Dalla sconfitta di Renzi un monito per la democrazia di Raniero La Valle
pubblicato sul n° 13 del 1 luglio 2015 di Rocca, Rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
pubblicato sul n° 13 del 1 luglio 2015 di Rocca, Rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
Con le elezioni del 31 maggio è
finita la cavalcata di Matteo Renzi. Non si sa quando scenderà da cavallo, ma
la cavalcata è finita perché le elezioni regionali (che sono più che mai politiche)
hanno mostrato che la prateria non c’è.
La prateria sarebbe lo spazio sconfinato,
vuoto della destra, che è comparso nelle visioni dei leaders della ex-sinistra
dopo la soppressione del PCI. Irrompere su quella prateria avrebbe dovuto
permettere loro di ereditare stabilmente il potere della Repubblica, prima con
la “gioiosa macchina di guerra” di Occhetto, poi con il partito “a vocazione
maggioritaria” di Veltroni, infine con il “partito della Nazione” di Renzi. Le
legge elettorali via via architettate come le più idonee a rendere
inoppugnabile il potere, erano concepite o fatte proprie a tale scopo.
Questo vecchio progetto è stato
ancora una volta sconfitto.
L’ideologia visionaria di un
partito “progressista” o “di sinistra moderata” o “democratico”che si
insediasse pressoché solo al potere e potesse elettoralmente dilagare in uno
spazio politico sostanzialmente privo di oppositori credibili o comunque
vincenti, era basata su un errore teorico e su un principio di irrealtà.
L’errore teorico era che una
parte che si immagina come tutto o pretende di farsi tutto, non è più
democrazia. Il principio di irrealtà consisteva nel non vedere che in Italia la
destra è un fenomeno strutturale e, almeno da Facta in poi, maggioritaria, e per
la sua potenza capace di imporre al Paese le scelte più nefaste, dalle leggi
razziali alla guerra, dal piano di rinascita malriuscito della P2 al Jobs Act, dall’idea
di bombardare i barconi agognati dai profughi alla chiusura delle frontiere
regionali annunciata dai vecchi e nuovi “governatori” del Nord.
Questa prevalenza della destra in
Italia, strutturale finché il senso comune dominante non sarà sostituito da
un’altra cultura, non vuole affatto dire che la sinistra, o la parte più
democratica del Paese, non possa governare. Ma lo può fare in forza di una
“egemonia”, termine tecnico che vuol dire semplicemente riuscire a far passare
ideali più alti, progetti più giusti, e a farsi seguire anche da portatori di
altre culture e altre visioni politiche, per la costruzione di una società più
solidale ed umana.
Un momento alto di questa
“egemonia” c’è stato in Italia quando, sconfitta la destra, si è fatta la
Repubblica, la Costituzione, lo Statuto dei lavoratori.
Al di fuori di una “egemonia”
democratica la destra domina, anche se può subire rovesci ed eclissi quando
cade in cattive mani. Perciò l’idea di una ex-sinistra che si sostituisce alla
destra, che ne fa le veci e ne realizza le “riforme”, perché tanto nella
prateria la destra non c’è, e col 40 per cento si prende tutto il Paese, è
un’idea che ignora cultura, storia e politica ed è, al di là di siparietti
effimeri, istituzionalmente votata alla sconfitta.
Le elezioni del 31 maggio ne hanno
fornito la
conferma. Effimero si è rivelato il “partito del 41 per
cento” delle europee. Secondo l’Istituto Cattaneo, nelle regioni in cui si è
votato il Partito Democratico ha perso più di un milione di voti rispetto ai
risultati di Bersani del 2013 e 2.143.003 voti rispetto alle elezioni dell’anno
scorso, il che in proiezione nazionale vuol dire un ammanco di cinque milioni e
mezzo di elettori. Più della metà del corpo elettorale non è neanche andata a
votare, il che significa che la prateria non è vuota della destra ma è vuota di
quell’elettorato democratico che non ha superato la prova della delusione e
dello scoramento. Nel Veneto bianco, dove una volta regnava la DC, la Lega più radicale
rottama tutti i suoi antagonisti e si candida al governo non della Padania, ma
dell’Italia; in Campania la gente vota scientemente per l’illegalità eleggendo
gli ineleggibili, mostrando che il vero “Incompiuto” di questo Paese non è il
potere – onde ci sarebbe un problema di governabilità – ma è il diritto, onde
c’è un problema di statualità e di ripristino della Costituzione; nella Liguria
“rossa” dove si è votato secondo lo
schema di schieramenti politici e di alleanze prefigurato dall’Italicum – con la destra ricompattata,
da Salvini ad Alfano, e il Movimento 5 stelle che si avvantaggia degli altrui
abbandoni e di una protesta crescente – si è dimostrato che l’Italicum, pensato per le esclusive
fortune del PD, è uno straordinario e certissimo sgabello per la destra anche
estrema al potere. Sembra impossibile che ciò che resta del PD possa persistere
in questa corsa al suicidio.
In questo panorama, l’unico
modello che si salva è il modello pugliese, che ha comportato un lungo lavoro
sull’elettorato in funzione di seri
obiettivi programmatici e di larghe alleanze democratiche, modello che dovrebbe
essere rilanciato per riaprire una prospettiva accettabile al Paese.
Se così si interrogano i
risultati del 31 maggio, si vede come al più presto si debba invertire la
strada intrapresa, il che significa una moratoria delle riforme costituzionali,
da rinviare alla prossima legislatura, l’abbandono della legge elettorale fatta
per un solo partito e l’adozione di una legge pluralistica in grado di
ricostituire una rappresentanza proporzionale corrispondente alle forze realmente
presenti nel Paese, la ricognizione delle vere priorità da perseguire per il
bene comune della Nazione, e ben presto nuove elezioni, per rinnovare un
Parlamento che vive in un conclamato vizio di incostituzionalità.
Una strada di uscita dalla democrazia
Anche prima del voto di maggio si
era potuto vedere del resto che si era giunti a una svolta, e che la strada che
si stava percorrendo era una strada di uscita dalla democrazia.
Con l’approvazione alla Camera,
nonostante l’opposizione popolare, della legge che ritaglia a misura della
scuola il disegno di una società autoritaria, si poteva dare ormai per compiuta
la cosiddetta transizione italiana e vedere finalmente realizzata la famosa
governabilità, mito di diverse generazioni di politici reazionari.
Ma qual è il prezzo di questa
governabilità realizzata, cioè con che cosa la scambiamo o già l’abbiamo
scambiata? La risposta è molto semplice. In cambio della governabilità abbiamo
dato la democrazia.
L’uscita dalla democrazia è in
realtà un processo cominciato molto tempo fa, e ora giunto al suo culmine. Per
comprenderlo bisogna sapere che la modernità conosce due tipi di democrazia: la
democrazia sostanziale, che è quella dei diritti, dell’eguaglianza e del
Welfare, fatta propria dalle Costituzioni del dopoguerra a cominciare da quella
italiana, e la democrazia formale che è quella dei numeri che regola e
trattiene il potere.
Finora abbiamo vissuto il
processo di uscita dalla democrazia sostanziale. Tutti i suoi capisaldi sono
stati travolti. Democrazia per esempio è, come dice l’art. 1 della
Costituzione, che la Repubblica è fondata sul lavoro. Papa Francesco ci ha
detto che il lavoro è la dignità della persona, e che perciò tutti devono poter
lavorare, il che vuol dire che
la Repubblica per essere fondata sulla
dignità di tutte le persone per prima cosa dovrebbe avere un programma e una
politica di piena occupazione.
Ma la piena occupazione è esclusa
dall’attuale sistema economico, da quando l’economista liberale Friedrich von
Hayek all’inizio della globalizzazione spiegò anche all’Italia, in un saggio
pubblicato dall’Associazione Bancaria Italiana, che il lavoro deve essere
scarso se si vuole che i profitti e le ricchezze crescano. Piena occupazione
vuol dire che il
lavoro costa di più, che i sindacati sono forti e i padroni sono deboli, che i
lavoratori sono tutelati e i datori di lavoro ne devono rispondere ai giudici.
Perciò la piena occupazione è stata tolta dalla democrazia e considerata una
stortura della “vecchia politica”.
Democrazia è anche che la
Repubblica rimuova le cause che sul piano economico e sociale di fatto impediscono
lo sviluppo
della persona umana e la partecipazione dei lavoratori alla vita dello Stato; e
questo è l’art. 3 della Costituzione. Sulla base di questo principio essenziale
della democrazia Roosevelt fece il New Deal e salvò l’America e il mondo dalla grande
depressione, sulla base di questa idea di democrazia dopo la guerra si è fatto il piano Marshall, e
l’Europa, a cominciare dalla Germania, è risorta, e sulla base dello stesso
principio l’Italia ha fatto la riforma agraria abolendo la mezzadria e il
latifondo, ha fatto il
piano case, l’ENI, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma
sanitaria, la Cassa del Mezzogiorno e da agricola è diventata industriale.
La democrazia sostanziale e quella dei numeri
Oggi tutto questo non solo è difficile,
ma sarebbe politicamente scorretto, ed anzi è considerato fuori legge e
proibito, e addirittura vietato dai Trattati. Fin dal 1971 le riforme monetarie
ed economiche di Nixon, di Reagan, della Thatcher, i minuziosi trattati europei
sulla sovranità della concorrenza e dei mercati, la separazione tra Banca
d’Italia e autorità di governo, la rinunzia degli Stati a battere moneta, senza
che i nuovi produttori di moneta dipendano da nessuno, e meno ancora rispondano
a istanze democratiche, hanno tolto alle Repubbliche, cioè al potere politico e
alla sovranità popolare ogni possibilità di governare l’economia e di
perseguire i fini di promozione e di felicità umana che essi stessi si erano
assegnati.
Il caso della Grecia è esemplare:
lì il sovrano, cioè il popolo, che secondo la dottrina dovrebbe decidere, in
quanto sovrano, dello “stato d’eccezione”, vorrebbe prendere il controllo
dell’economia e salvare il Paese; ma ci sono poteri esterni, ovvero noi con gli
altri di Bruxelles, che glielo impediscono.
Finita così la democrazia dei
diritti, quella sostanziale, si potrebbe dire che almeno resta la democrazia
dei numeri, cioè la democrazia formale. Non che la democrazia dei numeri sia
del tutto razionale, perché di per sé i
numeri non sono garanzia di buon governo; il pensiero sulla democrazia ha
sempre saputo che non è affatto detto che la “maior pars” sia anche la “sanior
pars”, cioè che i più siano più saggi e migliori dei meno; tuttavia non si
è trovato un sistema migliore, anche nella presunzione che l’interesse dei
molti sia più vicino all’interesse generale di quanto non lo sia l’interesse
dei pochi, una volta che questi prendano il potere. Perciò il pilastro della
democrazia è che siano i più e non i meno a comandare. La democrazia appende la
sua ultima speranza, le sue ultime vestigia, ai numeri. Contro un potere che
per governarci ci schiacci, l’unica difesa sono i numeri, ovvero i voti.
Ebbene
la legge elettorale maggioritaria, oggi reiterata nell’Italicum, è fatta per ottenere esattamente il contrario ed
esplicitamente dichiara il suo scopo di sovvertire i numeri, di dare il potere
non ai molti ma ai pochi. Attraverso un artificio una minoranza viene dotata di
una maggioranza schiacciante con lo specifico scopo di rendere definitivo e
insindacabile il suo potere per almeno cinque anni.
Molti
giuristi, comitati, cittadini amanti della Costituzione stanno cercando in
questi giorni le vie per invalidare l’Italicum
e renderlo inoperante per via giudiziaria o referendaria. E questo va bene. Ma
si può non fare in tempo o non riuscire a ottenere il risultato. Perciò fin da
ora occorre prepararsi alle prossime elezioni nell’ipotesi che si facciano con
questo sistema, e addirittura senza più nemmeno il Senato. Il tema cruciale è come fare in modo che il
primo uso di questa tecnica di uscita dalla democrazia non si trasformi in
un’uscita definitiva.
È un problema che solo
l’elettorato può risolvere. C’è un elettorato democratico sia
nell’astensionismo sia nelle basi potenziali di tutti i partiti, presenti o non
presenti in Parlamento. Esso potrebbe trovare un denominatore comune attorno ai
tre grandi valori del costituzionalismo, della cittadinanza attiva e di una
misericordia più forte della durezza di cuore dell’economia e di una legge ancora
intrisa di giungla, che papa Francesco denuncia ogni giorno. Questi elettorati
potrebbero unirsi per governare e per impedire che il premio di maggioranza
cada in mano a un solo soggetto politico che ne possa far seguire un danno
irreversibile.
Nessun commento:
Posta un commento