martedì 16 giugno 2015

La gioia di poter tornare a credere


DAL CONCILIO ALLA CHIESA DI FRANCESCO 

Pubblichiamo il testo della relazione tenuta da Raniero La Valle il 6 giugno 2015 al Convento San Domenico di Pistoia per il ciclo di incontri di Koinonia–forum.

Per un giudizio globale dell’attuale pontificato fino a questo momento, mi pare si possa dire, sviluppando l’analisi già avviata nel libro: “Chi sono io Francesco?”[1], che papa Francesco ha fatto una scelta strategica, di cui ci sono tre indizi (e tre indizi bastano a fare una prova).
Il primo è la scelta del nome di Francesco, che egli ha adottato durante il Conclave per rispondere alla raccomandazione del cardinale Hummes: “Ricordati dei poveri”, ma che poi egli ha spiegato associando il nome di Francesco d’Assisi a una opzione di evangelismo puro.
Il secondo è la scelta di abitare a Santa Marta, il che vuol dire celebrare ogni mattina la messa non in segreto a palazzo, ma col popolo in una vera assemblea, e a questa assemblea ogni giorno, per sette giorni alla settimana e 365 giorni all’anno aprire il Vangelo e commentarlo, dichiarando perciò continuamente i criteri che determinano la sua quotidiana azione pontificale.
Il terzo è la Evangelii Gaudium, che è una sorta di Regola della Chiesa universale in cui il Vangelo è assunto come ragione del suo esistere e della sua missione.
La scelta strategica, svelata da questi tre indizi, è quella di tornare ai nastri di partenza, di tornare  cioè a Gesù e al suo annuncio, cioè al suo Vangelo, che precede la Chiesa e dice a tutti gli uomini che il Regno è vicino. Ciò vuol dire che il contenuto proprio dell’annuncio è il Regno, non la Chiesa; Se l’esegeta cattolico Alfred Loisy diceva icasticamente nel suo libretto “L’Evangile et l’Eglise”, nel 1902, “Gesù annunciava il regno ed è la Chiesa che è venuta”[2], papa Francesco prova a rifare il cammino. Gesù annuncia il regno e dunque il problema anche oggi per chi lo segue è quello del regno. La Chiesa visibile ne è “il segno e lo strumento”, non è la realtà del regno (perciò può essere paragonata a un ospedale da campo). E se la caratteristica del regno è di essere già e non ancora, la Chiesa visibile non è questo già; il già è quel tanto del regno che è già presente nel mondo ed è svelato dai “segni dei tempi”; dunque, ad esempio, per stare ai segni dei tempi della “Pacem in terris” il “già” del regno sono i lavoratori che si emancipano, le donne che acquistano dignità di persone, i popoli che si liberano, il diritto che si instaura, le Costituzioni che presidiano i diritti fondamentali degli esseri umani, l’ONU che realizza in germe una comunità di popoli, e la guerra che dagli uomini stessi viene  bollata come “aliena dalla ragione”. I segni avversi che indicano l’assenza o l’allontanarsi del regno sono per contro, secondo la lettura di papa Francesco, la società dell’esclusione, l’umanità scartata, l’economia che uccide, il denaro che governa invece di servire, il lavoro alienato e precario, i giovani disoccupati e così via.

 La Chiesa  è quella che aiuta a decifrare i segni del tempo e contribuisce a mettere in opera quelle realtà che giungano a farsi segno del regno, quelle realtà che siano leggibili come anticipazioni, avvio, “anteprima di stampa” del regno.
Se dunque il pontificato di papa Francesco si pone, seguendo Gesù, l’obiettivo dell’annuncio e della venuta del regno, vuol dire che la categoria interpretativa del pontificato non è quella della riforma ecclesiastica, non è quella della dottrina sociale, non è neanche solo della profezia, ma è la categoria messianica, cioè la rassicurazione che il regno c’è, viene, ed è vicino. Vedremo poi in che cosa si concentra questo annunzio messianico del regno, e come la parola che lo compendia e che lo esprime sia la misericordia, sicché il nome stesso di questo regno, che nella rappresentazione delle antiche culture spaziali ben si poteva definire come il “regno dei cieli”, può essere oggi quello di “regno di misericordia”; e perciò, se Dio come incessantemente dice Francesco è misericordia, è sinonimo di “regno di Dio”.
Mi sembra che stia qui la vera novità di questo pontificato. Ma papa Francesco non potrebbe interpretarla in solitudine, senza esprimere la continuità di una storia, di una tradizione che è di tutta la Chiesa. E qui allora si deve stabilire il rapporto tra papa Francesco e il Concilio Vaticano II, che di questo pontificato è la vera genesi e l’indimenticabile precedente. Si può anzi dire che il pontificato di Francesco richiama e completa il Concilio, anche in ciò che il Concilio non è stato, o non è riuscito a produrre.

Concilio e papa Francesco: un solo evento

Pertanto il criterio ermeneutico da assumere per intendere questo pontificato è riconoscere che Concilio e papa Francesco non sono due eventi a distanza di cinquanta anni l’uno dall’altro, ma sono un unico evento.
Interpretarli in questo modo non è fare una scelta neutrale. Infatti vuol dire individuare una traiettoria che partendo dal Concilio e passando attraverso il pontificato di Francesco dovrebbe andare a finire in una Chiesa nuova, una Chiesa della misericordia, veicolo di una misericordia che non è solo per i cieli, ma “in terris”. Insomma il Vangelo che ritorna. Questa è la tesi o, se si vuole, il sogno espresso in queste pagine.
L’unità tra Concilio e papa Francesco risulta da gesti e parole del papa stesso. L’ultimo gesto è stata la beatificazione, il 23 maggio scorso, di mons. Romero nella sua cattedrale di San Salvador, con sei cardinali, cento vescovi, quattro presidenti dell’America Latina e 260.000 persone: una vera e propria riabilitazione di un vescovo conciliare abbandonato da Roma in vita e poi a lungo occultato nella Chiesa. Il primo gesto fu invece il 27 aprile 2014 la canonizzazione di Giovanni XXIII, senza bisogno di alcun ulteriore miracolo se non quello di aver convocato il Concilio.
Quanto alle parole fanno fede quelle con cui fin dall’inizio papa Francesco si è richiamato al Concilio, letto però non come un’operazione di riforma ecclesiastica ma come un annuncio “aggiornato” del Vangelo (“aggiornamento” era la parola usata da papa Giovanni). Così infatti papa Francesco ha interpretato il Concilio quando ha detto nell’intervista alla Civiltà Cattolica: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione  storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità”- (e qui l’allusione era alle riserve avanzate da Benedetto XVI)[3] – “tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”[4]. E così papa Francesco continua il Concilio quando dice nella Misericordiae vultus, che con il Vaticano II “iniziava per la Chiesa un nuovo percorso della sua storia: i Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo”[5].
Dal Concilio alla Bolla di indizione dell’Anno Santo, è dunque il papa stesso che identifica un processo che è in corso nella Chiesa. Esso è cominciato l’11 settembre 1962, un mese prima del Concilio, con il discorso di papa Giovanni sulla Chiesa di tutti e specialmente Chiesa dei poveri, è continuato con il suo discorso d’inizio dell’11 ottobre Gaudet Mater Ecclesia, è giunto con la Gaudium et Spes al giorno della chiusura del Concilio dell’8 dicembre 1965 e infine, dopo una traversata nel deserto (durata dieci anni in più dei quaranta regolamentari) attraverso la Evangelii Gaudium di papa Francesco va verso l’appuntamento dell’8 dicembre 2015, quando si apriranno le porte sante del Giubileo.
La prossima tappa di questo percorso è l’Anno Santo. E qui le cose si fanno difficili perché non parliamo di cose già avvenute, ma che devono avvenire. Come saranno? È chiaro che qui si apre la grande alternativa: perché o il Giubileo sarà il solito Giubileo gestito come un’Expo ecclesiastica, e allora non avrebbe molto significato, o il Giubileo può essere lo snodo attraverso cui l’evento Concilio-papa Francesco potrebbe prolungarsi nella vita futura della Chiesa, e si uscirebbe verso la Chiesa della misericordia.  
Io propendo per questa seconda ipotesi. E che sia proprio questa l’intenzione con cui è stato indetto il Giubileo è avvalorato dal fatto che il papa lo ha programmato in modo tale che non si apriranno solo le porte delle quattro basiliche romane, ma di tutte le cattedrali e le concattedrali e i santuari e le “chiese significative” del mondo: perché questa volta non si tratta di far entrare dei pellegrini a lucrare indulgenze, questa volta si tratta di far entrare la misericordia. E allora il popolo cristiano, il popolo non solo dei devoti, ma il popolo dei credenti, dovrebbe far sì che si aprano non solo le porte delle chiese, ma anche delle case, e anche dei cuori, al di là ormai della divisione del mondo tra sacro e secolare, tra religioso e laico, che non è cosa cristiana.

Fede e modernità fino al Concilio

Nella citazione delle tappe di questo percorso che va dal Concilio all’Anno Santo, si sarà notato che c’è una parola, c’è un motivo che ricorre in tutte, e questa parola è “gaudium”, questo motivo è la gioia: Gaudet Mater Ecclesia, Gaudium et Spes, Evangelii Gaudium. Ma di quale gioia si tratta? Qual era la gioia che allora il Concilio perseguiva, e qual è la gioia riservata al domani?
La gioia che perseguiva il Concilio, e per la quale Giovanni XXIII l’aveva convocato in un tempo di angoscia e di lutto (angor et luctus) era la gioia di poter tornare a credere.
Perché questa gioia il mondo, almeno in Occidente, l’aveva perduta. Ma essa non tornò dopo il Concilio, e anzi proprio dopo il Concilio questa perdita della fede apparve più drammatica.
Quindici anni dopo la conclusione del Concilio, in un libro del 1980 un grande filosofo cristiano, Italo Mancini, poneva la domanda cruciale: come continuare a credere? [6]
Si era in piena secolarizzazione e la diagnosi che egli faceva era che data la cultura e la situazione del tempo, era quasi impossibile credere.
Dobbiamo chiederci che cosa era successo per giungere a tanto. Era successo che era venuta a compimento un’epoca storica nella quale le Chiese avevano cercato di mettere il mondo sotto il sequestro del sacro, e il mondo aveva reagito mettendo Dio tra parentesi e facendo a meno di lui.
È stato questo lo scontro della Chiesa con la modernità, cominciato, come ha ricordato lo stesso Benedetto XVI, col processo a Galilei. Facendo un bilancio del Concilio, il 22 dicembre 2005, papa Ratzinger aveva detto infatti che il rapporto della Chiesa con la modernità si era rotto su tre fronti: quello tra la Chiesa e le scienze moderne, quello tra la Chiesa e lo Stato moderno, quello tra la fede cristiana e la pluralità delle religioni del mondo, e dunque tra verità e libertà religiosa, tra obbedienza e libertà[7].
In forza di questi conflitti era accaduto che mentre l’umanità era entrata in un’ “epoca nuova”, come la definiva Bertolt Brecht nella sua “Vita di Galileo”, la Chiesa e il Dio nel cui nome essa parlava si erano messi di traverso, come se il Vangelo, la fede, Dio fossero un impedimento, un’interdizione, per gli sforzi dell’uomo che costruiva un mondo diverso, più suo. Né il Dio della cristianità arrecava la pace, e anzi non impediva la guerra tra gli stessi principi cristiani.
Ma la modernità non accettò di essere fermata. Non si poteva arrestare lo sviluppo storico. Scienza, politica, diritto, pluralismo e libertà umana dovevano andare avanti. E se c’era un Dio che lo impediva, quello doveva essere un Dio frainteso, un Dio sbagliato.
Così furono uomini cristianissimi, educati dalle Chiese, imbevuti del Vangelo, spesso addirittura preti e pastori, a cominciare dal calvinista olandese Ugo Grozio, che trovarono la soluzione; e questa fu la scelta di andare avanti a costruire la storia “come se Dio non ci fosse”: anche nella blasfema ipotesi - come scrisse Grozio nel suo “De iure belli ac pacis” nel 1625 – “che Dio non ci fosse o non si occupasse dell’umanità”. E questa fu la formula della laicità che dura tuttora, e che governa la nostra cultura: un’ipotesi, data come una finzione e considerata infondata da coloro stessi che l’avevano proposta, eppure efficace.
Così Dio fu esiliato, anche se il Dio esiliato era in realtà un Dio artefatto, non credibile, e travisato per come veniva presentato dalle Chiese; un Dio che peraltro si faceva esiliare, perché è un Dio discreto, un Dio che si offre ma non si impone, non è invadente, che poi è la ragione per cui papa Francesco dice che “l’ingerenza spirituale nella  vita personale non è possibile”[8]. E durante il lungo rifiuto cattolico della modernità, dal processo a Galileo al Sillabo, al non expedit, alla scomunica ai comunisti, alla Humanae vitae, prima se ne andarono gli scienziati, poi se ne andarono i giuristi, poi se ne andarono gli operai (e il cardinale Suhard scriveva a Parigi: “Agonia della Chiesa?”), poi se ne andarono le donne e infine se ne sono andati i giovani, che oggi non si sposano più, non battezzano i figli, non leggono la Bibbia, non hanno la fede tra i loro problemi e molti non sospettano più nemmeno l’esistenza di culture religiose, Insomma, come scriveva Mancini citando Nietzsche da “La gaia scienza”, abbiamo vuotato il mare, oscurato il cielo, strusciato via l’orizzonte, gridato con il folle “Dio è morto”[9].
Eppure venivamo da un tempo in cui si erano agitate grandi speranze che avevano fatto intravedere l’epoca nuova, ma poi queste speranze erano andate deluse. Mancini citava le speranze suscitate dal marxismo, quando sul finire dell’ottocento gli operai tedeschi si empivano il petto con il canto proletario: “Muove con noi l’epoca nuova”. Poi ricordava le speranze che avevano accompagnato l’epopea partigiana, e poi quelle che avevano salutato la fondazione della Repubblica con l’Assemblea Costituente, poi ricordava il Concilio[10].
Ma tutte quelle speranze erano sfiorite. Anche quelle suscitate dal Concilio, forse perché esso aveva subito una torsione rispetto all’intenzione con cui Giovanni XXIII l’aveva convocato, e non era stato recepito come un nuovo grande discorso sulla fede, ma come un nuovo grande discorso sulla Chiesa.
Capire ciò che il Concilio è stato

Può darsi infatti che il Concilio non sia stato capito, forse non sia stato capito durante lo stesso suo svolgimento, quando si equivocò sul “fine pastorale” del Concilio, e non si comprese che quando Giovanni XXIII lo aveva invitato a reinvestigare e ripresentare il tesoro della fede in quel modo che i nostri tempi richiedono, “ea ratione quam tempora postulant nostra”, voleva dire che era proprio il discorso su Dio, era proprio il messaggio fondamentale del vangelo, più che lo statuto della Chiesa, che andava riproposto all’uomo della modernità.
Perciò è necessario ora capire meglio il Concilio. Perciò non possiamo limitarci a ricordare quello che allora era stato capito da quelli che hanno fatto il Concilio, da quelli che l’hanno raccontato, da quelli che hanno iniziato a farne la storia; e tanto meno possiamo contentarci di ciò che hanno detto quelli che in seguito si sono divisi nell’interpretazione del Concilio, da Paolo VI che parlò del “fumo di Satana” che dopo il Concilio “da qualche fessura era entrato nel tempio di Dio”[11], a mons. Marchetto, il demolitore della cosiddetta “scuola di Bologna”, a Benedetto XVI che pativa il dopo-Concilio come “una battaglia navale nel buio della tempesta”, simile a quella che secondo san Basilio era avvenuta dopo il concilio di Nicea nella quale addirittura si era falsata “la retta dottrina della fede”[12] . Dobbiamo capire ora quello che non si era capito allora.
Del resto capire “dopo”, capire in progress è una caratteristica fondamentale dell’esperienza di fede. C’è un punto cruciale del Vangelo di Giovanni in cui Gesù parla di una comprensione differita. Gesù dice che quello che sul momento non capiamo, dopo lo capiremo. E lo dice a Pietro, dopo la lavanda dei piedi: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo" (Giov. 13, 7). È interessante, ai fini del discorso che stiamo facendo, il fatto che quello che sulle prime Pietro non capisce non è una parola di Gesù, cioè qualche cosa che ha a che fare con un concetto, con un discorso sulla fede, con una teologia;  quello che Pietro nel cenacolo non capisce è un atto di Gesù, è un fare di Gesù, il cingersi i fianchi, il piegarsi, l’inginocchiarsi ai piedi dell’altro, lavargli i piedi. Cioè non capisce un atto di misericordia. Magari ha capito qualche parola di Dio, non ha capito la misericordia di Dio. E siccome quello che noi oggi dobbiamo capire del Concilio e del pontificato e della Chiesa è come si va verso il regno di misericordia, è appropriato che noi ci riferiamo a questo episodio del Vangelo, e che ci attendiamo che Pietro, e la Chiesa, quella misericordia che non hanno compreso e non hanno praticato ieri, la comprendano e la facciano diventare la realtà di domani.

Dio e l’uomo del Concilio

Dunque prima di tutto, dobbiamo tornare a interrogare e a capire il Concilio a partire dalla sua misericordia. Papa Giovanni aveva detto nel suo discorso programmatico dell’11 ottobre, non a caso citato da Francesco nella Misericordiae vultus: “Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”. Perché Giovanni nel 1962 dice questo? Perché quello che deve fare la Chiesa in quel Concilio è di interpretare il momento storico, non ripetendo dottrine ben note e nemmeno rinnovando condanne, ma leggendo i segni dei tempi. Ed è interessante che qui papa Giovanni contrapponga la misericordia al rigore, alla severità. Non voleva dire papa Giovanni che tra misericordia e rigore, l’una cosa valesse l’altra. Non è un optional per la Chiesa essere misericordiosa o dura di cuore. Le due cose non sono uguali. Una è giusta e l’altra è sbagliata. Ma se la Chiesa nel mondo è figura del Padre, l’essere della Chiesa misericordiosa o dura di cuore vuol dire proporre un Dio misericordioso o duro di cuore.
Il Concilio, già lui, prima di papa Francesco, ha proposto un Dio della misericordia. Un Dio non vendicativo, non violento, che non deve essere placato, che non caccia nessun uomo o donna lontano da sé, nemmeno dopo la caduta, ma che senza interruzione non smette di amarli e di provvedere a loro gli aiuti necessari alla salvezza. E se nuovo era questo Dio, anche rispetto al Dio allora tramandato nelle collette dell’Ordinario romano e nel catechismo, nuovo era anche l’uomo, libero nella sua coscienza, libero di cercare la verità senza costrizioni, messo da  Dio in mano al suo consiglio.
L’antropologia del Concilio ritiene l’uomo capace di essere responsabile della sua storia, di costruire strade di giustizia e di pace sulla terra,  di aprire varchi attraverso cui, per dirla con Walter Benjamin, possa entrare il messia. Senza cadere nell’accusa di pelagianesimo, senza cedere al pessimismo antropologico della “massa dannata”, la Gaudium et Spes fa sua “la convinzione che l'umanità non solo può e deve sempre più rafforzare il suo dominio sul creato, ma che le compete inoltre instaurare un ordine politico, sociale ed economico che sempre più e meglio serva l'uomo e aiuti i singoli e i gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità” (Gaudium et Spes, n. 9); inoltre la Costituzione pastorale dice con tranquilla coscienza che “quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde alle intenzioni di Dio” (n. 34).
Dunque non c’è nessun prometeismo condannato dal Concilio. Al contrario l’uomo viene considerato capace di perseguire il bene e di governare i processi. Perciò l’uomo può riuscire a istituire ordinamenti di giustizia, a promulgare Costituzioni, ad attuare il diritto e costruire la pace. Secondo il Concilio Dio si fida dell’uomo e l’uomo può farcela.  Un ottimismo che non ha la sua origine in un’analisi sociologica, ma in un’antropologia cristologica, che culmina nell’affermazione della Gaudium et Spes secondo la quale “con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Dove “ogni uomo” vuol dire non solamente i cristiani, ma “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (G.S. n. 22), In questo processo l’opera di Dio e l’operazione umana sono congiunte. E questo è anche il messaggio di papa Francesco, questa è la ragione che egli dà alla speranza, che non è solo l’attesa che qualcosa accada, ma è anche la lotta per farla accadere. 

 Cinquant’anni dopo, progetto misericordia

Questa riproposizione di Dio e dell’uomo nella forma che i nostri tempi richiedono, è stato il grande atto di misericordia del Concilio. Misericordia, per il Concilio, voleva dire restituire al mondo Dio, al di là dei travisamenti e dei fraintendimenti in cui era stato occultato, restituire all’umanità “il volto taciuto di Dio”(per riprendere un’espressione del cardinale Kasper) e voleva dire restituire l’uomo come la creatura più preziosa, e non ripudiata, uscita dalle mani di Dio; e perciò significava dare la gioia di poter tornare a credere.
Però, dopo il Concilio, non è valorizzata la novità dell’annuncio, e nemmeno riesce la riforma della Chiesa, per la buona ragione che senza una riforma del papato la riforma della Chiesa non si può fare.
Ed ecco che Francesco riapre il processo. Comincia da se stesso, cioè dal papato, la riforma della Chiesa, perché, dice nella Evangelii Gaudium, “dal momento che sono chiamato a vive­re quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato” (n. 32), e riapre la questione di Dio, che la modernità aveva chiuso,  proponendo la misericordia e annunciandone il regno.
La misericordia non è l’accomodamento, il buonismo, “tutto va bene”, “vedi come si amano”, “non ti preoccupare, tanto Dio perdona sempre”. Non è così, la misericordia è un segno di contraddizione, comporta la croce, e deve passare attraverso una porta stretta; perciò le porte sante attraverso cui dovrà passare la misericordia devono allargarsi, come dice il Salmo 24:

Alzate o porte la vostra fronte
                                                   Alzatevi soglie antiche
                                                   Ed entri il re della gloria.

Per poter usare misericordia mons. Romero ha dovuto ampliare le proprie vedute, convertirsi ed affrontare la contraddizione, non solo col governo del suo Paese, ma anche con la sua Chiesa. E ora il papa Francesco, nella lettera per la beatificazione, riconosce dov’è stata la sua santità: “Dio ha concesso al vescovo martire la capacità di vedere e di udire la sofferenza del suo popolo e ha plasmato il suo cuore affinché lo orientasse e lo illuminasse fino a fare del suo agire un esercizio pieno di carità cristiana”.
Dunque per esercitare la misericordia bisogna vedere, udire, aprire il cuore e operare con carità.

La contraddizione alla misericordia

Operare con carità vuol dire però affrontare la contraddizione. E qui c’è un nuovo problema: qual è la contraddizione? Ciò che è in contraddizione con la misericordia non è la spietatezza. Hannah Arendt assistendo al processo ad Eichmann non ha trovato la spietatezza, ma la “banalità del male”. Se la contraddizione alla misericordia fossero la crudeltà e la spietatezza, la misericordia non sarebbe così rara, perché non tutti sono crudeli o spietati. Invece la contraddizione alla misericordia è la durezza di cuore, e questa è assai diffusa.
È molto significativo che il contenuto della promessa messianica, sia in Ezechiele che in Geremia, consista nel fatto che Dio toglierà il cuore di pietra e darà un cuore di carne (Ez. 36, 26). “Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne” (Ez, 1, 19). “Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova… Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore… Io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger. 31, 31-34). È chiaro che questo ideale messianico – misericordia invece di durezza di cuore -  è per la terra, perché i cuori abitano la terra.   
C’è un’omelia a Santa Marta del 9 gennaio 2015 in cui papa Francesco ha parlato del cuore indurito e delle cause per cui il cuore si indurisce. Una causa è l’aver patito un’esperienza di dolore e aver paura di ripeterla. C’è un proverbio argentino che dice che se uno si scotta con il latte quando vede la mucca piange. Ma poi c’è una durezza di cuore che è direttamente riferita alla legge. Essa, dice il papa,  è tipica della gente “che è tanto attaccata alla lettera della legge”. Accadeva con i Farisei, con i Sadducei, con i dottori della legge del tempo di Gesù, i quali obiettavano: “Ma la legge dice questo, ma dice questo fino a qui…” e così ”facevano un altro comandamento”; alla fine, “poverini, si addossavano 300-400 comandamenti e si sentivano sicuri”. In realtà tutti questi “sono persone sicure, ma come è sicuro un uomo o una donna nella cella di un carcere dietro la grata; è una sicurezza senza libertà”.
Dunque la durezza di cuore produce la legge e toglie la libertà. Perciò la contraddizione alla misericordia è la legge. La contraddizione alla misericordia per Eichmann era eseguire gli ordini, obbedire alla legge. La contraddizione alla misericordia verso i profughi del Mediterraneo non sono gli scafisti che la Mogherini e Renzi vogliono bombardare, la contraddizione alla misericordia verso i profughi è la legge di Dublino, sono gli accordi di Schengen, sono i trattati europei, sono le leggi dell’esclusione, sono le leggi di cittadinanza che creano l’ultima discriminazione sancita dal diritto.

La contraddizione della legge

 La durezza di cuore o il cuore di pietra non sono di per sé una perversione dell’uomo, sono la condizione dell’uomo allo stato di natura, come se Dio non ci fosse e come se la cultura non fosse cominciata. Ora la legge imbriglia lo stato di natura ed è in alternativa al caos, al regno della giungla, all’uccidibilità generalizzata. La legge,  pertanto dà sicurezza (è così, secondo Hobbes, che nasce lo Stato), ma è la sicurezza dentro una cella, dietro a una grata..Certamente la legge può crescere nella direzione di un cuore sempre meno duro. C’è un progresso del diritto, anzi proprio questo è il vanto dell’Occidente. Le Costituzioni sono strumenti sul cammino che dalla durezza di cuore va alla misericordia. Una delle glorie della Costituzione italiana è di essere una stazione sulla via della misericordia, senza per questo cessare di essere laica (basterebbe l’art.3 a dimostrarlo). Perciò Mattarella, nell’udienza in Vaticano, ha accusato ricevuta dell’invito del papa a un Giubileo di misericordia.
Quanto alla guerra, essa è più che una contraddizione alla misericordia, è una follia. La vera contraddizione alla misericordia è la legge di guerra, è lo ius ad bellum, è lo ius in bello, sono i codici penali militari di guerra, ma anche le leggi umanitarie di guerra, le convenzioni di Ginevra che cercano di fare lo sconto alla guerra senza riuscirci. L’unica legge che sarebbe secondo misericordia sarebbe lo ius contra bellum, di recente invocato  dal cardinale di Stato Parolin,
Ma la vera alternativa alla durezza di cuore originaria è la misericordia che va oltre la legge e anche sostituisce e riduce a nulla la legge.
La contraddizione tra la misericordia e la legge è al cuore del messaggio cristiano, cioè del Vangelo. La discontinuità cristiana portata da Gesù è nel superamento della legge mosaica, cioè precisamente nel superamento del regime determinato dalla durezza di cuore e nell’instaurazione del regime della misericordia. E’ molto chiaro ai cristiani dei primi secoli che la legge di Mosè è stata data per la durezza del cuore. Lo scrive l’apologeta Giustino, a metà del secondo secolo, quando nella Chiesa si fissano i Vangeli, che “le norme mosaiche sappiamo essere state date per la durezza del cuore del popolo” (Dialogo con Trifone, 47, 1); ed esplicitamente anche Gesù, a proposito del ripudio, imputa la legge alla durezza di cuore.  Ma già nell’Antico Testamento c’è la contraddizione tra misericordia e legge. I sacrifici appartengono all’ordine della legge, sono minuziosamente regolati dalla legge, sono per così dire il salario della legge, il prezzo della legge. Ma Dio dice: misericordia io voglio e non sacrifici, soccorrete piuttosto la vedova, l’orfano, fate giustizia. La novità di Gesù, resa poi universale da Paolo, è che i sacrifici non giustificano, la misericordia giustifica: la vedova che dà l’obolo, il peccatore in fondo alla Chiesa sono giustificati, il giovane ricco che osserva la legge ma se ne va triste perché ha molti beni non è giustificato.
La misericordia giustifica: avevo sete, avevo fame, ero nudo, mi avete dato da bere, mi avete nutrito, mi avete vestito. Questo è l’annunzio del tempo messianico. Il pontificato di Francesco si pone su una linea messianica quando riprende e porta avanti la contraddizione tra la misericordia e la legge, e fa conto per toglierla sulla sofferenza e sulla lotta dei poveri. .
Allora qual è il compito che ricade su noi discepoli, se non vogliamo procedere in ordine sparso ma, come vorrebbe “Koinonia” a Pistoia, costruire “un progetto complessivo di Chiesa”? Si tratta di costruire questa Chiesa della misericordia, Non una Chiesa che si scioglie come il sangue di san Gennaro, non una Chiesa che per liberarsi dei sovraccarichi religiosi rischia un platonismo senza incarnazione. Ma quella Chiesa che sta scritta nelle pagine dell’ Evangelii Gaudium che traduce fino ai dettagli più concreti la Chiesa definita dal Concilio come segno e strumento del Regno.
Per costruire questa Chiesa di domani occorre assumerne la contraddizione principale, ricordando che il gesto definitivo della misericordia è stato di inchiodare il chirografo della legge, che ci era avverso, al legno della croce (Col.2, 14). Perciò possiamo chiamare questo regno il regno della misericordia, e annunziare che questo regno è vicino (Mt. 10, 7). E poiché a contraddirlo è la legge, il gesto politico decisivo per affrettarlo è l’obiezione di coscienza, a cominciare dall’obiezione del papa all’economia che uccide.
Questa obiezione di coscienza può essere esercitata legittimamente anche nei confronti della legge della Chiesa. Ammesso, ad esempio, che la Humanae vitae sia una legge della Chiesa, c’è un’obiezione di coscienza di massa, un vero segno dei tempi, che l’ha fatta cadere.
Allo stesso modo può darsi un’obiezione di coscienza a una legge che ancora escludesse tutti i cristiani passati a seconde nozze dall’eucarestia. Questo è un terreno su cui è facile che la durezza di cuore cristallizzata in una legge si opponga alla misericordia. Gesù stesso lo rilevò, criticando la legge sul ripudio che Mosè aveva concesso ai mariti a causa della durezza del loro cuore. Ma non potrebbe anche l’indissolubilità del matrimonio a qualsiasi costo, irrigidita in una legge inoppugnabile, veicolare una durezza di cuore impietosa, ed essere contro la misericordia? Non si può rimediare a una durezza di cuore con un’altra durezza di cuore.
È importante che di queste questioni si discuta ormai nella Chiesa in modo sinodale, con un inizio di coinvolgimento anche dei semplici fedeli. È questa la ragione per cui nell’ultimo incontro di Roma di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” si è pensato di promuovere un Sinodo o più Sinodi di discepoli, per concorrere a costruire la Chiesa e il Regno della misericordia.
Ebbene, se si prende sul serio l’alternativa della misericordia e si porta la dialettica tra legge e misericordia fin dentro i sacri canoni, senza negare il ruolo e la bontà di quelli che accudiscono alla manutenzione della legge e dei canoni, il nostro posto e il nostro carisma di discepoli è quello di stare dalla parte della misericordia.

                                                                                                          Raniero La Valle  
Merry la Vallée, Pentecoste, 24 maggio 2015



[1] Raniero La Valle, Chi sono io Francesco? Cronache di cose mai viste, Ponte alle Grazie, 2015, Milano.
[2] Lo ricorda Giuseppe Ruggieri nel suo recente  “Della fede”, Carocci Editore, 2014, p. 69-70.
[3] Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, appena salito al pontificato.
[4] La Civiltà cattolica, 19 settembre 2013.
[5] Misericordiae vultus, n. 4.
[6] Italo Mancini, Come continuare a credere, Rusconi, Milano, 1980.
[7] Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana, cit.
[8]  La Civiltà Cattolica, cit.
[9]  Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125.
[10] Italo Mancini, cit., pp.22-25.
[11] Paolo VI, Omelia per S. Pietro e Paolo, 29 giugno 1972.
[12] Benedetto XVI, Discorso alla Curia, cit.

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