Pubblichiamo il commento fatto da Raniero La
Valle il 24 ottobre 2014 alla parrocchia della Traspontina in Roma, del passo
di Isaia 45, 1-13, nel ciclo delle letture bibliche che si tengono in quella
chiesa.
Questo il
passo di Isaia:
1Dice il Signore del suo
eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le
nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui
i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. 2Io marcerò davanti a
te; spianerò le asperità del terreno, spezzerò le porte di bronzo, romperò le
spranghe di ferro. 3Ti consegnerò tesori nascosti e ricchezze ben celate,
perché tu sappia che io sono il Signore, Dio d’Israele, che ti chiamo per nome.
4Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato
per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.
5Io sono il Signore e non c’è
alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu
non mi conosci, 6perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è
nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri. 7Io formo la luce e
creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio
tutto questo. 8Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la
giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la
giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo».
9Guai a chi contende con chi
lo ha plasmato, un vaso fra altri vasi d’argilla. Dirà forse la creta al
vasaio: «Che cosa fai?» oppure: «La tua opera non ha manici»? 10Guai a chi dice
a un padre: «Che cosa generi?» o a una donna: «Che cosa partorisci?».
11Così dice il Signore, il
Santo d’Israele, che lo ha plasmato: «Volete interrogarmi sul futuro dei miei
figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani? 12Io ho fatto la terra e su di
essa ho creato l’uomo; io con le mani ho dispiegato i cieli e do ordini a tutto
il loro esercito. 13Io l’ho suscitato per la giustizia; spianerò tutte le sue
vie. Egli ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro
e non per regali», dice il Signore degli eserciti (Is. 45, 1-13).
Commento
Prima fase: il testo
Quello che
abbiamo ascoltato è un passo del Deutero-Isaia (il Secondo Isaia) che risale al
periodo dell’esilio babilonese, e più esattamente alla fine dell’esilio a Babilonia
dove i Caldei avevano deportato la maggior parte della classe dirigente
d’Israele - il grosso della popolazione era rimasta a Gerusalemme - e aveva trascinato la stessa monarchia
davidica. Questo Secondo Isaia sta tra il primo Isaia, che giunge fino al
capitolo 39, e si colloca prima dell’esilio, e gli scritti del terzo Isaia, dal
cap. 56 in poi, che si collocano
dopo il ritorno dall’esilio. E questo è già molto bello perché vuol dire che il
più grande profeta di Israele non era un singolo, ma era un Sinodo. Ed è solo
perché era un Sinodo, era un annodarsi di voci e tradizioni diverse, che ha
raggiunto la potenza che lo ha portato fino a noi.
Si tratta di
un passo molto bello e molto difficile.
E’ molto
bello perché c’è un’autorivelazione di Dio come unico Dio – “io sono il Signore
e non c’è alcun altro” –; c’è un manifestarsi di Dio come dispensatore della
luce e delle tenebre, come colui che ha creato la terra ed ha dispiegato i
cieli, come colui che spiana le asperità del terreno e apre le porte, il Dio
che ama il suo popolo e gratuitamente – “non per denaro e non per regali” - gli
fa piovere la giustizia, gli procura la salvezza, lo riporta a casa.
Ma questo è
anche un passo molto difficile, perché si presta, ed anzi fa appello, a due
letture, ed è quindi soggetto alla logica dei due contrari, che è la caratteristica
del mistero cristiano (che è il mistero del già e del non ancora, della
divinità e dell’umanità indivise, del servo che è il signore, e così via di
tutti i paradossi dialettici della fede).
La prima di
queste due possibili letture identifica questo testo come un testo messianico, così
come del resto è messianico l’intero ciclo di Isaia, che parla di un messia, di
un unto (Cristo vuol dire unto), di un germoglio, di un servo che era atteso
nel futuro per apportare la salvezza ad Israele e anche a tutte le genti.
La seconda
lettura riconosce in questo testo il riferimento a un evento storico concreto,
e di decisiva importanza per il popolo d’Israele e poi per la storia del mondo:
si tratta del ritorno degli esiliati da Babilonia a Gerusalemme e della
ricostruzione del tempio di Gerusalemme, che diverrà quindi il secondo tempio,
quello che arriverà fino a Gesù; si tratta di un evento che come dicono gli
storici e gli esegeti segnerà il passaggio dall’ebraismo al giudaismo, dalla
teologia del patto incardinato nella monarchia davidica, alla teologia della
promessa fatta propria dalla classe sacerdotale e trasferita dal re a tutto il
popolo.
Ora questo
evento storico - ritorno a Gerusalemme e ricostruzione del tempio - è voluto da
Dio, ma ha uno strumento determinato che è Ciro, il giovane sovrano di Persia,
che dopo aver conquistato senza troppa fatica Babilonia nel 539 a. C., pare
facendo deviare il corso dell’Eufrate che faceva da cinta di difesa della
città, rimandò liberi gli ebrei che erano stati deportati dai babilonesi e fece
loro restituire gli arredi del tempio, perché andassero a ricostruirlo. .
Dunque ci
sono queste due letture concomitanti, queste due narrazioni. E qui c’è un
problema per noi che dopo duemilacinquecento anni leggiamo questa parola, non per
accrescere la nostra conoscenza storica, ma per far crescere la nostra
esperienza di Dio. Tutto il problema per noi è di vedere chi è questo Ciro, chi
è questo eletto che Dio ha chiamato per nome.
Seconda fase: come cresce questa
Parola con noi che la leggiamo
Chi è questo
Ciro? Se per noi Ciro fosse semplicemente il re di Persia e questa pagina della
Bibbia non parlasse che di lui, questa sarebbe una pagina dell’epopea nazionale
di Israele, ma non una parola che viene da Dio a parlare oggi della nostra
salvezza. Anzi, se la leggessimo così, all’interno di una ricostruzione mitica
della storia ebraica, senza un discernimento che ci facesse andare oltre la
lettera della Scrittura sacra, ci troveremmo di fronte a una proposta teologica
e religiosa che non potremmo accogliere senza qualche preoccupazione. Ne
risulterebbe un Dio che addossa su di sé tutto l’onere delle azioni necessarie
alla salvezza del suo popolo, un Dio che riduce l’operatore umano a un puro
strumento nelle sue mani, un Dio che fa tutto lui e che perciò permette
all’uomo di giustificare ogni sua azione come se fosse fatta da Dio. Sono
letture di questo tipo, come quelle ad esempio che interpretano in modo
fondamentalista il dono della terra fatto da Dio ad Israele, o come quelle
radicali e impietose che si fanno anche oggi in certe frange dell’Islam, che
portano a un uso distorto e partigiano della Bibbia; sono letture di questo
tipo che ad esempio rendono anche oggi non negoziabile la sovranità statale
israeliana su tutta intera la Palestina e impediscono, ancora dopo 65 anni, la
soluzione della questione palestinese.
D’altra parte
le modalità attraverso cui Dio provvede a realizzare i suoi disegni e a
mantenere il suo patto, risentendo della cultura degli autori umani del tempo,
fossero pure eccelsi come gli autori dei libri di Isaia, sono intese come
modalità violente, che sono descritte con parole forti, antropomorfe, come “abbattere le nazioni (Is. 45,1)”,
marciare in battaglia, spezzare le porte (Is. 45,2). Anzi proprio in questo il
Secondo Isaia vede la differenza tra Dio e gli idoli. Infatti Dio è colui che
dà la vittoria, che consegna i popoli al suo eletto e gli assoggetta i re, fa
sì che la sua spada li riduca in polvere (Is. 41, 2); è lui che riduce a nulla
i potenti e annienta i signori della terra (Is. 40, 23); è lui che chiama Ciro
dal settentrione e fa sì che egli calpesti i governatori come creta, come un
vasaio schiaccia l’argilla (Is. 41, 25); al contrario gli idoli sono inerti,
una volta fabbricati con l’oro, l’argento o un legno che non marcisce (Is. 40,
19-20) non si muovono, restano fissati coi chiodi (41, 7); così, fermo al suo
posto, l’idolo non risponde, non libera nessuno dalla sua afflizione (Is. 46,
7).
Ora la
questione è come mettere insieme questo Dio che abbatte le nazioni, che si
vendica dei suoi nemici, che minaccia su Gerusalemme “il soffio dello
sterminio” (Is. 4,4) col Dio non violento che noi conosciamo dalla “esegesi” di
Gesù; e la domanda è chi è veramente questo Ciro che ci viene proposto come
ideale dal momento che è stato chiamato per nome.
Questo è un
problema che si pone per tutta la lettura cristiana della Bibbia ebraica, ed è
il problema che i Padri della Chiesa hanno risolto facendo una lettura
tipologica o mistica dell’Antico Testamento, cioè leggendo l’Antico Testamento
come “tipo”, anticipazione, preannuncio di quanto avverrà nel Nuovo, e
interpretando tutta la Scrittura ebraica come se, in filigrana, parlasse di
Gesù. Facciamo solo un esempio, traendolo dal “Commento morale al libro di
Giobbe”, del grande papa del VI secolo San Gregorio Magno. Scrive Gregorio:
“Rispettando la verità storica, mi sono proposto di esaminare in senso mistico
le parole del beato Giobbe e dei suoi amici. Per quanti sono ben informati, è
chiaro che la Sacra Scrittura si preoccupa in tutti i suoi riferimenti di
promettere il Redentore del mondo e si è applicata a indicarlo profeticamente
attraverso tutti i suoi eletti. Perciò lo stesso beato Giobbe è chiamato in
latino dolens (dolente) per
raffigurare e col nome e con le ferite la passione del nostro Redentore”.
Dunque c’è scritto Giobbe, e Gregorio legge Gesù. Questo non fa molto piacere
agli Ebrei che non amano che all’antica Scrittura siano dati altri significati,
ma per la prima Chiesa questo è stato il modo in cui si poteva comprendere quel
fatto fondamentale che era l’unità dei due Testamenti e l’inclusione del Primo
Testamento nel Canone cristiano. Infatti attraverso la lettura tipologica si coglieva il
secondo significato del testo biblico, il significato nascosto, ulteriore
rispetto a quello che risultava dalla lettera. Questo secondo significato
coincideva con una lettura spirituale, una lettura “mistica”, cioè una lettura
compiuta nello Spirito, capace di svelare nella Scrittura la presenza di Gesù e
del suo mistero.
Questo ha
permesso ai cristiani una lettura dinamica e non fissista della Scrittura, ciò
che ha fatto dire a San Gregorio Magno che la Scrittura cresce con chi la
legge; cioè si muove anch’essa, non sta immobile, fissata a un chiodo, come un
idolo. Non cresce solo chi legge, ma anche ciò che sta scritto, cresce nei suoi
significati molteplici la Parola di Dio, in se stessa, nell’anima di ciascun
credente e nella Chiesa.
Questo è un principio
ermeneutico fondamentale che dovrebbe ad esempio permettere di sciogliere la
contraddizione emersa dal Sinodo, secondo la quale ci sarebbe un precetto
biblico immutabile e una disciplina che invece in forza della misericordia può
cambiare. Al contrario la misericordia, che poi è Dio stesso, è il criterio
ermeneutico sia della disciplina che del testo biblico, per cui essi si conservano
insieme e crescono insieme.
È in base a
questo criterio che il papa può dire oggi con forza che “uccidere in nome di
Dio è un grande sacrilegio”, come ha detto ai capi religiosi in Albania, ed è
in base a questo che la Chiesa cattolica ha potuto prendere un definitivo
congedo dal Dio violento; un recente documento della Commissione Teologica
Internazionale, che è fatta di teologi del papa, sia di Ratzinger che di Bergoglio, spiega che
proprio “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito” ha
permesso di “purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le
potenze del conflitto e dell’assoggettamento” e di comprendere come il Dio
violento, foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento
di Dio, di “un fraintendimento dell’alleanza con Dio”, e che anzi l’eccitazione
alla violenza in nome di Dio “è la massima corruzione della religione”. Quindi
anche Dio, anche leggendo la Scrittura, può essere frainteso!
Ed è grazie a
questa nuova comprensione della Scrittura al netto delle sue contaminazioni con
la violenza, che oggi possiamo meglio chiederci chi è questo Ciro, chi è questo
eletto che Dio ha chiamato per nome e che porta liberazione e salvezza.
In prima
lettura certamente è l’Imperatore di Persia, il conquistatore dei conquistatori
degli Ebrei, il persiano che prende il posto dei Caldei, perché quella con Dio
è una storia, e la storia non si può saltare, non si può togliere la storia
dalla Bibbia, sarebbe come togliergli Dio stesso. E allargando lo sguardo il
profeta dietro l’Imperatore vede il popolo d’Israele stesso, a cui è intestata
questa liberazione.
Nel secondo
significato, quello nascosto, l’eletto certamente è Gesù, come ci hanno fatto
comprendere i Padri. E anzi non è nemmeno tanto nascosto: proprio in questo
passo del secondo Isaia c’è un fortissimo preannuncio di Gesù che la Chiesa
addirittura ha reso esplicito nella liturgia del Natale: “Stillate cieli
dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia, si apra la terra e germini
il Salvatore”(Vulgata).
Ma poi c’è un
terzo significato, ed è questo testo stesso che ci mette sulla pista per
riconoscerlo, ed è ai versetti 12-13, conclusivi di questo brano, dove si dice:«
“Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo. Io con le mani ho
dispiegato i cieli… Io l’ho suscitato per la giustizia, spianerò tutte le sue
vie. Egli ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro
e non per regali”, dice il Signore delle schiere»
Dunque, se la
Scrittura cresce con noi che la leggiamo, essa ci dice che secondo questo terzo
ed ultimo significato il chiamato è l’uomo, prima di ogni altra specificazione.
L’eletto, il soggetto della liberazione, quello che deve ricostruire le città
distrutte, liberare i prigionieri e i sequestrati, far tornare nella gioia
quelli che sono stati deportati e sono fuggiti nel pianto, è l’uomo stesso,
sono l’uomo e la donna che Dio ha plasmato come vasi di creta. È l’uomo, è l’umanità
tutta intera che deve farsi soggetto della propria liberazione, siamo noi che
Dio chiama per nome, perché prima di tutto amiamo lui, e insieme amiamo i
fratelli, non solo un popolo ma tutti i popoli, e perché raccogliamo il suo
mandato per amore, non per denaro, facciamo opera di giustizia e di
salvaguardia del creato e, con il suo aiuto, liberiamo la terra.
È questo che
stasera ci dice il collettivo dei profeti che chiamiamo Isaia, nome la cui
radice è quella stessa del nome Gesù.
Terza fase: come vivere oggi la
Parola
In che modo
oggi ci interpella questa Parola che abbiamo ascoltato? Questo non lo possiamo
dire noi, lo si deve chiedere a Dio stesso, ciascuno nel profondo di se stesso.
Però qualcosa
si può dire. Se Dio ci chiama per nome, anche noi lo dobbiamo chiamare per
nome. Il nome non è come il simbolo, come il segnale che indica la realtà senza
esserlo. Il nome non è la targhetta che sta sulla porta della casa di Dio. Il
nome è Dio. Questo significa che il rapporto con lui deve essere personale, di
un Tu con un Tu. Altrimenti la preghiera, che già è così difficile, non avrebbe
senso e forse non sarebbe possibile. Non si può pregare una “energia arcana”,
una “forza vitale”, una “potenza creatrice”, una “realtà sacra”, come talvolta
si dice per non dire Dio; bisogna pregare Dio chiamandolo per nome; non si può
pregare Dio nella religione, si può pregare solo nella fede. Possiamo far finta
di pregare, ma non pregare davvero.
Poi bisogna
farsi chiamare per nome. Quello che Dio chiedeva a Ciro, quello che chiede
all’umanità come tale, lo chiede a ciascuno di noi. Ciascuno di noi deve
ricostruire le città devastate, e noi sappiamo quanto oggi siano anche
spiritualmente devastate, ciascuno di noi deve instaurare il diritto,
sciogliere le cinture dai fianchi dei re, cioè deporre i potenti e i prepotenti
dai troni, instaurare la democrazia, richiamare i ricacciati e gli esclusi,
aprire le porte ai profughi. Ieri papa Francesco ha fatto uno straordinario
discorso sul diritto, contro la pena di morte, la tortura, per la liberazione
dei prigionieri ingiustamente detenuti o disumanamente trattati. Chi lo deve
fare? Lo dobbiamo fare noi.
Ma come
possiamo farcela? Noi non abbiamo né il potere né le armi di Ciro. Però abbiamo
due cose che Ciro non aveva. Abbiamo il Vangelo, che ci permette di pensare la
liberazione e la salvezza non racchiuse nei limiti del destino temporale e
storico, come se Cristo non fosse risorto, ma proiettate nel futuro che non conosce
tramonto; ed è per questo rapporto tra le due liberazioni e le due salvezze,
quella storica e quella eterna, che il Vangelo è fonte di gioia.
E poi abbiamo
il diritto, che è la grande risorsa che gli uomini hanno messo in campo per
l’instaurazione della giustizia e della pace sulla terra. E’ nel diritto che si
può fermare l’aggressore senza distruggere le nazioni, si può realizzare
l’eguaglianza senza uccidere la libertà, si può fare giustizia senza cadere
nella violenza.
La Parola che
oggi abbiamo ascoltato ci dice che tutto questo è possibile; anzi, se la
vogliamo leggere in modalità messianica, che tutto questo avverrà. E sarà il
Signore a operare tutto questo attraverso di noi, chiamandoci per nome, uno per
uno.
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