Cari amici, abbiamo fatto
in questa felice giornata un piccolo monumento alla “Pacem in terris”. Ne
abbiamo analizzato molto in profondità teologia ed antropologia, abbiamo visto
cioè che cosa essa vuol dire per la comprensione di Dio e per la comprensione
dell’uomo, che poi vuol dire per la comprensione del cristianesimo che è
l’unica religione nella quale Dio si trova nell’uomo e l’uomo non si trova che
in Dio.
Giunti alle
conclusioni, io vorrei parlare non tanto delle cose che abbiamo detto, ma di
noi che le abbiamo dette, e più precisamente del sentimento che ci accomuna,
del sentimento con il quale e a causa del quale abbiamo ripreso in mano, dopo
cinquant’anni, la “Pacem in Terris”, ma che può essere anche il sentimento dei
giovani che la prendessero ora in mano per la prima volta.
Questo
sentimento è la meraviglia. La meraviglia sta nel fatto che l’enciclica ci ha
detto qualcosa che mai avremmo pensato di sentir dire dalla Chiesa
preconciliare: e nell’aprile del 1963, la Chiesa era ancora la Chiesa preconciliare, il
Concilio sarebbe esploso dopo. Questa meraviglia però vale anche rispetto alla
Chiesa di oggi, che con l’ordinario militare e i cappellani militari fa ancora
parte delle Forze Armate.
“Noi siamo meravigliati”
Perciò questa
enciclica avrebbe potuto piuttosto chiamarsi: “Mirari nos”. Noi siamo
meravigliati. E tanto più potrebbe chiamarsi così perché essa si poneva come un
rovesciamento radicale e simmetrico di un’altra enciclica, vecchia di oltre un
secolo, che si chiamava “Mirari vos”, che voleva dire “voi non siete
meravigliati”. Era l’enciclica del 15
aprile 1832 in
cui Gregorio XVI rifiutava la modernità, poneva la religione come fondamento e
sgabello del potere politico dei Regni, dei Principi e di ogni altra dominazione,
era l’enciclica in cui veniva condannato l’indifferentismo in quanto accusato
di rispettare tutte le religioni, erano bollate come “un delirio” la libertà
religiosa e la libertà di coscienza, era esecrata la libertà di stampa,
esorcizzata “la mortifera peste dei libri” ed erano messi al bando i sediziosi
che “con infamissime trame” mancavano di fede, cioè resistevano, ai Principi e
si sforzavano di cacciarli dal trono. E questa enciclica non solo metteva sotto
accusa i liberali infedeli, ma anche i cattolici liberali, a cominciare da
Lamennais e dal suo giornale L’Avenir.
Era dunque
ragione di meraviglia che nel 1963 gli errori condannati dalla “Mirari vos”, venissero
riproposti nella Chiesa come valori supremamente umani e cristiani e addirittura
come segni del tempo presaghi del regno di Dio; e la meraviglia era tanto
maggiore perché questo rovesciamento non era proposto in qualche libro di
teologia, ma era attuato e proclamato da un papa. È la stessa meraviglia
manifestata dai fedeli ebrei nella sinagoga di Nazaret nel sentir parlare Gesù:
ma non è questi il figlio di Giuseppe, il falegname? E ora, a dire queste cose,
non è un papa, non è quel papa che all’inizio del suo pontificato si era
presentato umilmente al mondo dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”? Si,
era proprio quel papa che identificandosi con Giuseppe venduto dai fratelli per
l’Egitto, aveva voluto mettere la loro riconciliazione a simbolo del suo pontificato,
inteso a costruire la pace. La “Pacem in terris” era appunto il suggello che
rappresentava questo simbolo.
Questo ci
induce a passare dall’enciclica al suo autore, dall’annuncio all’annunciatore.
E questo ci permette di aprire un’altra prospettiva, ulteriore rispetto a quelle
indagate fin qui, che non è più la prospettiva teologica né quella
antropologica, ma è una prospettiva ecclesiologica. Perché nel papa che scrive
quest’enciclica c’è in nuce una
riforma della Chiesa e una riforma del papato.
Novità nel magistero
Ed è proprio
qui che io vorrei trovare il legame più stringente tra l’evento dell’enciclica
che noi commemoriamo e il passaggio a cui è chiamata la Chiesa di oggi. Qui c’è l’arco voltaico che dalla “Pacem in
terris” e dal discorso sulla Chiesa dei poveri va al papa che oggi si presenta
senza frange nè filattèri, è qui che il fuoco dell’enciclica può tornare ad
ardere oggi, perché quella riforma del papato che papa Giovanni aveva avviato e
dopo di lui sembrava essersi esaurita ecco ora, con papa Francesco, può
riprendere.
Che nella
“Pacem in terris” fosse implicata una riforma del papato è mostrato dalla
storia dell’enciclica, come l’ha ricostruita e ce l’ha raccontata Alberto
Melloni[1].
Come fa un
buon papa, Giovanni XXIII aveva sottoposto la sua enciclica a un esame
preventivo, cioè a una censura. Però non l’aveva mandata al Sant’Uffizio, e
invece l’aveva sottoposta al vaglio del domenicano padre Luigi Ciappi, maestro
dei sacri palazzi, e del gesuita padre George Jarlot, professore alla
Gregoriana. Ambedue gli dissero che l’enciclica era bellissima, però era in
contraddizione con tutto il magistero pontificio dell’800, e anche con quello
di Pio XII.
In
particolare il padre Ciappi ammonì che il riconoscimento a ogni essere umano
del diritto alla libertà poteva essere interpretato come favorevole al
liberalismo e indifferentismo in campo morale e religioso, e che pertanto
doveva essere ristabilita “la continuità dottrinale del magistero ordinario dei
Sommi pontefici” a meno che, aggiungeva con una certa malizia, non si volesse
“implicitamente far prevalere concezioni che, anche in campo cattolico, vanno
oggi diffondendosi come più rispondenti alla mentalità moderna”. Anche riguardo
alla parità della donna da considerarsi secondo l’enciclica “come persona, a
parità di diritti e di doveri nei confronti dell’uomo”, padre Ciappi chiedeva
una correzione. “Il testo dovrebbe essere ritoccato – scriveva al papa –
altrimenti si potrebbe conchiudere che la donna non ha alcuna dipendenza e
subordinazione nei rispetti dell’uomo nella
vita domestica contro il chiaro insegnamento di San Paolo, della tradizione
e di Pio XII”. Perciò, contro la voce del serpente che, secondo Pio XII
ripeteva alle casalinghe: “voi siete in tutto eguali ai vostri mariti”, padre
Ciappi sosteneva che si dovesse opporre l’affermazione che la donna come sposa
è “soggetta e dipendente dall’uomo”. Qui c’è una notizia che non so come
Pierluigi Bersani abbia avuto, secondo la quale all’osservazione di un divario
dal magistero precedente, il papa avrebbe reagito scrivendo a margine del
foglio, a matita: “Pazienza!”; e così Bersani ha spiegato perché ha messo papa
Giovanni nel suo pantheon personale.
Quanto al
padre Jarlot, egli muoveva all’enciclica una contestazione ancora più radicale, che riguardava l’affermazione
forte su cui tutto il testo era costruito. L’affermazione forte era, come è a
tutti noto, che la pace doveva fondarsi su quattro pilastri: la verità, la
giustizia, la carità, la libertà. Questi quattro fondamenti della pace (e
perciò della vita associata degli esseri umani) papa Giovanni li aveva messi
sullo stesso piano, e tutte e quattro queste stelle polari dovevano condurre
gli uomini alla pace: “veritate,
iustitia, caritate, libertate, magistris et ducibus”: maestre e guide. Per
la prima volta nel magistero romano la verità non era messa al di sopra, come
condizione e limite alla libertà, ma era messa sullo stesso piano della
libertà. Padre Jarlot se ne accorse subito, e scrisse al papa che solo la
verità può essere una guida, da cui derivano la libertà, la giustizia e la
carità; al contrario, diceva, la libertà è una guida incerta che non può essere
messa in serie con le altre. Ma anche in questo caso Giovanni XXIII non
raccolse l’obiezione, e il testo rimase così com’era.
Verso la riforma del papato
Ed è qui che
c’è la riforma del papato. Il papato giungeva alla crisi del Novecento da un
millennio nel quale si era costruito come un potere superiore ad ogni altro
potere; esso aveva così dato forma alla
Chiesa, e sopprimendo ogni distanza tra l’umano e il divino, aveva fatto della
Chiesa il supremo regno terreno e l’aveva scagliata contro la modernità, ossia
contro il secolo che in tal modo veniva a costituirsi come tutto ciò che non è
Chiesa o ad essa si sottrae. Le tappe di questa cattura del cielo per
racchiuderlo senza residui nell’involucro del papato e della Chiesa sono ben
note e si possono rintracciare nel prezioso libro “Per una storia della
giustizia” dello storico Paolo Prodi: all’inizio c’è la “rivoluzione papale”
dell’XI secolo, la scomunica alla Chiesa d’Oriente, il Dictatus papae di Gregorio VII che stabiliva la superiorità del sacerdotium, faceva del romano pontefice
il solo episcopus universalis, il
solo che potesse rivestirsi delle insegne imperiali e del quale i principi dovessero
baciare i piedi, il solo che potesse deporre imperatori e vescovi, il solo a
essere santo d’ufficio per la partecipazione ai meriti di san Pietro. Sarà poi
Innocenzo III, la figura dialettica di San Francesco, che farà del peccato la
grande risorsa che dava il diritto al papa di esercitare il potere anche
temporale, appunto “ratione peccati”,
e che tenterà, nel IV Concilio lateranense del 1215 di stabilire un generale
controllo delle coscienze con l’obbligo della confessione almeno una volta
all’anno al sacerdote proprio di ciascuno, inteso come suo giudice naturale;
per giungere poi alla Bolla Unam Sanctam
del 1302 di Bonifacio VIII, nella quale si diceva che la Chiesa non è un mostro con
due teste, cioè Cristo e Pietro; a tutti gli effetti c’è Pietro vicario di
Cristo, e i suoi successori; e a
quest’unico capo sono state date in affidamento non alcune, ma tutte le pecore;
e non ci sono due poteri, uno temporale e l’altro spirituale, ma un solo potere
con due spade, una spirituale, l’altra temporale, ambedue
in potestate Ecclesiae, di cui
la prima deve essere esercitata dal sacerdote,
l'altra dalle mani dei re e dei soldati, ma agli ordini e sotto il controllo
del sacerdote; e si stabiliva che per la salvezza è assolutamente necessaria la
sottomissione al Romano Pontefice di ogni umana creatura.
Nel Vaticano
I si concludeva, con l’infallibilità, la messa in opera di questa figura del
papato, ma nello stesso tempo la si arginava, e si ammetteva che, fatto salvo
il magistero infallibile, il resto era esposto al vento e anche agli errori
della storicità; perciò lo stesso magistero ordinario, per quanto autorevole,
risultava suscettibile di correzioni e di innovazioni. Dunque anche tutta
quella costruzione del secondo millennio, che alla crisi del Novecento aveva consegnato
una Chiesa in condizioni di agonia e di contraddizione col suo tempo, poteva
essere rivisitata e “aggiornata”.
Solo il papa, con la Chiesa , può riformare il
papato
Ma chi poteva
farlo? Chi aveva l’autorità per correggere l’opera del papato, innovare il
magistero e riformare il papato stesso? È evidente che lo può fare la Chiesa che opera col papa e
mai senza il papa. Ma storicamente non ce la fa. Non riesce a riformare il
papato. Nemmeno il Concilio c’è riuscito, anche se, con la collegialità, ha
rimesso il papa dentro la
Chiesa.
Ed ecco
allora la novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero, l’autoriforma
del papato.
Mi viene in
mente un episodio degli anni della mia infanzia. Il fascismo voleva sciogliere la FUCI e gli altri circoli dei
giovani cattolici. Pio XI li ricevette, e disse loro: non vi preoccupate, il
papa vi ha costituito, solo il papa vi può sciogliere. Così si può dire delle
modalità di esercizio del ministero petrino, della forma storica in cui il
papato si è costruito; come il papato ha modellato la propria figura, e a
quella figura per novecento anni ha intrecciato la Chiesa , così il papato può sciogliere
quell’intreccio, può ripensare e ricostruire quella figura. E’ il papa, non da
solo ma con la Chiesa
e mai senza la Chiesa ,
che può riformare il papato.
Papa Giovanni
aveva cominciato a farlo rimettendo anche il magistero ordinario del romano
pontefice nella tradizione, non intesa però come un sarcofago da trasmettere da
una generazione all’altra, ma come una tradizione vivente e sensibile alla
storia; e nel momento in cui dava un esempio di come quel magistero potesse
riformarsi e arricchirsi, alludeva con i suoi gesti, così inconsueti per un
papa di quel tempo, ad una riforma dello stesso papato, mentre al Concilio
affidava la riforma di tutta la
Chiesa ; e il Concilio andava avanti sulla via aperta
dall’enciclica giovannea: la libertà di coscienza con la Dignitatis humanae, la pari dignità delle
religioni con la Nostra aetate, la rivalutazione umana della
donna e dell’amore coniugale con la
Gaudium et Spes, e così via; cose che
comportavano non solo una riforma della Chiesa, ma un rinnovamento del kerigma, cioè dell’annuncio fondamentale
della fede.
Questa
istanza di una riforma papale entrava poi in letargo dopo il Concilio, ed anzi
Paolo VI e Giovanni Paolo II tentarono di rispondere alla crisi ecclesiale
rilanciando in forme moderne il trionfalismo del papa come vescovo universale,
ridandogli gloria, visibilità e audience.
Il dubbio di Giovanni Paolo II
Però Giovanni
Paolo II deve essere stato attraversato da un dubbio, ha forse pensato
seriamente a una possibile riforma del ministero petrino, rimasto come un
ostacolo sul cammino dell’ecumenismo. Io so che un giorno invitò a pranzo dei
professori dell’Istituto orientale, e chiese loro che cosa significasse la
frase di Gesù riferita da Luca: “Simone, Simone, io ho pregato per te che non
venga meno la tua fede; e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli (Luca,
22, 31-32)”. E aggiunse: “io so che cosa vuol dire personalmente convertirsi.
Ma qual è la conversione che è richiesta al ministero di Pietro, perché possa
confermare i fratelli?” E chiese loro di studiare cosa potesse significare la
conversione del papato. Poi però la cosa non ebbe seguito, perché Giovanni
Paolo II si ammalò, e morì. Tuttavia, senza saperlo, aveva forse posto la
premessa perché, un giorno, la questione della riforma del papato potesse
riaprirsi. Infatti, prendendolo dalla fine del mondo, aveva fatto cardinale un
gesuita argentino, l’arcivescovo di Buenos Aires che si chiamava Bergoglio.
Senza saperlo, preparava un altro papa, a lui sconosciuto; quello conosciuto
era Ratzinger, che potè essere papa dopo di lui senza sorprese; ma quello
sconosciuto era Bergoglio, e questo sì che poteva dare sorprese, fin dalla
scelta del nome.
La riforma è cominciata?
Il nome di
questo nuovo papa allude a una storia della Chiesa che ricomincia non da
Innocenzo III, ma da Francesco d’Assisi, non dal sovraccarico dell’istituzione,
ma dalla leggerezza della profezia; la rinunzia alla mozzetta rossa significa
deporre le insegne imperiali che Gregorio VII aveva avocato al papato; il
chinarsi al bacio del piede dei detenuti, la sera del giovedì santo, riscatta
l’antica pretesa del papa che a lui tutti i principi baciassero i piedi, il
bacio del piede della giovane reclusa dai lunghi capelli neri, restituiva alla
donna quel gesto di venerazione e di affetto che la peccatrice aveva compiuto bagnando
di lagrime i piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli, baciandoli e
cospargendoli di olio profumato. Pietro, in ciò veramente vicario di Gesù,
pagava il debito d’amore del suo maestro, di nuovo toccava il corpo di una
donna finora sempre tenuto nascosto e temuto nella Chiesa. E forse proprio
questo vuol dire la riforma del papato. Per esempio vuol dire, come ha spiegato
papa Francesco nell’omelia per l’inizio del suo pontificato che “certo, Gesù
Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta?” Si tratta di
un potere che è il servizio, e “anche il papa per esercitare il potere deve
entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice nella croce”. La
riforma del papato vuol dire annunciare un Dio che è solo perdono e
misericordia, un Dio che “giudica amandoci”, come Francesco ha detto nella via
Crucis al Colosseo. Non un Dio che giudica e ama, come subito hanno tradotto i
volgarizzatori che non si accorgono delle novità; perché questo, di dispensare insieme
amore e giudizio, lo faceva anche la
Chiesa dell’Inquisizione; si tratta invece di un Dio in cui
non c’è giudizio, perché l’amore è il giudizio: quello che il papa ha detto è
che non c’è una misericordia accanto al giudizio ma, come pensava Isacco di
Ninive, la misericordia stessa è il giudizio; e questa misericordia il papa
l’ha imparata dai libri del cardinale Kasper non meno che dalle parole di una
umile nonna di Buenos Aires, come ha detto nel suo primo Angelus dalla finestra
di una che non è più la sua. La riforma del papato è affermare, con papa
Giovanni, che il ministero, che la
Chiesa , che il Concilio sono pastorali, non c’è una teologia,
non c’è una dottrina, non c’è un
“deposito di fede” che per loro essenza non siano pastorali; la
pastorale non è figlia di un Dio minore, come ritengono quelli che per sminuire
il Vaticano II insistono a dire che è stato un Concilio solo pastorale; e
pastorale vuol dire stare “con l’odore del gregge”, portarselo addosso, guidare
gli armenti per valli scoscese: per questo ci vogliono le scarpe nere, con i
lacci, non le pantofole da papa.
E naturalmente
la riforma del papato vuol dire la riforma della Curia, vuol dire la
collegialità, vuol dire la povertà. E soprattutto vuol dire che nessuna
riforma, ma anche nessuna conservazione, si può fare da un papato, da una
Chiesa senza popolo, cioè senza i discepoli, senza le donne, senza le madri che
decidono il numero dei figli, senza i divorziati, senza gli omosessuali, senza
gli stranieri, senza gli immigrati, senza i poveri, senza gli ultimi.
Certo sarà
molto difficile per Francesco intraprendere questa riforma. Le opposizioni
saranno durissime, e già Roma è piena di mormorii che sussurrano che questo non
è il modo di fare il papa. Come del resto dicevano per papa Giovanni.
Ma noi
crediamo, dopo aver letto la “Pacem in terris”, dopo aver adottato papa Francesco,
che questa riforma del papato, della Chiesa e dello stesso annuncio cristiano,
sia possibile. E se il papa Francesco vorrà fare questa riforma, noi, Chiesa,
ci siamo.
Raniero La Valle
[1] A. Melloni, Pacem in terris, storia dell’ultima
enciclica di papa Giovanni, Laterza, Roma-Bari 2010,
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