di Raniero La Valle
Quale Partito Democratico è
precipitato nella Caporetto delle elezioni presidenziali? Questa domanda
suppone che di Partito Democratico possa essercene un altro.
Il partito che ha subito la rotta
di Montecitorio è quello che, pur essendo passato attraverso diverse
metamorfosi e diversi fondatori e dirigenti, potremmo identificare come il
partito veltroniano. Esso deriva da due vizi di origine, uno ideologico,
l’altro politico.
Quello ideologico è consistito
nella pretesa di unire due culture, quella comunista e quella cattolica,
negando tutte e due.
L’incontro tra cultura comunista
e cultura cattolica era passato attraverso diverse tappe, tutte di rilevante
spessore. La prima era stata la “Pacem in
terris” di Giovanni XXIII, che attraverso la distinzione tra l’errore e
l’errante aveva dato legittimità al dialogo. La seconda era stata il confronto,
condotto ai massimi livelli ecclesiastici, tra l’antropologia marxista e quella
cristiana nei famosi incontri internazionali della Paulus Gesellschaft. La terza era stata quando Berlinguer, nel suo
lungo viaggio verso l’incontro con la
DC e altri partiti anticomunisti, a chi gli chiedeva in che
cosa consistesse per lui una società socialista in Italia, affermava che essa
sarebbe consistita in una piena attuazione della Costituzione repubblicana. La
quarta fu quando Moro, nel suo discorso di Bari, sviluppando la “strategia
dell’attenzione”, disse che si doveva andare a vedere in che cosa consistessero
gli “elementi di socialismo” che il PCI voleva introdurre nella struttura
sociale ed economica italiana.
Ci si fermò con l’assassinio di
Moro. Poi, quando cadde il famoso Muro i dirigenti comunisti soppressero il
problema annunciando sull’Unità a
tutta pagina “la fine del comunismo”, sciolsero il partito comunista e, uscendo
dalla storica lotta tra capitalismo e socialismo, cercarono di passare dal
campo dei vinti a quello dei vincitori.
Il rapporto tra cultura comunista
e cultura cattolica giunse col partito postcomunista a una sua terza fase
storica. La prima era stata quella dell’aut-aut,
o noi o loro, culminata con la scomunica e le elezioni del 1948. La seconda era
stata quella dell’et-et , noi e loro:
il tentativo di disegnare una società dove fosse possibile la convivenza e lo
sforzo congiunto di entrambi, anche se diversi: il compromesso non banalmente
chiamato “storico”. La terza, quella della “Cosa”, in cui andò a infilarsi l’ex
partito comunista fino al Lingotto e alle più recenti esternazioni veltroniane,
è stata la fase del né-né, né cultura
comunista né cultura cattolica, in quanto considerate ideologie del Novecento e
perciò obsolete, tra l’altro con un abbaglio storiografico quasi inconcepibile.
Il PD doveva quindi unire
nomenclature e popolo di provenienza comunista e cattolica, ma senza la loro
cultura e quindi senza l’elaborazione dell’incontro. Questo rendeva la presenza
degli esponenti cattolici ai vertici del partito, benché molto significativa
sul piano politico (basti pensare alla riforma sanitaria di Rosi Bindi), non
significante sul piano della loro identità più profonda e separata dal problema
di un innesto, laico e pubblico, dei valori evangelici nella politica. Fu
questa la causa di una reciproca estraneità che si creò tra il Partito
Democratico e le componenti più vive del cristianesimo italiano, con le sue
enormi ricchezze di dedizione al servizio comunitario e di volontariato. Nel
contempo l’identità cattolica in politica veniva dalla Chiesa italiana spinta
sulle secche dei “valori non negoziabili”, mentre si faceva viva nel partito
attraverso la fugace apparizione di qualche personalità intransigente del
genere dei “flagellanti”. Il Partito Democratico, da parte sua, restava senza
cultura politica né avrebbe potuto inventarla, e dunque restava privo di un
retroterra ideale e motivazionale che gli permettesse di garantire la sua unità
pur nella tempesta delle lotte interne e delle divisioni politiche.
Il secondo vizio, quello politico,
anch’esso però derivante da un’astenia culturale, è quello della pretesa indistinzione
tra partito e società. Privo di una cultura propria il PD ha creduto di poter
assorbire e rappresentare tutte le culture. Di qui è venuta l’assurda linea
della cosiddetta vocazione maggioritaria, come se un solo partito potesse farsi
espressione delle idee, dei bisogni, delle speranze e delle angosce di tutta la
società, ciò che peraltro la democrazia non prevede ed anzi esclude.
Conseguenza di questa ignoranza del limite tra partito e società, sono state le
primarie per la conquista della stessa segreteria del partito. Ciò portava a
spersonalizzare il partito e a lasciare che fossero gli estranei, e perfino gli
avversari, a determinarne la leadership e le sorti. Conosco personalmente
elettori di Forza Nuova e del PDL che hanno votato per Renzi..
Naturalmente tutto ciò non vuol
dire che il Partito Democratico sia finito, come tutta la destra proclama e
desidera. Però per salvarlo occorre pensare e fare esattamente l’opposto di ciò
che finora esso è stato; e occorre ripensare radicalmente in che consista, in
termini di corrispondenza tra il fine della politica e il soggetto che la fa,
la vera moralità della politica.
Raniero La Valle
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