Le scelte degli elettorati sono volte a conservare le
conquiste della modernità. I popoli sarebbero pronti a seguire leadership che
riaprano la strada del progresso storico
di Raniero La Valle
La sconfitta della
destra xenofoba e razzista nelle elezioni legislative del 15 marzo in Olanda è
una buona notizia sullo stato del mondo. Contro catastrofici sondaggi e
previsioni, le pulsioni regressive rispetto ai valori della modernità hanno
coinvolto una parte minoritaria, il 12 per cento, dell’elettorato di quel
Paese. Ciò vuol dire che la post-modernità, intesa come un rovesciamento delle
conquiste del Novecento [1],
non è affatto una condizione comune della cultura di oggi, ma ne è una deriva o
una tentazione ancora circoscritta.
Ciò appare chiaro se si confronta questo
evento elettorale con altri, taluni apparentemente contraddittori, che lo hanno
preceduto. Tutti infatti, se li si sa leggere, mostrano un buono stato di
salute degli elettorati, i quali non sembrano affatto vittime dei deprecati
populismi, ma piuttosto tesi a salvaguardare o a ripristinare proprio le grandi
conquiste politiche e civili della modernità, che oggi un potere economico
selvaggio e classi dirigenti mediocri o deviate stanno compromettendo.
Il risultato olandese in questo senso è
eloquente: esso significa che la maggioranza del popolo non è affatto d’accordo
con i muri, i reticolati, le detenzioni e le espulsioni degli immigrati. È la
stessa cosa che hanno dimostrato i volontari austriaci e tedeschi che corsero
al confine ungherese per soccorrere i profughi bloccati e portarseli con sé. È
la stessa cosa che traspare dalle sofferte posizioni assunte dalla Merkel in
Germania. È la stessa cosa che si manifesta nello spirito e nelle pratiche
d’accoglienza di tanti italiani e che invece grida nelle proteste contro le
ultime politiche repressive instaurate dal ministro Minniti e gli accordi efferati
stipulati dal governo con la Libia.
Ma dove
il risultato elettorale olandese suona come una conferma dello stato di
salute dei popoli, è proprio nel confronto con altre pur discusse elezioni.
È ovvio qui il richiamo al felice
risultato del referendum italiano nel quale, respingendo le puerili trovate di
Renzi, gli elettori hanno rivendicato il valore di una Costituzione accusata di
essere vecchia di settant’anni e tormentata da disperati tentativi di restauro
almeno da venti.
La
Brexit
Meno ovvio è il paragone con il voto con
cui gli Inglesi hanno scelto l’uscita dall’Europa. Si tratta di un risultato da
molti giustamente considerato negativo, quanto alle sue conseguenze. Ma quanto
all’elettorato che lo ha prodotto, esso ha mostrato una razionalità
straordinaria, proprio in coerenza con lo stato di civiltà politica a cui in
precedenza si era pervenuti. Una delle conquiste politiche e giuridiche più
alte della modernità (e per primi proprio degli Inglesi) era stata
l’elaborazione e l’attuazione del principio che ogni potere, per non essere
prevaricante e al limite totalitario, ha bisogno di un contropotere. La
democrazia è per l’appunto la scoperta che nessun potere (re, primi ministri o
banchieri che siano) deve essere solo al comando. La dottrina costituzionale
del potere è la dottrina dei limiti, delle garanzie, della pluralità e
dell’equilibrio dei poteri. Ora, la globalizzazione capitalistica, così come è
stata attuata nell’Unione Europea da Maastricht in poi, non ha affatto tenuto
conto di questa concezione moderna e avanzata del potere, non ha previsto e non
prevede la divisione dei poteri, lasciando che gli unici potenziali
contropoteri siano quelli degli Stati ancora sovrani. Gli Inglesi,
indisponibili a soggiacere a poteri senza contropoteri, non trovando o non
cercando altra strada, hanno preso la decisione plateale di andarsene. Se non
ci sono contropoteri gli unici argini di fronte all’Europa premoderna del
potere unico, sono le sovranità: le ideologie sovraniste prese in mano dalle destre europee sono la
spia di questo nodo storico che è venuto al pettine, non sono la proposta di
una riscossa politica, sono la denuncia di un’assenza.
Senonché questa reazione di protesta
subito dimostra la sua fallacia, tanto è vero
che la Scozia reagisce programmando a sua volta un referendum per uscire
dal Regno Unito e restare nell’Unione Europea, cioè per non buttare l’acqua col
bambino e restare nella modernità.
Il
voto contro la Clinton
Un’analoga lettura positiva si può fare
delle intenzioni del voto nelle elezioni americane. Esse hanno prodotto una
tragedia, che è la vittoria di Trump. Ma, come poi si è visto, la vera
intenzione dell’elettorato nella sua maggioranza non era di promuovere le
politiche e i deliri di Trump, ma di bloccare le politiche di Hillary Clinton
che, sulla scia delle scelte “post-moderne” della governance americana dal primo Bush in poi, avrebbero spinto verso
un’elefantiasi del potere globale, radicalizzato il confronto con la Russia e
con la Cina, riattivato la devastazione del Medio Oriente e forse condotto alla
guerra o alle guerre.
Il problema è che se gli elettorati, cioè
i popoli, sono spinti da motivazioni che anche se istintive od oscure sono in
gran parte buone o riconducibili al bene, tese a non perdere le conquiste già
fatte e a tenere aperto il cammino della civiltà, le proposte elettorali tra cui
essi sono costretti a scegliere sono spesso del tutto inadeguate a interpretare
e poi realizzare queste intenzionalità positive, per la mancanza di leadership
consapevoli e una generale decadenza o decomposizione delle attuali culture
politiche. Di qui scelte temerarie e infauste di molti elettorati o il rifugio
micidiale nel non voto. La prossima difficile prova cui sarà sottoposta questa
analisi sarà la consultazione per l’elezione presidenziale del 23 aprile e 7
maggio in Francia.
Però in questo incontro che si realizza
nelle urne tra una positività da parte del popolo e una negatività o
insufficienza da parte delle leadership,
l’elemento strutturale e duraturo è il primo, mentre le leadership sono
contingenti, mutevoli e suscettibili di manifestarsi anche in modi
imprevedibili e diversi. In una parola se oggi è difficile affidarsi alle
leadership, si può tuttavia aver fiducia nei popoli.
Ciò dipende dal fatto che i popoli hanno
un carisma che spesso i loro dirigenti, “i capi delle nazioni” e “i grandi” che
le dominano ed esercitano su di esse il potere, come dice Gesù (Mc. 10, 42),
non hanno.
Secondo papa Francesco i popoli sono un
“luogo teologico”. Perciò i pastori, i teologi, devono ascoltare il popolo.
Come ha detto nel videomessaggio ai teologi riuniti presso l’università
cattolica argentina nel settembre 2015: “Le
domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue
lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo
ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue
domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi c’interrogano. Tutto ciò
ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e
chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare
la nostra gente al momento di fare teologia. Il Nostro Dio ha scelto questo
cammino. Egli si è incarnato in questo mondo, attraversato da conflitti,
ingiustizie, violenze; attraversato da speranze e sogni. Pertanto, non ci resta
altro luogo dove cercarlo che questo mondo concreto, questa Argentina concreta,
nelle sue strade, nei suoi quartieri, nella sua gente. Lì Egli sta già salvando”[2].
Tutto questo dice che i popoli ci sono, che ancora
sono ricchi di potenzialità positive, e se ben rappresentati possono prendere
in mano e perseguire i tre grandi obiettivi che sono come le colonne d’Ercole
attraverso cui bisogna passare per far ripartire il progresso della civiltà:
una vera universalità dei diritti, con il diritto di migrazione e di
stabilimento di tutti gli esseri umani in qualsiasi Paese della terra; il
definitivo congedo delle religioni dal Dio violento e dei popoli dalle guerre e
dalle violenze perpetrare in suo nome; la revoca della sovranità attribuita al
denaro (al “capitale”) e la sua restituzione al popolo, unico sovrano, quale
che sia il regime economico e sociale da questi prescelto Sono le tre questioni
prioritarie, le tre “forze frenanti” di
cui ho parlato nell’articolo: “Il compito della politica? Sbloccare la civiltà”[3].
Nell’attuale situazione, e per come essa è
raccontata dai media, un futuro di
questo tipo sembra una favola. Ma sembrava una favola anche l’abolizione della
schiavitù, o l’eguaglianza tra uomini e donne, o la teoria della relatività
generale, o quella dei quanti, e invece quelle cose si dimostrarono poi le
uniche vere.
Così
un’umanità unita, con ordinamenti comuni, nonviolenta e in se stessa sovrana
può rivelarsi come l’unica vera.
Per
passare a questa politica il popolo c’è, i popoli ci sono, dunque che si
formino e vengano avanti i leaders.
Raniero La
Valle
[1] Vedi nel sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri: l’analisi di Giovanni Ferretti, “La cultura nel Concilio e nella
Chiesa del Novecento”.
[2] Vedi nel sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri: “La teologia deve farsi carico
dei conflitti. Chi è il teologo? Siamo tutti teologi”.
[3] Vedi nel sito Chiesa di tutti Chiesa dei poveri: “Il compito della politica? Sbloccare la civiltà”
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