DAL CONCILIO ALLA
CHIESA DI FRANCESCO
Pubblichiamo il testo della relazione tenuta
da Raniero La Valle
il 6 giugno 2015 al Convento San Domenico di Pistoia per il ciclo di incontri
di Koinonia–forum.
Per un
giudizio globale dell’attuale pontificato fino a questo momento, mi pare si
possa dire, sviluppando l’analisi già avviata nel libro: “Chi sono io Francesco?”[1], che
papa Francesco ha fatto una scelta strategica, di cui ci sono tre indizi (e tre
indizi bastano a fare una prova).
Il primo è la
scelta del nome di Francesco, che egli ha adottato durante il Conclave per
rispondere alla raccomandazione del cardinale Hummes: “Ricordati dei poveri”,
ma che poi egli ha spiegato associando il nome di Francesco d’Assisi a una
opzione di evangelismo puro.
Il secondo è
la scelta di abitare a Santa Marta, il che vuol dire celebrare ogni mattina la
messa non in segreto a palazzo, ma col popolo in una vera assemblea, e a questa
assemblea ogni giorno, per sette giorni alla settimana e 365 giorni all’anno
aprire il Vangelo e commentarlo, dichiarando perciò continuamente i criteri che
determinano la sua quotidiana azione pontificale.
Il terzo è la Evangelii Gaudium , che è una sorta di Regola
della Chiesa universale in cui il Vangelo è assunto come ragione del suo
esistere e della sua missione.
La scelta
strategica, svelata da questi tre indizi, è quella di tornare ai nastri di
partenza, di tornare cioè a Gesù e al
suo annuncio, cioè al suo Vangelo, che precede la Chiesa e dice a tutti gli
uomini che il Regno è vicino. Ciò vuol dire che il contenuto proprio dell’annuncio è il
Regno, non la Chiesa; Se l’esegeta cattolico Alfred Loisy diceva icasticamente
nel suo libretto “L’Evangile et l’Eglise”,
nel 1902, “Gesù annunciava il regno ed è la Chiesa che è venuta”[2], papa
Francesco prova a rifare il cammino. Gesù annuncia il regno e dunque il
problema anche oggi per chi lo segue è quello del regno. La Chiesa visibile ne
è “il segno e lo strumento”, non è la realtà del regno (perciò può essere
paragonata a un ospedale da campo). E se la caratteristica del regno è di
essere già e non ancora, la Chiesa visibile non è questo già; il già è quel tanto del regno che è già presente nel mondo ed
è svelato dai “segni dei tempi”; dunque, ad esempio, per stare ai segni dei
tempi della “Pacem in terris” il
“già” del regno sono i lavoratori che si emancipano, le donne che acquistano
dignità di persone, i popoli che si liberano, il diritto che si instaura, le
Costituzioni che presidiano i diritti fondamentali degli esseri umani, l’ONU
che realizza in germe una comunità di popoli, e la guerra che dagli uomini
stessi viene bollata come “aliena dalla
ragione”. I segni avversi che indicano l’assenza o l’allontanarsi del regno
sono per contro, secondo la lettura di papa Francesco, la società
dell’esclusione, l’umanità scartata, l’economia che uccide, il denaro che
governa invece di servire, il lavoro alienato e precario, i giovani disoccupati
e così via.
La Chiesa è quella che aiuta a decifrare i segni del
tempo e contribuisce a mettere in opera quelle realtà che giungano a farsi
segno del regno, quelle realtà che siano leggibili come anticipazioni, avvio,
“anteprima di stampa” del regno.
Se dunque il
pontificato di papa Francesco si pone, seguendo Gesù, l’obiettivo dell’annuncio
e della venuta del regno, vuol dire che la categoria interpretativa del
pontificato non è quella della riforma ecclesiastica, non è quella della
dottrina sociale, non è neanche solo della profezia, ma è la categoria messianica,
cioè la rassicurazione che il regno c’è, viene, ed è vicino. Vedremo poi in che
cosa si concentra questo annunzio messianico del regno, e come la parola che lo
compendia e che lo esprime sia la misericordia, sicché il nome stesso di questo
regno, che nella rappresentazione delle antiche culture spaziali ben si poteva
definire come il “regno dei cieli”, può essere oggi quello di “regno di
misericordia”; e perciò, se Dio come incessantemente dice Francesco è
misericordia, è sinonimo di “regno di Dio”.
Mi sembra che
stia qui la vera novità di questo pontificato. Ma papa Francesco non potrebbe
interpretarla in solitudine, senza esprimere la continuità di una storia, di
una tradizione che è di tutta la
Chiesa. E qui allora si deve stabilire il rapporto tra papa
Francesco e il Concilio Vaticano II, che di questo pontificato è la vera genesi
e l’indimenticabile precedente. Si può anzi dire che il pontificato di
Francesco richiama e completa il Concilio, anche in ciò che il Concilio non è
stato, o non è riuscito a produrre.
Concilio e papa Francesco: un solo evento
Pertanto il
criterio ermeneutico da assumere per intendere questo pontificato è riconoscere
che Concilio e papa Francesco non sono due eventi a distanza di cinquanta anni
l’uno dall’altro, ma sono un unico evento.
Interpretarli
in questo modo non è fare una scelta neutrale. Infatti vuol dire individuare
una traiettoria che partendo dal Concilio e passando attraverso il pontificato
di Francesco dovrebbe andare a finire in una Chiesa nuova, una Chiesa della
misericordia, veicolo di una misericordia che non è solo per i cieli, ma “in terris”. Insomma il Vangelo che
ritorna. Questa è la tesi o, se si vuole, il sogno espresso in queste pagine.
L’unità tra
Concilio e papa Francesco risulta da gesti e parole del papa stesso. L’ultimo
gesto è stata la beatificazione, il 23 maggio scorso, di mons. Romero nella sua
cattedrale di San Salvador, con sei cardinali, cento vescovi, quattro
presidenti dell’America Latina e 260.000 persone: una vera e propria riabilitazione
di un vescovo conciliare abbandonato da Roma in vita e poi a lungo occultato
nella Chiesa. Il primo gesto fu invece il 27 aprile 2014 la canonizzazione di
Giovanni XXIII, senza bisogno di alcun ulteriore miracolo se non quello di aver
convocato il Concilio.
Quanto alle
parole fanno fede quelle con cui fin dall’inizio papa Francesco si è richiamato
al Concilio, letto però non come un’operazione di riforma ecclesiastica ma come
un annuncio “aggiornato” del Vangelo (“aggiornamento” era la parola usata da
papa Giovanni). Così infatti papa Francesco ha interpretato il Concilio quando ha
detto nell’intervista alla Civiltà
Cattolica: «Il Vaticano II è
stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha
prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso
Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro
della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del
Vangelo a partire da una situazione
storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di
discontinuità”- (e qui l’allusione era alle riserve avanzate da Benedetto XVI)[3] –
“tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata
nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”[4]. E
così papa Francesco continua il Concilio quando dice nella Misericordiae vultus, che con il Vaticano II “iniziava per la
Chiesa un nuovo percorso della sua storia: i
Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello
Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più
comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la
Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il
Vangelo in modo nuovo”[5].
Dal Concilio
alla Bolla di indizione dell’Anno Santo, è dunque il papa stesso che identifica
un processo che è in corso nella Chiesa. Esso è cominciato l’11 settembre 1962,
un mese prima del Concilio, con il discorso di papa Giovanni sulla Chiesa di tutti e
specialmente Chiesa dei poveri, è continuato con il suo discorso d’inizio dell’11
ottobre Gaudet Mater Ecclesia, è
giunto con la Gaudium et Spes al
giorno della chiusura del Concilio dell’8 dicembre 1965 e infine, dopo una
traversata nel deserto (durata dieci anni in più dei quaranta regolamentari)
attraverso la Evangelii Gaudium di
papa Francesco va verso l’appuntamento dell’8 dicembre 2015, quando si
apriranno le porte sante del Giubileo.
La prossima
tappa di questo percorso è l’Anno Santo. E qui le cose si fanno difficili
perché non parliamo di cose già avvenute, ma che devono avvenire. Come saranno?
È chiaro che qui si apre la grande alternativa: perché o il Giubileo sarà il
solito Giubileo gestito come un’Expo ecclesiastica, e allora non avrebbe molto
significato, o il Giubileo può essere lo snodo attraverso cui l’evento Concilio-papa Francesco potrebbe
prolungarsi nella vita futura della Chiesa, e si uscirebbe verso la Chiesa
della misericordia.
Io propendo
per questa seconda ipotesi. E che sia proprio questa l’intenzione con cui è
stato indetto il Giubileo è avvalorato dal fatto che il papa lo ha programmato
in modo tale che non si apriranno solo le porte delle quattro basiliche romane,
ma di tutte le cattedrali e le concattedrali e i santuari e le “chiese
significative” del mondo: perché questa volta non si tratta di far entrare dei
pellegrini a lucrare indulgenze, questa volta si tratta di far entrare la misericordia. E allora
il popolo cristiano ,
il popolo non solo dei devoti, ma il popolo dei credenti, dovrebbe far sì che
si aprano non solo le porte delle chiese, ma anche delle case, e anche dei
cuori, al di là ormai della divisione del mondo tra sacro e secolare, tra
religioso e laico, che non è cosa cristiana.
Fede e modernità fino al Concilio
Nella
citazione delle tappe di questo percorso che va dal Concilio all’Anno Santo, si
sarà notato che c’è una parola, c’è un motivo che ricorre in tutte, e questa parola
è “gaudium”, questo motivo è la gioia:
Gaudet Mater Ecclesia, Gaudium et Spes, Evangelii Gaudium. Ma di quale gioia si tratta? Qual era la gioia
che allora il Concilio perseguiva, e qual è la gioia riservata al domani?
La gioia che
perseguiva il Concilio, e per la quale Giovanni
XXIII l’aveva convocato in un tempo di angoscia e di lutto (angor et luctus) era la gioia di poter
tornare a credere.
Perché questa
gioia il mondo, almeno in Occidente, l’aveva perduta. Ma essa non tornò dopo il
Concilio, e anzi proprio dopo il Concilio questa perdita della fede apparve più
drammatica.
Quindici anni
dopo la conclusione del Concilio, in un libro del 1980 un grande filosofo
cristiano, Italo Mancini, poneva la domanda cruciale: come continuare a
credere? [6]
Si era in
piena secolarizzazione e la diagnosi che egli faceva era che data la cultura e
la situazione del tempo, era quasi impossibile credere.
Dobbiamo
chiederci che cosa era successo per giungere a tanto. Era successo che era
venuta a compimento un’epoca storica nella quale le Chiese avevano cercato di
mettere il mondo sotto il sequestro del sacro, e il mondo aveva reagito
mettendo Dio tra parentesi e facendo a meno di lui.
È stato
questo lo scontro della Chiesa con la modernità, cominciato, come ha ricordato
lo stesso Benedetto XVI, col processo a Galilei. Facendo un bilancio del Concilio,
il 22 dicembre 2005, papa Ratzinger aveva detto infatti che il rapporto della
Chiesa con la modernità si era rotto su tre fronti: quello tra la Chiesa e le
scienze moderne, quello tra la Chiesa e lo Stato moderno, quello tra la fede
cristiana e la pluralità delle religioni del mondo, e dunque tra verità e
libertà religiosa, tra obbedienza e libertà[7].
In forza di
questi conflitti era accaduto che mentre l’umanità era entrata in un’ “epoca
nuova”, come la
definiva Bertolt Brecht nella sua “Vita di Galileo”, la Chiesa e il Dio nel cui nome essa parlava si
erano messi di traverso, come se il Vangelo, la fede, Dio fossero un
impedimento, un’interdizione, per gli sforzi dell’uomo che costruiva un mondo diverso,
più suo. Né il Dio della cristianità arrecava la pace, e anzi non impediva la
guerra tra gli stessi principi cristiani.
Ma la
modernità non accettò di essere fermata. Non si poteva arrestare lo sviluppo storico.
Scienza, politica, diritto, pluralismo e libertà umana dovevano andare avanti.
E se c’era un Dio che lo impediva, quello doveva essere un Dio frainteso, un
Dio sbagliato.
Così furono
uomini cristianissimi, educati dalle Chiese, imbevuti del Vangelo, spesso
addirittura preti e pastori, a cominciare dal calvinista olandese Ugo Grozio,
che trovarono la soluzione; e questa fu la scelta di andare avanti a costruire
la storia “come se Dio non ci fosse”: anche nella blasfema ipotesi - come
scrisse Grozio nel suo “De iure belli ac
pacis” nel 1625 – “che Dio non ci fosse o non si occupasse dell’umanità”. E
questa fu la formula della laicità che dura tuttora, e che governa la nostra
cultura: un’ipotesi, data come una finzione e considerata infondata da coloro
stessi che l’avevano proposta, eppure efficace.
Così Dio fu
esiliato, anche se il Dio esiliato era in realtà un Dio artefatto, non
credibile, e travisato per come veniva presentato dalle Chiese; un Dio che
peraltro si faceva esiliare, perché è un Dio discreto, un Dio che si offre ma
non si impone, non è invadente, che poi è la ragione per cui papa Francesco
dice che “l’ingerenza spirituale nella
vita personale non è possibile”[8]. E
durante il lungo rifiuto cattolico della modernità, dal processo a Galileo al
Sillabo, al non expedit, alla scomunica ai comunisti, alla Humanae vitae, prima se ne andarono gli
scienziati, poi se ne andarono i giuristi, poi se ne andarono gli operai (e il
cardinale Suhard scriveva a Parigi: “Agonia della Chiesa?”), poi se ne andarono
le donne e infine se ne sono andati i giovani, che oggi non si sposano più, non
battezzano i figli, non leggono la Bibbia, non hanno la fede tra i loro
problemi e molti non sospettano più nemmeno l’esistenza di culture religiose,
Insomma, come scriveva Mancini citando Nietzsche da “La gaia scienza”, abbiamo
vuotato il mare, oscurato il cielo, strusciato via l’orizzonte, gridato con il
folle “Dio è morto”[9].
Eppure
venivamo da un tempo in cui si erano agitate grandi speranze che avevano fatto
intravedere l’epoca nuova, ma poi queste speranze erano andate deluse. Mancini
citava le speranze suscitate dal marxismo, quando sul finire dell’ottocento gli
operai tedeschi si empivano il petto con il canto proletario: “Muove con noi
l’epoca nuova”. Poi ricordava le speranze che avevano accompagnato l’epopea
partigiana, e poi quelle che avevano salutato la fondazione della Repubblica
con l’Assemblea Costituente, poi ricordava il Concilio[10].
Ma tutte
quelle speranze erano sfiorite. Anche quelle suscitate dal Concilio, forse
perché esso aveva subito una torsione rispetto all’intenzione con cui Giovanni
XXIII l’aveva convocato, e non era stato recepito come un nuovo grande discorso
sulla fede, ma come un nuovo grande discorso sulla Chiesa.
Capire ciò che il Concilio è stato
Può darsi
infatti che il Concilio non sia stato capito, forse non sia stato capito durante
lo stesso suo svolgimento, quando si equivocò sul “fine pastorale” del
Concilio, e non si comprese che quando Giovanni XXIII lo aveva invitato a reinvestigare e ripresentare il tesoro
della fede in quel modo che i nostri tempi richiedono, “ea ratione quam tempora postulant nostra”, voleva dire che era
proprio il discorso su Dio, era proprio il messaggio fondamentale del vangelo,
più che lo statuto della Chiesa, che andava riproposto all’uomo della
modernità.
Perciò è
necessario ora capire meglio il Concilio. Perciò non possiamo limitarci a
ricordare quello che allora era stato capito da quelli che hanno fatto il Concilio, da quelli
che l’hanno raccontato, da quelli che hanno iniziato a farne la storia; e tanto
meno possiamo contentarci di ciò che hanno detto quelli che in seguito si sono
divisi nell’interpretazione del Concilio, da Paolo VI che parlò del “fumo di
Satana” che dopo il Concilio “da qualche fessura era entrato nel tempio di Dio”[11], a
mons. Marchetto, il demolitore della cosiddetta “scuola di Bologna”, a
Benedetto XVI che pativa il dopo-Concilio come “una
battaglia navale nel buio della tempesta”, simile a quella che secondo san
Basilio era avvenuta dopo il concilio di Nicea nella quale addirittura si era
falsata “la retta dottrina della fede”[12]
. Dobbiamo capire ora quello che non si era capito allora.
Del resto capire “dopo”, capire in progress è una caratteristica fondamentale dell’esperienza di
fede. C’è un punto cruciale del Vangelo di
Giovanni in cui Gesù parla di una comprensione differita. Gesù dice che quello
che sul momento non capiamo, dopo lo capiremo. E lo dice a Pietro , dopo la lavanda dei
piedi: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo"
(Giov. 13, 7). È interessante, ai
fini del discorso che stiamo facendo, il fatto che
quello che sulle prime Pietro non capisce non è una parola di Gesù, cioè
qualche cosa che ha a che fare con un concetto, con un discorso sulla fede, con
una teologia; quello che Pietro nel
cenacolo non capisce è un atto di Gesù, è un fare di Gesù, il cingersi i
fianchi, il piegarsi, l’inginocchiarsi ai piedi dell’altro, lavargli i piedi.
Cioè non capisce un atto di misericordia. Magari ha capito qualche parola di
Dio, non ha capito la misericordia di Dio. E siccome quello che noi oggi
dobbiamo capire del Concilio e del pontificato e della Chiesa è come si va
verso il regno di misericordia, è appropriato che noi ci riferiamo a questo
episodio del Vangelo, e che ci attendiamo che Pietro, e la Chiesa, quella
misericordia che non hanno compreso e non hanno praticato ieri, la comprendano
e la facciano diventare la realtà di domani.
Dio e l’uomo
del Concilio
Dunque prima di tutto, dobbiamo tornare a interrogare
e a capire il Concilio a partire dalla sua misericordia. Papa Giovanni aveva
detto nel suo discorso programmatico dell’11 ottobre, non a caso citato da
Francesco nella Misericordiae vultus:
“Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia
invece di imbracciare le armi del rigore”. Perché Giovanni nel 1962 dice
questo? Perché quello che deve fare la Chiesa in quel Concilio è di
interpretare il momento storico, non ripetendo
dottrine ben note e nemmeno rinnovando condanne, ma leggendo i segni dei tempi.
Ed è interessante che qui papa Giovanni contrapponga la misericordia al rigore,
alla severità. Non voleva dire papa Giovanni che tra misericordia e rigore,
l’una cosa valesse l’altra. Non è un optional
per la Chiesa essere misericordiosa o dura di cuore. Le due cose non sono
uguali. Una è giusta e l’altra è sbagliata. Ma se la Chiesa nel mondo è figura
del Padre, l’essere della Chiesa misericordiosa o dura di cuore vuol dire
proporre un Dio misericordioso o duro di cuore.
Il Concilio, già lui, prima di papa
Francesco, ha proposto un Dio della misericordia. Un Dio non vendicativo, non
violento, che non deve essere placato, che non caccia nessun uomo o donna
lontano da sé, nemmeno dopo la caduta, ma che senza interruzione non smette di
amarli e di provvedere a loro gli aiuti necessari alla salvezza. E se nuovo era
questo Dio, anche rispetto al Dio allora tramandato nelle collette
dell’Ordinario romano e nel catechismo, nuovo era anche l’uomo, libero nella
sua coscienza, libero di cercare la verità senza costrizioni, messo da Dio in mano al suo consiglio.
L’antropologia
del Concilio ritiene l’uomo capace di essere responsabile della sua storia, di
costruire strade di giustizia e di pace sulla terra, di aprire varchi attraverso cui, per dirla
con Walter Benjamin, possa entrare il messia. Senza cadere nell’accusa di
pelagianesimo, senza cedere al pessimismo antropologico della “massa dannata”,
la Gaudium et Spes fa sua “la
convinzione che l'umanità non solo può e deve sempre più rafforzare il suo
dominio sul creato, ma che le compete inoltre instaurare un ordine politico,
sociale ed economico che sempre più e meglio serva l'uomo e aiuti i singoli e i
gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità” (Gaudium et Spes, n. 9); inoltre la Costituzione pastorale dice con
tranquilla coscienza che “quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso
dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde
alle intenzioni di Dio” (n. 34).
Dunque non
c’è nessun prometeismo condannato dal Concilio. Al contrario l’uomo viene
considerato capace di perseguire il bene e di governare i processi. Perciò
l’uomo può riuscire a istituire ordinamenti di giustizia, a promulgare
Costituzioni, ad attuare il diritto e costruire la pace. Secondo il
Concilio Dio si fida dell’uomo e l’uomo può farcela. Un ottimismo che non ha la sua origine in
un’analisi sociologica, ma in un’antropologia cristologica, che culmina
nell’affermazione della Gaudium et Spes
secondo la quale “con l'incarnazione il Figlio di Dio
si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Dove “ogni uomo” vuol dire non
solamente i cristiani, ma “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora
invisibilmente la
grazia. Cristo , infatti, è morto per tutti e la vocazione
ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo
ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati,
nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (G.S. n. 22), In questo processo l’opera di Dio e
l’operazione umana sono congiunte. E questo è anche il messaggio di papa
Francesco, questa è la ragione che egli dà alla speranza, che non è solo
l’attesa che qualcosa accada, ma è anche la lotta per farla accadere.
Cinquant’anni dopo, progetto misericordia
Questa riproposizione di
Dio e dell’uomo nella forma che i nostri tempi richiedono, è stato il grande
atto di misericordia del Concilio. Misericordia,
per il Concilio, voleva dire restituire al mondo Dio, al di là dei travisamenti
e dei fraintendimenti in cui era stato occultato, restituire all’umanità “il
volto taciuto di Dio”(per riprendere un’espressione del cardinale Kasper ) e
voleva dire restituire l’uomo come la creatura più preziosa, e non ripudiata,
uscita dalle mani di Dio; e perciò significava dare la gioia di poter tornare a
credere.
Però, dopo il Concilio, non è valorizzata la novità
dell’annuncio, e nemmeno riesce la riforma della Chiesa, per la buona ragione
che senza una riforma del papato la riforma della Chiesa non si può fare.
Ed ecco che
Francesco riapre il processo. Comincia da se stesso, cioè dal papato, la
riforma della Chiesa, perché, dice nella Evangelii
Gaudium, “dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri,
devo anche pensare a una conversione del papato” (n. 32), e riapre la questione
di Dio, che la modernità aveva chiuso, proponendo la misericordia e annunciandone il
regno.
La
misericordia non è l’accomodamento, il buonismo, “tutto va bene”, “vedi come si
amano”, “non ti preoccupare, tanto Dio perdona sempre”. Non è così, la
misericordia è un segno di contraddizione, comporta la croce, e deve passare
attraverso una porta stretta; perciò le porte sante attraverso cui dovrà
passare la misericordia devono allargarsi, come dice il Salmo 24:
Alzate
o porte la vostra fronte
Alzatevi soglie antiche
Ed entri il re della
gloria.
Per poter
usare misericordia mons. Romero ha dovuto ampliare le proprie vedute,
convertirsi ed affrontare la contraddizione, non solo col governo del suo
Paese, ma anche con la sua
Chiesa. E ora il papa Francesco, nella lettera per la
beatificazione, riconosce dov’è stata la sua santità: “Dio ha concesso al
vescovo martire la capacità di vedere
e di udire la sofferenza del suo
popolo e ha plasmato il suo cuore affinché lo orientasse e lo illuminasse fino
a fare del suo agire un esercizio pieno di carità cristiana”.
Dunque per
esercitare la misericordia bisogna vedere, udire, aprire il cuore e operare con
carità.
La contraddizione alla misericordia
Operare con
carità vuol dire però affrontare la contraddizione. E
qui c’è un nuovo problema: qual è la contraddizione? Ciò che è in
contraddizione con la misericordia non è la spietatezza. Hannah
Arendt assistendo al processo ad Eichmann non ha trovato la
spietatezza, ma la “banalità del male”. Se la contraddizione alla misericordia
fossero la crudeltà e la spietatezza, la misericordia non sarebbe così rara,
perché non tutti sono crudeli o spietati. Invece la contraddizione alla
misericordia è la durezza di cuore, e questa è assai diffusa.
È molto
significativo che il contenuto della promessa messianica, sia in Ezechiele che
in Geremia, consista nel fatto che Dio toglierà il cuore di pietra e darà un
cuore di carne (Ez. 36, 26). “Darò
loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro
petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne” (Ez, 1, 19). “Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali
con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova…
Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore… Io perdonerò la
loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger. 31, 31-34). È chiaro che questo ideale messianico –
misericordia invece di durezza di cuore -
è per la terra, perché i cuori abitano la terra.
C’è un’omelia
a Santa Marta del 9 gennaio 2015
in cui papa Francesco ha parlato del cuore indurito e delle
cause per cui il cuore si indurisce. Una causa è l’aver patito un’esperienza di
dolore e aver paura di ripeterla. C’è un proverbio argentino che dice che se uno
si scotta con il latte quando vede la mucca piange. Ma poi c’è una durezza di
cuore che è direttamente riferita alla legge. Essa, dice il papa, è tipica della gente “che è tanto attaccata
alla lettera della legge”. Accadeva con i Farisei, con i Sadducei, con i
dottori della legge del tempo di Gesù, i quali obiettavano: “Ma la legge dice
questo, ma dice questo fino a qui…” e così ”facevano un altro comandamento”;
alla fine, “poverini, si addossavano 300-400 comandamenti e si sentivano
sicuri”. In realtà tutti questi “sono persone sicure, ma come è sicuro un uomo
o una donna nella cella
di un carcere dietro la grata; è una sicurezza senza libertà”.
Dunque la
durezza di cuore produce la legge e toglie la libertà. Perciò la
contraddizione alla misericordia è la legge. La contraddizione alla misericordia per
Eichmann era eseguire gli ordini, obbedire alla legge. La contraddizione alla
misericordia verso i profughi del Mediterraneo non sono gli scafisti che la
Mogherini e Renzi vogliono bombardare, la contraddizione alla misericordia
verso i profughi è la legge di Dublino, sono gli accordi di Schengen, sono i
trattati europei, sono le leggi dell’esclusione, sono le leggi di cittadinanza
che creano l’ultima discriminazione sancita dal diritto.
La contraddizione della legge
La durezza di cuore o il cuore di pietra non
sono di per sé una perversione dell’uomo, sono la condizione dell’uomo allo
stato di natura, come se Dio non ci fosse e come se la cultura non fosse
cominciata. Ora la legge imbriglia lo stato di natura ed è in alternativa al
caos, al regno della giungla, all’uccidibilità generalizzata. La legge, pertanto dà sicurezza (è così, secondo Hobbes,
che nasce lo Stato), ma è la sicurezza dentro una cella, dietro a una
grata..Certamente la legge può crescere nella direzione di un cuore sempre meno
duro. C’è un progresso del diritto, anzi proprio questo è il vanto
dell’Occidente. Le Costituzioni sono strumenti sul cammino che dalla durezza di
cuore va alla misericordia. Una delle glorie della Costituzione italiana è di
essere una stazione sulla via della misericordia, senza per questo cessare di
essere laica (basterebbe l’art.3 a dimostrarlo). Perciò Mattarella,
nell’udienza in Vaticano, ha accusato ricevuta dell’invito del papa a un
Giubileo di misericordia.
Quanto alla
guerra, essa è più che una contraddizione alla misericordia, è una follia. La
vera contraddizione alla misericordia è la legge di guerra, è lo ius ad bellum, è lo ius in bello, sono i codici penali militari di guerra, ma anche le
leggi umanitarie di guerra, le convenzioni di Ginevra che cercano di fare lo
sconto alla guerra senza riuscirci. L’unica legge che sarebbe secondo
misericordia sarebbe lo ius contra bellum,
di recente invocato dal cardinale di
Stato Parolin,
Ma la vera alternativa
alla durezza di cuore originaria è la misericordia che va oltre la legge e
anche sostituisce e riduce a nulla la legge.
La
contraddizione tra la misericordia e la legge è al cuore del messaggio
cristiano, cioè del Vangelo. La discontinuità cristiana portata da Gesù è nel
superamento della legge mosaica, cioè precisamente nel superamento del regime
determinato dalla durezza di cuore e nell’instaurazione del regime della
misericordia. E’ molto chiaro ai cristiani dei primi secoli che la legge di
Mosè è stata data per la durezza del cuore. Lo scrive l’apologeta Giustino, a
metà del secondo secolo, quando nella Chiesa si fissano i Vangeli, che “le
norme mosaiche sappiamo essere state date per la durezza del cuore del popolo”
(Dialogo con Trifone, 47, 1); ed
esplicitamente anche Gesù, a proposito del ripudio, imputa la legge alla
durezza di cuore. Ma già nell’Antico
Testamento c’è la contraddizione tra misericordia e legge. I sacrifici
appartengono all’ordine della legge, sono minuziosamente regolati dalla legge,
sono per così dire il salario della legge, il prezzo della legge. Ma Dio dice:
misericordia io voglio e non sacrifici, soccorrete piuttosto la vedova,
l’orfano, fate giustizia. La novità di Gesù, resa poi universale da Paolo, è
che i sacrifici non giustificano, la misericordia giustifica: la vedova che dà
l’obolo, il peccatore in fondo alla Chiesa sono giustificati, il giovane ricco
che osserva la legge ma se ne va triste perché ha molti beni non è
giustificato.
La
misericordia giustifica: avevo sete, avevo fame, ero nudo, mi avete dato da
bere, mi avete nutrito, mi avete vestito. Questo è l’annunzio del tempo
messianico. Il pontificato di Francesco si pone su una linea messianica quando
riprende e porta avanti la contraddizione tra la misericordia e la legge, e fa
conto per toglierla sulla sofferenza e sulla lotta dei poveri. .
Allora qual è
il compito che ricade su noi discepoli, se non vogliamo procedere in ordine
sparso ma, come vorrebbe “Koinonia” a
Pistoia, costruire “un progetto complessivo di Chiesa”? Si tratta di costruire questa
Chiesa della misericordia, Non una Chiesa che si scioglie come il sangue di san
Gennaro, non una Chiesa che per liberarsi dei sovraccarichi religiosi rischia
un platonismo senza incarnazione. Ma quella Chiesa che sta scritta nelle pagine
dell’ Evangelii Gaudium che traduce
fino ai dettagli più concreti la Chiesa definita dal Concilio come segno e
strumento del Regno.
Per costruire
questa Chiesa di domani occorre assumerne la contraddizione principale,
ricordando che il gesto definitivo della misericordia è stato di inchiodare il
chirografo della legge, che ci era avverso, al legno della croce (Col.2, 14). Perciò possiamo chiamare
questo regno il regno della misericordia, e annunziare che questo regno è
vicino (Mt. 10, 7). E poiché a
contraddirlo è la legge, il gesto politico decisivo per affrettarlo è
l’obiezione di coscienza, a cominciare dall’obiezione del papa all’economia che
uccide.
Questa
obiezione di coscienza può essere esercitata legittimamente anche nei confronti
della legge della Chiesa. Ammesso, ad esempio, che la Humanae vitae sia una legge della Chiesa, c’è un’obiezione di
coscienza di massa, un vero segno dei tempi, che l’ha fatta cadere.
Allo stesso
modo può darsi un’obiezione di coscienza a una legge che ancora escludesse tutti
i cristiani passati a seconde nozze dall’eucarestia. Questo è un terreno su cui
è facile che la durezza di cuore cristallizzata in una legge si opponga alla
misericordia. Gesù stesso lo rilevò, criticando la legge sul ripudio che Mosè
aveva concesso ai mariti a causa della durezza del loro cuore. Ma non potrebbe
anche l’indissolubilità del matrimonio a qualsiasi costo, irrigidita in una
legge inoppugnabile, veicolare una durezza di cuore impietosa, ed essere contro
la misericordia? Non si può rimediare a una durezza di cuore con un’altra
durezza di cuore.
È importante
che di queste questioni si discuta ormai nella Chiesa in modo sinodale, con un
inizio di coinvolgimento anche dei semplici fedeli. È questa la ragione per cui
nell’ultimo incontro di Roma di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” si è pensato di
promuovere un Sinodo o più Sinodi di discepoli, per concorrere a costruire la
Chiesa e il Regno della misericordia.
Ebbene, se si
prende sul serio l’alternativa della misericordia e si porta la dialettica tra
legge e misericordia fin dentro i sacri canoni, senza negare il ruolo e la
bontà di quelli che accudiscono alla manutenzione della legge e dei canoni, il
nostro posto e il nostro carisma di discepoli è quello di stare dalla parte
della misericordia.
Merry la Vallée, Pentecoste, 24 maggio 2015
[1] Raniero La Valle , Chi sono io Francesco? Cronache di cose mai
viste, Ponte alle Grazie, 2015, Milano.
[2] Lo ricorda Giuseppe Ruggieri nel
suo recente “Della fede”, Carocci
Editore, 2014, p. 69-70.
[3] Benedetto XVI, Discorso alla
Curia romana del 22 dicembre 2005, appena
salito al pontificato.
[4] La Civiltà cattolica, 19 settembre 2013.
[5] Misericordiae vultus, n. 4.
[6] Italo Mancini, Come continuare a credere, Rusconi,
Milano, 1980.
[7] Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana, cit.
[8] La
Civiltà Cattolica ,
cit.
[9] Nietzsche, La gaia scienza, aforisma
125.
[10] Italo Mancini, cit., pp.22-25.
[11] Paolo VI, Omelia per S. Pietro e Paolo, 29
giugno 1972.
[12] Benedetto XVI, Discorso alla
Curia, cit.
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