi dalla modernità, come Jacques Le Goff interpreta le
sue dimissioni, Benedetto XVI farà venir meno la rinnovata contraddizione
accesa nel suo pontificato tra la Chiesa e una modernità bollata come
relativismo, questo ritirarsi sarà stato positivo; e se riprenderà la
costruzione di una comunità democratica delle nazioni, e se il Concilio
riprenderà il cammino della sua ricezione nella Chiesa si potrà ricostruire un tracciato
di speranza.
Questo è oggi possibile, perché la crisi si abbatte non su
aborti, ma su uomini viventi che Dio “ha messo in mano al loro consiglio” e ha
reso capaci di agire con sapienza
in un momento in cui “è in pericolo il futuro del mondo” (che è la Gaudium et Spes). Con la politica, con
il diritto e con la fede.
Raniero La Valle
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