di Raniero La Valle
Lo Stato Islamico dell’Iraq e
della Siria (ISIS, o come si dice lì, DAISH), è una novità di prima grandezza
nel tormentato corso della storia che stiamo vivendo. Non è solo una delle
tante irruzioni dell’estremismo islamico che ci hanno turbato in questi anni,
non è un’organizzazione terroristica clandestina come quelle contro cui siamo
in guerra ormai a partire dall’attentato alle Torri Gemelle. È tutto questo, ma
la novità è che si è costituito in Stato, sotto il comando di un Califfo, ha un
territorio, un popolo, un esercito. E in più, almeno a parole, coltiva un sogno
di conquista che vede il Califfato estendersi fino a Roma , in Spagna, in Portogallo…
Però, a differenza delle antiche conquiste islamiche, questa volta non si
tratterebbe di far marciare gli eserciti fino a Vienna o all’Atlantico, ma di
far nascere lo Stato islamico, uno Stato pseudoreligioso mondiale, dall’interno
dei singoli Paesi, per proselitismo, per teste di ponte, per contagio di masse
disorientate e disponibili a farsi ingaggiare sia in terre a popolazione islamica
sia in terre di “infedeli”.
Il Califfato dell’Impero ottomano
Trattandosi di un sogno
impossibile nessuno in Occidente lo prende sul serio, nessuno lo analizza, lo
esamina, non se ne parla nemmeno. La stessa proclamazione del Califfato è stata
considerata poco più che un folklore, ignorando che nella storia dell’Islam e
del mondo il Califfato è stata una cosa molto seria: l’ultimo Califfato è stato
un Impero esteso su tre continenti, Asia, Africa ed Europa, le cui province
europee si chiamavano Rumelia, da Roma; era l’Impero ottomano che aveva per
capitale Costantinopoli, che però veniva chiamata coi nomi dei quartieri in cui
la città era divisa, Stambul, Pera, Galata ed Eyub, per non dire
Costantinopoli, che era un nome “cristiano”; il sovrano di questo Impero era un
Sultano, detto anche Kan o Padisha, che a norma della Costituzione riuniva
nelle sue mani il potere politico sull’Impero e il Califfato supremo dell’Islam;
come Califfo Supremo egli era il protettore della religione musulmana e il suo
nome era invocato anche nelle moschee dei territori non soggetti al dominio
turco nella preghiera del venerdì; e c’è voluta la rivoluzione dei Giovani
Turchi nel 1908, l’esilio a Salonicco del Sultano Abdul Hamid colpevole di
truci delitti, la sconfitta nella prima guerra mondiale e il sorgere della
Turchia laica di Ataturk perché finalmente nel 1924, deposto l’ultimo Sultano,
il Califfato fosse dichiarato estinto. Dunque il Califfato evoca grandi memorie
che riproposte col traino di un successo politico e unite al mito della
violenza e del potere, possono suscitare un grande ascendente sulle masse
frustrate di un mondo arabo umiliato dall’Occidente e passato fin qui di
sconfitta in sconfitta.
L’Occidente fa la cosa più stupida
E l’Occidente che fa? Fa la cosa
più stupida, e decide di bombardarlo, di attaccare questo sogno sanguinoso dal
cielo, di distruggere dall’alto lo Stato jihadista senza mettere i piedi per
terra. Decide di scatenargli contro droni e missili, di martellarlo con i raid
aerei, che come è noto non distinguono nella loro azione letale tra
integralisti settari e musulmani comuni, tra estremisti e moderati, tra il
petrolio che serve alla vita e quello che serve a finanziare le milizie e le
stragi. Gli attacchi aerei non fermano le invasioni, né spossessano un potere
del territorio su cui è insediato. Come ha detto un combattente dell’ISIS in
un’intervista alla CNN – e perciò ora tutti gli americani lo sanno – “agli
attacchi aerei eravamo preparati da qualche tempo, sappiamo che le nostre basi
sono note perché ci controllano con radar e satelliti, e dunque ne abbiamo
altre di riserva”. Anche il bombardamento delle installazioni petrolifere, per
impedire il finanziamento dell’ISIS con la vendita del petrolio, secondo
l’intervistato sarebbe inutile “perché abbiamo altre fonti di finanziamento”.
Al contrario i bombardamenti
esercitano una potente azione propagandistica a favore dell’ISIS perché agli
occhi delle masse arabe e musulmane lo fanno apparire come oggetto di
un’aggressione, e quindi suscitano reazioni di solidarietà e di
identificazione, spingendo molti musulmani nei più diversi Paesi a sposarne la
causa.
Occorre un’operazione di terra
È chiaro invece che per
neutralizzare il gravissimo pericolo rappresentato dallo Stato islamico
jihadista, sempre più efferato nella sua lotta, non vi è altro modo che
sottrargli il territorio su cui si è installato, restituirlo alla Siria e
all’Iraq che hanno il diritto di restare integri, e mandare libero il popolo
che è stato assoggettato al suo controllo. Ma questo si può fare solo con
un’operazione mirata di una forza armata operante sul terreno, ma non nelle
forme di una guerra.
Ma chi lo può fare, chi può
mandare soldati di terra, chi può compiere una grande azione militare senza
fare una guerra, senza usare armi di distruzione di massa, come sono quelle
proprie di una guerra?
Non possono e non devono farlo
singole Potenze, perché esse non sono mai disinteressate e, come ha detto il
papa, troppe volte con la scusa di fermare l’aggressore “le Potenze si sono
impadronite dei popoli e hanno fatto guerre di conquista”.
In ogni caso, adesso le Potenze non
lo vogliono fare, vogliono una vittoria a buon mercato. Gli Stati Uniti, almeno
con Obama, sono terrorizzati di avere altri Vietnam, altri Iraq e altri
Afghanistan, da cui i ragazzi americani tornano nelle bare, per di più sempre
sconfitti. Inghilterra e Francia vogliono fare guerre in cui muoiano solo gli
altri. La Germania ha sempre il fantasma delle guerre di Hitler, e mentre fa la
parte della più ricca in Europa, non vuole spendere soldi neanche per far
volare gli aerei: su 190 elicotteri ne funzionano solo 14 e su 239 aerei da
combattimento possono andarne in missione solo un’ottantina sicché, come ha
detto la ministra della Difesa, “non siamo in grado di adempiere agli obblighi
che ci derivano dall’appartenenza alla NATO”. Quanto all’Italia, che ha ormai
un governo maestro nell’arte dei diversivi, di fronte al problema di combattere
l’ISIS ha pensato bene di mandare in zona delle armi usate perché ci combattano
gli altri. Né migliore pensata ha fatto
l’Europa come tale, sotto direzione italiana nel semestre che avrebbe dovuto
segnare la sua rinascita, la sua nuova epifania politica: riguardo alla sfida
di un preteso Stato islamico che minaccia l’Occidente e che taglia la testa a
cittadini europei per mano di boia che parlano con accento inglese, l’Europa
non ha niente da dire, pensa ad altro, magari all’art. 18 e al Senato entrambi
da abolire in Italia.
Non resta che il ritorno al diritto
Sicché non resta che il ritorno
al diritto. Lo abbiamo ignorato per 70 anni, ma forse è venuto il momento di
una grande battaglia politica, come quelle che si facevano una volta nelle
piazze, nei parlamenti, nelle fabbriche, nelle scuole, per dare attuazione al
diritto alla pace che sta scritto nelle nostre Costituzioni e dal 1945 sta
scritto nella Carta dell’ONU.
Questo diritto dice che non sono
legittimi né la minaccia né l’uso della forza nelle relazioni internazionali,
che se c’è una minaccia alla pace, una violazione della pace o un atto di
aggressione il compito di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale spetta al Consiglio di Sicurezza; e che se i mezzi pacifici non
bastano, il Consiglio di Sicurezza può intraprendere, con forze aeree, navali o
terrestri ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e
la sicurezza internazionale: ogni azione,
non ogni forma di guerra; e lo farà servendosi di forze armate messe a
disposizione del Consiglio di Sicurezza dai Membri delle Nazioni Unite, unità
militari che opereranno non sotto il comando dei singoli Membri, ma di un
Comitato di Stato maggiore composto dai Capi di Stato maggiore dei cinque Stati
membri permanenti del Consiglio, cioè americani, russi, inglesi, francesi e
cinesi, chiamati nella loro diversità ad unirsi per fermare gli aggressori e
assicurare al mondo la pace. È da qui che passa un nuovo ordine mondiale.
L’obiezione è che finora l’ONU si
è ben guardata dal fare questo, e non sembra oggi avere la stoffa per farlo. Ma
la politica serve appunto a far essere, nel rapporto pubblico tra le persone ed
i popoli, quello che prima sembrava impossibile e non c’era.
La prima volta di Parolin all’ONU
Un impegnativo discorso in questa
direzione ha fatto il
29 settembre il segretario di Stato di papa Francesco, cardinale Parolin, nel
suo battesimo del fuoco dinnanzi all’Assemblea generale dell’ONU.
Egli ha lamentato che, contro la
stessa ragione per cui è nata, l’attuale unione di Stati “rimane passiva di
fronte alle violenze subite da popolazioni indifese", mentre in Iraq e in
Siria si riscontra un fenomeno completamente nuovo: l'esistenza di una
organizzazione terroristica che minaccia tutti gli Stati, prefiggendosi la loro
dissoluzione per sostituirli con un governo mondiale pseudo-religioso.
"Anche oggi, ha detto il cardinale, vi sono individui che ritengono di
esercitare il potere con la coercizione delle coscienze, perseguitando e
uccidendo in nome di Dio. Nel mondo della comunicazione globale, questo nuovo
fenomeno ha trovato proseliti in molti luoghi, ed è riuscito ad attrarre
giovani di tutto il mondo, spesso disillusi da una indifferenza diffusa e dalla
morte dei valori nelle società più opulente”. Tale sfida - ha detto il
Cardinale Parolin – “richiede una più incisiva comprensione del diritto
internazionale. Una delle caratteristiche del recente fenomeno terroristico è
che esso ignora l'esistenza dello Stato e di conseguenza tutto l'ordine
internazionale”. Esso “mina e respinge tutti i sistemi giuridici esistenti,
tentando di imporre il proprio dominio sulle coscienze e il controllo completo
delle persone. La natura globale di tale fenomeno, comporta che l'unico modo
possibile di affrontare il terrorismo sia offerto dalla struttura del diritto
internazionale. Questa realtà rende necessario il rinnovamento delle Nazioni
Unite per promuovere e mantenere la pace”, “evitando il fuoco incrociato dei
veti”; ed è necessaria “un'autentica volontà di applicare scrupolosamente le
attuali procedure giuridiche, non trascurando le implicazioni degli attuali
problemi”. Tra le implicazioni, a norma dello Statuto dell’ONU, c’è anche un “uso
proporzionato” della forza senza precipitare nella guerra.
La Chiesa di papa Francesco è
l’unica grande istituzione aperta sul mondo che dice oggi con chiarezza che
cosa si debba fare, è l’unica che chiama in causa per un intervento diretto le
Nazioni Unite, è l’unica che addita il diritto, nel quale è di moda non credere
più, come la grande risorsa politica e laica per aggiustare la terra (“aggiustare”
significa attuare lo ius) fermare la
violenza, anche religiosa, e costruire la pace. E proprio questo è stato l’oggetto di un
vertice convocato ai primi di ottobre dal papa in Vaticano con la partecipazione
di tutti i Nunzi nei Paesi del Medio Oriente e i rappresentanti pontifici presso
l’Unione Europea e l’ONU:
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