I precedenti del Concilio, di Panikkar, delle Commissioni
Teologiche Romane.
Discorso tenuto a San Gregorio al
Celio il 9 aprile 2016 da Raniero
La Valle in occasione della presentazione dell’Opera Omnia di
Raimundo Panikkar.
Che rapporto
c’è tra Raimundo Panikkar e papa Francesco?
Noi stiamo
vivendo una grande rivoluzione della fede che si sviluppa lungo un arco di 50
anni, dal Concilio ad oggi. Essa ha per teatro l’umanità e tutta la Chiesa, e
ha tra i suoi protagonisti, insieme a molti altri, Panikkar, le grandi
acquisizioni dei teologi, anche romani, la nuova sapienza del papa emerito
Benedetto XVI e, naturalmente la potenza dell’annuncio evangelico di papa
Francesco. E dunque in questo tempo speciale di una rivoluzione della fede che
dobbiamo collocare anche il rapporto tra Panikkar e Francesco. E se questo
tempo speciale, questo Kairòs, lo
facciamo partire dal Concilio è perché lì è cominciata, non nella clandestinità
ma gridata sui tetti, la rivoluzione della fede. Come ha scritto il gesuita
Karl Rahner facendo un primo bilancio sul significato permanente del Vaticano
II nel 1979, a
quindici anni dalla sua conclusione, “la Chiesa in questo Concilio è diventata
nuova trasformandosi in una Chiesa a dimensione mondiale e pertanto è in grado
di rivolgere al mondo un annuncio, che benché resti in fondo sempre lo stesso
annuncio di Cristo, è più libero e coraggioso di prima, un annuncio nuovo. In
tutti e due i termini, nell’annunciatore come nell’annuncio, è avvenuto
qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente” (Karl Rahner, Il significato permanente del Vaticano II,
Il Regno – documenti, 3,1980). In realtà nel Concilio si sono viste cose mai
viste prima, così come cinquant’anni dopo si sono viste cose mai viste prima
nel pontificato di papa Francesco.
Ciò
basterebbe, da solo, a stabilire un legame strettissimo tra il Concilio, come
lo ha visto il gesuita Karl Rahner, e il pontificato come lo sta esercitando il
gesuita Bergoglio.
Il “senso dei fedeli”
Per
esempio tra le cose del Concilio che non si erano mai viste prima c’è
l’espressione “sensus fidei”, sensus fidelium, cioè il senso dei
fedeli.
Questa
espressione, come ha rilevato la Commissione teologica internazionale, (Il sensus fidei nella vita della Chiesa,
2014) compare per la prima volta nel Vaticano II, ma la realtà che essa indica
era ben presente nella tradizione; e la sua evocazione da parte del Concilio ne
fa un’espressione gravida di conseguenze per il futuro.
E’
così importante il sensus fidei che
proprio richiamandosi al senso dei fedeli delle loro Chiese i vescovi della
Commissione preparatoria del Concilio non vollero che fosse messa all’ordine
del giorno del Vaticano II la dottrina secondo la quale i bambini morti senza
battesimo non possono andare in Paradiso; da ciò non solo conseguì l’abolizione
del limbo, ma si aprì la strada alla prima grande rivoluzione della fede: la
caduta cioè dell’assioma secondo il quale la Chiesa cattolica è l’unica via che
gli uomini hanno per la salvezza e per la conoscenza di Dio.
Nel
pontificato di Bergoglio questa rivoluzione ha raggiunto la sua massima evidenza
quando nel popolo di Dio, tradizionalmente identificato con la Chiesa, egli ha
incluso anche indiani e musulmani, che è una delle cose “mai viste prima” di questo
pontificato.
Perciò
io vorrei ora concentrare l’attenzione su tre di queste grandi rivoluzioni
della fede che sono in corso, e in confronto a queste vedere i rapporti tra
Panikkar e papa Francesco.
Solo nella Chiesa
cattolica c’è salvezza?
La prima
rivoluzione della fede è quella di cui abbiamo appena parlato, cioè la caduta
della tesi secondo la quale fuori della Chiesa – intesa come Chiesa cattolica e
romana – non c’è salvezza, extra ecclesiam,
nulla salus.
Era una tesi
che pretendeva fondare un potere assoluto sulle coscienze e di fatto
neutralizzava il significato salvifico universale dell’incarnazione; perché è
vero che la Chiesa grazie
alla croce veniva aperta ad
Ebrei e Gentili, però si riproduceva l’esclusivismo del popolo eletto, sia pure
formato da membri tratti per via di proselitismo e missione da tutte le genti.
Come dice
Panikkar nel volume III/2 della sua Opera Omnia – Una cristofania – (Jaca
Book, Milano, 2016, pag. 485), “tutto il primitivo sforzo cristiano fu di
rompere proprio il patto, il testamento di Yahvé con il suo popolo, la circoncisione
… (che) è il sacramento primordiale di tutto l’ebraismo, che simboleggia ciò
che unisce il divino con l’umano… Con questo patto tutto il giudaismo si regge
o cade...”.
Il Concilio di
Gerusalemme si decise a romperlo. “I cristiani in seguito osano dire (con
Paolo): niente Torah, niente legge (Rm 3,20 e passim). Poi, a poco a poco,
giacché è difficile essere liberi, la tentazione delle cipolle d’Egitto porta i
cristiani ad accettare un nuovo testamento, il battesimo si trasforma nella
sostituzione della circoncisione … I cristiani non si contentarono più di
essere seme, sole, luce. Vollero essere anche una religione, tanto più potente
del giudaismo, una religione accanto alle altre …” (p. 486). E la Chiesa di
questa religione veniva proclamata come l’unica in cui si dà la salvezza.
E ciò anche al
prezzo di identificare la Chiesa con un pessimo simbolo, come faceva S.
Ambrogio, che introdusse la similitudine tra la Chiesa e la casa di Raab, la
prostituta, che si era salvata sì, ma solo perché aveva tradito il suo popolo
permettendone lo sterminio.
E’ evidente
che per superare questo monopolio della fede, non solo della Chiesa, ma anche
del cristianesimo come religione si è spesa tutta la vita e la ricerca di Raimundo Panikkar: questa è
stata la sua lotta con l’angelo, e anche se ne è stato ferito, si può dire come
Giacobbe che ha combattuto con l’angelo e ha vinto.
Ed è ora con
papa Francesco che questa vittoria si rivela. Qual è la posizione di Panikkar
in questa lotta? Possiamo far riferimento al volume che abbiamo già citato “Una
cristofania”. Qui in uno scritto del 1987 Panikkar diceva che il cristianesimo
è la religione di due fiumi, il Giordano e il Tevere, matrice ebraica e
occidente, ma ora occorrerebbe superare queste frontiere e raggiungere il Gange,
che è simbolo non soltanto per
l’induismo, ma per il buddismo, il jainismo, il sikhismo, e le altre religioni
originarie dell’India ma anche per tutte le tradizioni di Eurasia, Africa,
America e Oceania che incarnano forme completamente diverse sia nella
spiritualità sia nella mentalità (pag. 454-455). Ora, aggiunge, per chi è
radicato in quelle mentalità la teologia cristiana standard ha poco senso. Non
soltanto i contenuti della Bibbia, ma anche la maggior parte delle premesse e dei
concetti cristiani risultano estranee, se non grottesche, alle tradizioni non abramitiche.
Di fronte a questo, la soluzione proposta da Panikkar, è stata che “nessuna
tradizione religiosa ha il monopolio sulla salvezza, e che tuttavia non
dobbiamo diluire la dottrina di alcuna religione autentica per raggiungere la
concordia religiosa”. Cioè ogni religione, in unità di cuore con le altre, deve
mantenere la sua identità.
Il fondamento
teologico di questa soluzione si trova nel volume III/1 dell’Opera Omnia di
Panikkar – La Tradizione cristiana -
dove sono raccolti i suoi scritti più antichi. “Cristo non è venuto a fondare
una religione, tanto meno una nuova
religione, ma per adempiere ogni giustizia (MT.3.15) e per portare a
pienezza ogni religione del mondo” (p. 391). Dunque non solo le religioni
restino, ma si convertano: per cui in India ad esempio il cristianesimo sia “lo
stesso induismo convertito”, o l’islam o il buddismo, e “l’induismo convertito”
sarebbe “l’induismo autentico, risorto, lo stesso oppure rinnovato,
trasformato” (p.392).
Se questa è la
posizione di Panikkar, qual è il cammino che su questa questione ha compiuto la
Chiesa?
Sempre per non
andare più lontano, a partire dal Concilio – che, ricordiamo, è con la
Scrittura la fonte di questo pontificato – possiamo ricordare con le parole di
Karl Rahner dal testo già citato del 1979, qual era la situazione del
cristianesimo e della Chiesa fino al Concilio.
Prima del
Concilio “i non cristiani erano considerati semplicemente come quelli che
giacevano nelle tenebre del paganesimo, che potevano essere salvati con la
predicazione del Vangelo e solo così… Possiamo dire che Agostino ha
introdotto una visione della storia universale secondo la quale, per
l’impossibilità di conoscere il disegno di Dio, la storia del mondo era ed è
storia di una massa dannata, nella quale solo a pochi è dato di salvarsi per
una grazia di elezione raramente concessa. Per lui il mondo era nelle tenebre,
solo raramente e debolmente rischiarate dalla luce della grazia divina, la
quale manifesta la sua purezza nella rarità con cui viene concessa.
“Anche se
Agostino a volte dimostra di sapere che son dentro la Chiesa molti di quelli
che sembrano stare fuori tuttavia per lui era pratico e concreto quasi
identificare il circolo di quelli che saranno salvati e beati con quelli che si
professano esplicitamente cristiani e fedeli alla Chiesa, mentre gli altri per
un misterioso giusto giudizio costituiscono la massa dannata dell’umanità. Il
risultato della storia è sostanzialmente l’inferno”.
E questa è
stata invece la novità del Concilio: “Nel Concilio invece si dice che anche chi
pensa di dover essere ateo è unito al mistero pasquale di Cristo se segue la
sua coscienza e che ogni uomo a suo modo, conosciuto solo da Dio, è oggetto
della rivelazione, per cui si può parlare anche per lui veramente di fatto
salvifico in senso teologico. Vi si dice anche che quanti cercano nelle ombre e
come in uno specchio il Dio sconosciuto, non sono lontani da lui, perché egli
vuole che tutti gli uomini siano salvi. Dio infatti non nega quanto è
necessario alla salvezza a chi senza colpa non è giunto all’esplicita
conoscenza di Dio e, non senza la grazia divina, si sforza di condurre una vita
retta. Si ribadisce che la Chiesa va considerata non solo come la comunità dei
salvati, ma come il segno sacramentale primigenio e la cellula originaria della
salvezza per tutto il mondo”.
Lo strumento
teologico attraverso cui il Concilio è giunto a questo ottimismo salvifico,
proteso ad abbracciare tutti gli uomini, è la distinzione tra la Chiesa di
Cristo, intesa in senso universale ed escatologico, e la Chiesa cattolica.
Prima esse venivano identificate; ora il Concilio introduce la formula che la
Chiesa di Cristo sussiste in, subsistit
in nella Chiesa cattolica, ma non vi si esaurisce. Questo apre la strada
sia all’ecumenismo, sia al riconoscimento degli elementi di santificazione e
verità presenti nelle religioni non cristiane, preservando l’unità della
salvezza in Cristo.
Passano
cinquant’anni, si compiono molti gesti, anche da parte dei papi, di incontro e
dialogo con le altre religioni, come i due incontri di preghiera comune ad
Assisi. Ma con papa Francesco si oltrepassa una frontiera non solo simbolica,
ma teologica, e qui sta la rivoluzione. Perché con papa Francesco si dà
un’altra lettura dell’espressione popolo di Dio, che finora era inteso a
definire la Chiesa, come nel secondo capitolo della Lumen Gentium del Concilio, o, in senso più generale, la comunità
dei credenti; con papa Francesco il popolo di Dio sembra comprendere tutti gli
uomini e le donne in quanto abbracciati dalla misericordia di Dio, e perciò si
identifica con l’umanità tutta intera.
Il sintomo si
era avuto in molti testi di papa Francesco, e nel fatto di aver rivolto la
parola della Chiesa nella enciclica Laudato
Sì, non solo agli uomini di buona volontà, come già aveva fatto Giovanni
nella Pacem in Terris, ma a tutti gli
abitanti del pianeta terra. Ora l’evidenza teologica della rivoluzione in corso
si ha in una solenne cornice liturgica ed eucaristica, nella lavanda dei piedi
ai non cristiani presso il Centro profughi di Castelnuovo di Porto, nel giovedì
santo di quest’anno 2016.
Lavare i piedi a chi?
Questa volta
non si è trattato solo di un gesto, ma di una teologia, di un nuovo annuncio
del Vangelo. Perché quel gesto aveva dei precedenti che ne facevano da
didascalia.
Il precedente
è una lettera di papa Francesco del 20 dicembre 2014 al prefetto della
Congregazione per il culto divino, il cardinale Sarah, in cui il papa diceva
che da diverso tempo stava riflettendo sul rito della lavanda dei piedi per
migliorarne le modalità di attuazione così che esso esprima pienamente “il
donarsi fino alla fine di Gesù per la salvezza del mondo, la sua carità senza
confini”. A tal fine disponeva che
venisse modificata la rubrica in cui si stabiliva che i prescelti per ricevere
la lavanda dei piedi dovevano essere uomini o ragazzi, cioè maschi, e si
stabiliva invece che potessero essere scelti “tra tutti i membri del popolo di
Dio”. Ciò fu inteso naturalmente nel senso che potessero lavarsi i piedi anche
alle donne e così stabilì il decreto “in missa
in coena Domini” emanato dalla Congregazione per il culto divino con oltre
un anno di ritardo il 6 gennaio 2016. In esso si diceva che si poteva scegliere
per il rito della lavanda dei piedi un gruppetto di fedeli che rappresentasse
la varietà e l’unità di ogni porzione del popolo di Dio, uomini e donne,
giovani e anziani, sani e malati, chierici, consacrati e laici.
Ma attenzione,
ammoniva il portavoce della fazione integralista che fa campagna sul web contro
papa Bergoglio, Sandro Magister, il 22 marzo scorso, va bene lavare i piedi
eventualmente anche alle donne ma in ogni caso si possono lavare solo ad
appartenenti al popolo di Dio, cioè a membri della Chiesa cattolica, mentre il
papa, si scandalizzava Magister, ha in precedenti giovedì santi, lavato i piedi
anche a uomini e donne non appartenenti alla Chiesa.
Era una specie
di intimazione al papa rispetto alla imminente celebrazione del giovedì santo e
qui la scelta del papa diventava rilevante perché mentre nelle volte precedenti
era solo una prassi in evoluzione, questa volta era un decreto esplicito che
designava come adatti a farsi lavare i piedi, anche dal papa, dei “fedeli
prescelti tra il popolo di Dio”. E’chiaro che il papa non poteva né ignorare
questo decreto, né platealmente trasgredirlo in mondovisione. Papa Francesco ha
fatto di più: ha dato l’interpretazione autentica, l’interpretazione nuova di
che cosa debba intendersi per popolo di Dio; è chiaro che non vi appartengono
solo “fedeli cattolici”, se nell’eucarestia celebrata nel Centro profughi di
Castelnuovo di Porto, lui ha lavato i piedi a quattro giovani nigeriani
cattolici, tre donne eritree cristiane copte, tre musulmani (uno siriano, uno
pakistano e una maliano), un giovane indiano di religione indù e un’operatrice
italiana del centro. E’ stato un gesto di rivelazione fatto, come dice la Dei
Verbum del Concilio, di eventi e parole intimamente
connessi. E le parole sono state queste dette dal papa: “Tutti noi, insieme,
musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici ma fratelli, figli dello stesso
Dio, che vogliamo vivere in pace, integrati”. E poi ha detto: “Siamo diversi,
siamo differenti, abbiamo differenti culture e religioni, ma siamo fratelli e
vogliamo vivere in pace. E ha aggiunto: “Ognuno, nella sua lingua religiosa,
preghi il Signore perché questa fratellanza contagi il mondo”.
Ognuno nella
sua lingua religiosa. E’ proprio quello che aveva detto Panikkar: “nessuna
tradizione religiosa ha il monopolio sull’acqua viva dei suoi fiumi, che siano
il Giordano, il Tevere o il Gange, e tuttavia non dobbiamo diluire alcuna
religione autentica per raggiungere la concordia religiosa”.
Come dice
papa Francesco: ognuno resti nella sua
lingua religiosa, “il proselitismo è una solenne sciocchezza”.
E questa è la
prima rivoluzione in corso.
Il Dio nonviolento
La seconda
rivoluzione della fede è quella del Dio nonviolento. Anche per questa facciamo
riferimento insieme al Concilio e a papa Francesco. E’ la rivoluzione che
separa definitivamente Dio da ogni idea di violenza, e rende purissimo e senza possibili
ricadute in sindromi di crociate, di inquisizioni o di pene eterne l’annunzio
di un Dio non violento. Per il Concilio parla in questo senso l’abbandono della
dottrina dell’ira di Dio per l’offesa del peccato originale, parla la
dichiarazione sulla dignità umana laddove dice che Dio ha riguardo della dignità
della persona, che chiama gli uomini a rispondergli ma non coartati, che
attraverso Cristo, mite ed umile di cuore non ha esercitato alcuna coercizione,
e attraverso gli apostoli ha mostrato come ognuno “sia tenuto ad obbedire
soltanto alla propria coscienza”.
Quanto a papa
Francesco egli non fa che annunziare un Dio non violento e nel cui nome non si
possono fare guerre né può essere esercitata alcuna violenza; come è ormai ben
noto a tutti il Dio di papa Francesco è un Dio di misericordia; nella
descrizione che papa Francesco fa della misericordia esercitata da noi, sono
contenuti tutti i tratti dell’indiana ahimsà,
che noi traduciamo come non violenza; e violenza sarebbe anche quella di un Dio
che dalla giustizia non passasse alla misericordia e anzi un Dio che si
fermasse alla giustizia, dice la Bolla di indizione del Giubileo, non sarebbe neanche
Dio, cesserebbe di essere Dio, sarebbe come gli uomini che invocano il rispetto
della legge.
Ma dove questa
rivoluzione della fede che consiste nel passaggio al Dio nonviolento raggiunge
la sua massima chiarezza ed evidenza teologica è nel documento romano della
Commissione teologica internazionale uscito nel primo anno del pontificato di
Francesco, approvato il 6 dicembre 2013.
In questo
documento, intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza” si afferma: che
il Dio violento foriero delle guerre di religione, è il frutto di un
fraintendimento della fede, che l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è
“la massima corruzione della religione”, e che i teologi cristiani, con tutti i
credenti, hanno dovuto compiere “un lungo cammino storico di ascolto della
Parola e dello Spirito per purificare la fede cristiana da ogni ambigua
contaminazione con le potenze del conflitto e dell’assoggettamento”; secondo i
teologi del papa perciò i fraintendimenti di Dio non sono solo della cultura
laica e profana, ma si trovano nelle stesse Scritture ispirate e nelle
religioni rivelate. E un'altra Commissione teologica romana, la Pontificia Commissione
Biblica, aveva scritto nel 1993 che la lettura
fondamentalista (cioè letterale) della Bibbia, “è un suicidio del pensiero”
(Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione
della Bibbia nella vita della Chiesa, 1993).
Il documento fa un’evocazione senza sconti di violenze
perpetrate in nome di Dio, e consegnate a pagine bibliche “che rimangono anche
per noi credenti molto impressionanti e molto difficili da decifrare”, e ne
riporta alcuni esempi: “il diluvio, distrugge Sodoma e Gomorra con il fuoco,
punizioni all’Egitto, ordine di sterminio (anatema)
di interi eserciti e di intere città”.
La Commissione
Teologica Internazionale ha avuto il coraggio di riconoscere
che c’è stato un cambiamento reale, che qualcosa è accaduto, che c’è stato un
processo di conversione che ha purificato l’immagine di Dio nel corso del tempo
e nella storia stessa del cristianesimo, nella quale non possiamo ignorare “i
nostri colpevoli e ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa”.
Si tratta
dunque di una svolta epocale; la nuova percezione di Dio, separata da ogni
traccia di violenza non rappresenta solo un passaggio di riforma del
cristianesimo e delle Chiese cristiane, ma l’occasione di un ripensamento
profondo dell’idea stessa di religione.
Si tratta di
riconoscere, dice la
Commissione Teologica, nell’“irreversibile congedo del
cristianesimo dalle ambiguità della violenza
religiosa, il tratto di svolta
epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno
universo globalizzato”, si tratta di “riconoscere la grazia di un discernimento
che inaugura una nuova fase della storia della salvezza che continua”, si
tratta di suscitare, “in anticipo sulla storia che deve seguire”, l’immagine di
una religione definitivamente congedata “da ogni strumentale sovrapposizione
della sovranità politica e della signoria di Dio”.
Le espressioni
non potevano essere più solenni. L’approdo a un Dio nonviolento rappresenta una
riforma del cristianesimo e della Chiesa, un ripensamento dell’idea di
religione, una svolta epocale, una nuova fase della storia della salvezza.
C’è da restare
impressionati, perciò io parlo di rivoluzione.
Mi sembra che
Panikkar sia del tutto in sintonia con questa rivoluzione. Non solo perché il
Dio che egli pensa dall’interno della cultura dell’India, dal sanscrito, non
può che essere un Dio non violento. Ma perché il Dio che egli pensa nel quadro
della sua visione cosmoteandrica al di fuori del dualismo, in unione con ogni
uomo e con tutte le cose, è un Dio incompatibile con ogni violenza. Non si può
qui riproporre tutta la concezione di Dio di Panikkar, ma vorrei limitarmi a evocare
il dio che risulta dai tre mahāvākyani, cioè dalle
tre grandi frasi in cui Gesù il Cristo condensa tutta la sua esperienza di Dio,
alle quali Panikkar dedica un capitolo della sua Cristofania. (Sez. II, parte
II, cap. II, p. 678 e seg.) E le tre grandi frasi sono queste.
La prima è: “Abbà,
Padre, (Mc 14.36), onde Dio è padre, ossia colui che genera e che protegge e
che ama, e quindi è anche Madre, è Padre e null’altro, perciò è relazione,
senza relazione non sarebbe.
La seconda grande
frase è:
“Io e il Padre
siamo uno” onde Dio non è separato, inaccessibile e Altro e l’abisso tra
l’umano e il divino non esiste (Giov. X.30).
E la terza
grande parola o grande frase è:
“E’ bene che
me ne vada” (Giov. XVI, 7) cioè la kenosi,
onde sarebbe venuto lo Spirito che ci avrebbe condotto a tutta la verità e ci
avrebbe reso liberi, sicché avremmo compiuto cose più grandi; insomma ora tocca
a noi, il compito è nostro.
Del tutto errata la dottrina della
riparazione
Questa sintesi
trinitaria di Panikkar ci introduce allora alla terza rivoluzione della fede
che oggi è in atto. Anch’essa possiamo coglierla a partire dal Concilio,
l’abbiamo vista affermarsi tra i teologi e oggi ne vediamo la solenne
proclamazione.
E’ la
rivoluzione che riconosce come del tutto errata la dottrina che per secoli la
Chiesa ha presentato, e cioè che il
Padre avesse avuto bisogno del sangue del Figlio per ripagarsi dell’offesa
subita col peccato originale. Si tratta della dottrina di S. Anselmo, espressa
nel suo famoso “Cur Deus homo?”, perché Dio si è fatto carne? E’ la dottrina
sacrificale, della riparazione dovuta a Dio, della legittimazione
dell’olocausto, dell’espiazione necessaria attraverso il sangue dell’innocente.
Una dottrina incompatibile con la misericordia, anzi fautrice della massima
ingiustizia, come è la punizione dell’innocente, eppure è stata una dottrina permanente
insegnata nel catechismo fino al Concilio Vaticano II e ancora presente,
sebbene in modo più sfumato, nel Catechismo della Chiesa cattolica del 1992.
Questa dottrina
che è stata causa di abbandoni di massa della fede e della Chiesa, criticata
dai teologi, è stata tranquillamente dichiarata in sé del tutto errata dal papa emerito Benedetto XVI in una
recente intervista resa nella rettoria dei Gesuiti di Roma, raccolta da un
gesuita e pubblicata dall’Osservatore Romano (La fede non è un’idea ma la vita, intervista al Papa emerito
Benedetto XVI, O.R. 16 marzo 2016)
Che cosa dice il papa emerito Benedetto XVI?
“La contrapposizione tra il Padre, che insiste in
modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo
accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi,
ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e
il Figlio sono una cosa sola”.
Evoluzione
del dogma
E papa Benedetto, che parla esplicitamente di
“evoluzione del dogma”, spiega così l’agire di Dio: “Dio semplicemente non può
lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha
concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può
redimere il mondo.
“Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il
Dio dell’universo, non soffre anch’egli in un certo senso? Il Padre stesso
percepisce una sofferenza d’amore (Omelie
su Ezechiele 6,6). Il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china
amorevolmente su di lui e d’altra parte per così dire è insieme sulla croce.
Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre.
“Non c’è dubbio che in questo punto – dice Ratzinger
- siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Nella seconda metà del
secolo scorso si è affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare
in perdizione tutti i non battezzati e che se è vero che i grandi missionari
del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre
perduto – e ciò spiega il loro impegno missionario – nella Chiesa cattolica
dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente
abbandonata”.
E la folgorante conclusione di papa Benedetto è questa:
“Come Cristo è “essere per”, così cristiani non si è
per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri”.
In questo “essere per” c’è tutto il senso della
rivoluzione della fede nella Chiesa del Concilio, di Panikkar e di papa
Francesco.
Raniero
La Valle
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