Raniero La Valle
Con la sola eccezione della Corea del Nord le potenze nucleari, a cui
si è associata anche l’Italia, hanno preso posizione contro il tentativo messo
in atto dall’ONU per giungere a un trattato per la messa al bando delle armi
nucleari. La decisione di procedere in questa direzione era stata presa dall’Assemblea generale del 23 dicembre 2016 che aveva istituito una
speciale Conferenza dell’ONU per predisporre il testo del trattato. Ma le
potenze nucleari e quelle della NATO (con l'eccezione dell'Olanda, che però ha
poi espresso l'unico voto contrario),si sono rifiutate di partecipare calla
Conferenza, che tuttavia il 7 luglio scorso ha approvato con 122 voti favorevoli (quasi due terzi dei membri
dell’ONU), 1 voto contario e 1 astenuto il testo del trattato antiatomico che dovrà essere ora sottoposto alla firma e
alla ratifica degli Stati.
Il governo italiano,
interrogato in Parlamento sul perché avesse rifiutato di partecipare alla
Conferenza e di concorrere alla stesura del trattato, ha risposto che esso, così com’è stato
concepito, indebolirebbe il regime di
non proliferazione nucleare esistente, e
suscita dubbi circa la sua reale capacità di porsi quale strumento di disarmo
nucleare irreversibile, trasparente e verificabile, ragione per cui il governo
non lo sottoscriverà. Insomma il trattato sarebbe controproducente, e farebbe
aumentare le bombe invece che diminuirle. Si ignora la logica di questa
asserzione.
Di nuovo perciò l’arma nucleare minaccia il mondo, mentre ardono i
focolai della “terza guerra mondiale a pezzi”. Perciò occorre tornare alla
lotta, come i popoli hanno mostrato di saper fare. È uscito in queste settimane
un prezioso libro che racconta la lotta, con “fiori e sorrisi” come la
descrisse un giudice chiamato a condannarla in tribunale) contro i 112
missili di Comiso (Davide Bocchieri,
Centododici, Fiori sorrisi e politica
contro i missili Cruise a Comiso, Edizioni Pressh24, Ragusa, 2017). Il libro rievoca quel movimento di popolo
e anche le ferite della Chiesa di Ragusa che allora, nel suo vescovo, non fu
per la pace. Il libro, che nasce da una tesi universitaria del suo autore, reca
una prefazione di Raniero La Valle, che qui riproduciamo.
Vorrei
dire in queste pagine perché questo libro è di straordinaria importanza e
bellezza. Ne indico quattro motivi.
1)
Il primo motivo è che, per il fatto stesso di esserci, è un libro che milita
contro la più pericolosa malattia del nostro tempo, che è la perdita-rimozione
della memoria.
Senza
memoria non siamo nessuno, abbiamo occhi che non vedono, orecchie che non
odono, sensi che non discernono, e non possiamo né capire né guidare la storia.
Come
dice l’autore, nessuno sa niente di Comiso, sui libri di scuola non c’è neanche
un rigo, per chi vuol sentire affiora solo qualche scarno racconto di qualcuno
che c’era; che cosa si giocò a Comiso in quegli anni Ottanta nessuno lo dice,
quegli eventi sono sprofondati nel nulla allo stesso modo in cui nulla sapeva
di Comiso, delle sue case e delle sue vigne, il ministro socialista che la
scelse per metterci i missili, convinto che quello, nel profondo Sud della
Sicilia, fosse un luogo deserto.
Ma
non è solo della vicenda dei missili nucleari che nell’Italia della
rottamazione nessuno sa più nulla. Recentemente per un breve ricordo televisivo
del sequestro e dell’uccisione di Moro, TV 2000 ha chiesto a studenti di giurisprudenza e di scienze politiche se
sapessero chi era Aldo Moro; nessuno lo sapeva, quello che più si avvicinò alla
verità collegò Moro al terrorismo, dicendo che era stato il capo delle Brigate
Rosse. Questa è la ragione per cui non c’è una classe dirigente giovane che
oggi possa governare l’Italia, perché se non si sa nulla né del mondo che era
diviso in due dal terrore nucleare, né della disfatta dei partiti che non
seppero gestire umanamente il caso Moro, né del conflitto sempre aperto tra
Costituzione e potere, non si può guidare l’Italia.
2) Il secondo motivo è che questo libro mette in
mostra la cultura politica e l’ideologia di cui i missili di Comiso erano il
prodotto, una cultura che non è stata
smantellata insieme alla base in cui quegli ordigni erano stati
installati. Senza convertirsi, i poteri
espressi da quella cultura hanno interpretato la fine della guerra fredda e la
rimozione del muro di Berlino come una propria vittoria, e al mondo non più
diviso in blocchi hanno imposto la nuova armatura della globalizzazione
capitalistica, ripristinando guerre e paure e facendo un mondo peggiore di
prima.
Non
erano queste le speranze quando l’8 dicembre 1987 festeggiammo l’accordo di
Washington tra Gorbaciov e Reagan che segnò l’inizio del disarmo nucleare.
Quell’accordo alleggerì la terra di una parte delle sua armi di sterminio, e
con la terra alleggerì la Sicilia e Comiso di 112 testate nucleari da 200
chilotoni l’una che, in tutto, facevano oltre 22 milioni di tonnellate
equivalenti di tritolo, il che vuol dire 1500
Hiroshima, sette volte e mezzo tutto l’esplosivo della II guerra
mondiale (la “madre di tutte le bombe” gettata da Trump sull’Afghanistan è pari
“solo” a 10 tonnellate di tritolo). E non solo quelle armi venivano distrutte,
non in una guerra ma per fare la pace, ma per la prima volta venivano anche
delegittimate, screditate e, sia pure in piccola parte, condannate al rogo,
maledette; e non importa che si trattasse solo del 3 per cento delle armi
nucleari esistenti, quello che contava era il principio, era che cominciava il
disarmo atomico.
Per
questo allora festeggiammo quell’evento; e lo festeggiammo come una promessa di
liberazione; perché quei missili nucleari, messi a dominare il mondo, non solo
erano simboli di morte, ma erano anche simboli e artefici di schiavitù; sotto
il tallone dell’arma nucleare, anche se non ce ne accorgevamo, tutto il mondo
era in catene, nessuno poteva liberarsi; per questo la storia si era fermata,
la politica si era oscurata e ogni rivoluzione sembrava esaurita o preclusa,
tanto che se ne era dimenticata perfino la parola. Distruggere le armi,
restituire la parola alla politica voleva dire dunque per noi riprendere la
dinamica storica, aprire la strada alla soluzione razionale dei problemi,
tornare all’intelligenza delle cose; sotto l’elmo di Scipio infatti ristagnava
e languiva il pensiero, bisognava togliersi l’elmo per liberare il pensiero, e
occorreva alzare la celata, per tornare a guardarsi negli occhi, a scoprire nel
volto del nemico quello di un fratello.
Per
questo c’era stata in tutto il mondo quella grande lotta di massa contro
l’installazione dei missili piantati a fronteggiarsi nel cuore dell’Europa; per
questo uomini e donne si erano messi di mezzo, anche soltanto col loro corpo,
per fermare la corsa all’idolo nucleare; e l’avevano fatto quando sembrava che
quel sistema di violenza, di dominio e di guerra, dopo la gara dei missili,
stesse per oltrepassare un punto di non ritorno; e questo punto di non ritorno
era l’idea reaganiana, già messa in cantiere, delle guerre stellari, che mirava
a militarizzare lo spazio per meglio irretire e dominare la terra. Sarebbe
stato un punto di non ritorno, perché voleva dire lanciare nello spazio
migliaia di satelliti armati, voleva dire attivare armi non convenzionali che
colpiscono e distruggono alla velocità della luce, sicché non ci sarebbe stato
nemmeno il tempo di fermare un computer, voleva dire ridurre tutta la terra a
un’unica immensa servitù militare inclusa in un cielo trasformato in un solo
poligono di tiro; né in tal modo, spinte all’estremo, si sarebbero saturate le
potenzialità della violenza perché allo scudo spaziale americano si sarebbe
contrapposto lo scudo sovietico e sarebbe continuato l’eterno gioco della
reciprocità violenta.
Quando
quel precipizio si arrestò, le lotte per la pace parvero aver vinto e la
minaccia atomica cessò, sembrava di sognare. E perciò non sembrarono eccessive
le speranze che quella cultura e quelle
politiche culminate nella logica del potere nucleare sarebbero state ripudiate,
si sarebbero convertite e si sarebbero mutate in nuove culture e nuove
politiche. Così non è stato, non c’è stato nell’Occidente “vittorioso” un
“nuovo pensiero politico”, come quello che aveva permesso a Gorbaciov la svolta
democratica e nonviolenta nell’Unione Sovietica, e le attese sono andate deluse. Ma
ricostruire oggi quella storia vuol dire riconoscere il punto da cui
ricominciare.
3)
Il terzo motivo che rende questo lavoro prezioso è la dimostrazione che quando
ogni ragione sembra venir meno, la ragione della Costituzione e del diritto
perdura, il dettato costituzionale non è manipolabile e continua a gridare la
verità. È quello che si evince dagli atti del processo alle dodici pacifiste
arrestate a Comiso per la loro azione nonviolenta, atti finora inediti, che
animano le pagine più intense e appassionanti di questo libro. La Costituzione
aveva già permesso che si creasse una mobilitazione popolare pacifica contro la
decisione del governo, aveva permesso i grandi raduni e le marce della pace, la
raccolta di un milione di firme in Sicilia per una petizione contro i missili,
il tentativo parlamentare della Sinistra Indipendente di promuovere un
referendum “abrogativo” della parola “missili” nella legislazione
ordinaria, sostituito poi dai cinque
milioni di firme di un referendum informale autogestito; ma dove la
Costituzione irruppe con tutta la sua forza fu nell’imbarazzo della magistratura
giudicante nel processo contro le donne pacifiste, dove all’esiguità quasi
ironica della condanna (contro la durezza della polizia e dell’esecutivo) si
accompagnarono, nei diversi gradi di giudizio, motivazioni e riflessioni che
sembravano più un’apologia delle ragioni delle colpevoli che una censura. Nel
processo poterono udirsi degli stupendi discorsi e messaggi delle imputate
sulle loro motivazioni, che i giudici considerarono così persuasive da non
doversi nemmeno analizzare, l’accusa di blocco stradale fu derubricata a
generica “violenza privata”, si negò che fosse un’occupazione delle terre il
piantare delle pacifiche tende, consenzienti i proprietari, accanto a un
minaccioso impianto di guerra, e furono citati
largamente i supremi valori costituzionali che erano di superiorità
schiacciante rispetto a un “reato” consistente – parola dei giudici – in “un
modesto ingombro della sede stradale”: un ingombro che aveva fermato per poco
tempo ben pochi camion, con sbarramenti fatti di fili di lana e, a detta della
corte, “con fiori e sorrisi”.
Certo
nei giudici persistevano culture legaliste e maschiliste, come quando negarono
che l’azione dei pacifisti fosse dettata dallo stato di necessità, perché
quando il “reato” era stato commesso i missili nel campo ancora non c’erano,
quindi dove stava la “necessità” di bloccarli? O come quando negarono che il
gesto delle donne di stendersi sulla strada realizzasse una forma di
manifestazione del pensiero, a norma dell’art. 21 della Costituzione: infatti
secondo i giudici il pensiero si manifesta con la parola, non con il corpo, e
meglio sarebbe stato andare a dibattere in un consiglio comunale il modo di
fermare i missili di Reagan, invece che mettersi in mezzo alla strada per
impedire ai camionisti di entrare nella base; i giudici non capirono che quello
stendersi per terra significava invece far sapere a tutto il mondo che a Comiso
c’era chi, uomini e donne, italiane e straniere, lottavano con tutte le forme
pacifiche e nonviolente per cambiare il pensiero e le decisioni dei signori
della guerra. Qui la distanza tra le pacifiste e i giudici non poteva essere
maggiore: perché mentre le donne e il movimento femminista rivendicano il
linguaggio del corpo, e lo usano proprio come manifestazione del pensiero, per
i giudici invece il corpo non parlava.
In
ogni caso quel processo segnò uno dei punti più alti dell’istruttoria morale su
Comiso.
4)
Il quarto motivo dell’importanza di questo libro sta nella rappresentazione del conflitto apertosi nella
Chiesa, il cui massimo segno di contraddizione fu la benedizione impartita dal
vescovo al tempio costruito nel campo, di contro alla veglia fatta dai
pacifisti al di fuori del filo spinato, al canto dei salmi di padre Turoldo. La
rievocazione di quel conflitto apre infatti la strada a comprendere l’epocale differenza
tra quella Chiesa, ancora irretita nelle spire della violenza, nonostante il
Concilio, e la Chiesa di oggi di papa Francesco.
In
quel tempo, benché la violenza fosse criticata in via di principio, la nonviolenza era sostanzialmente estranea
alla Chiesa. Avrebbe dovuto
esprimere l’identità della Chiesa, dato che la Chiesa nasce dal Vangelo, e
invece non vi stava di casa. Il problema è che c’era una radice di violenza
nella stessa concezione di Dio inteso come giudice, come vendicatore, come
esattore di sacrifici ed olocausti, come un Dio forte in battaglia. La stessa
rivelazione, nella sua fase ancora acerba e immatura aveva tramandato immagini
incoerenti di Dio, come è attestato in alcune pagine molto dure della
Bibbia. E storicamente era avvenuto che
una Chiesa non separatasi dalla violenza, aveva teorizzato la guerra giusta,
aveva acceso i roghi per gli eretici e per le streghe, aveva fatto le Crociate;
san Bernardo, che pure era un mistico, aveva spiegato che uccidere un infedele
non è un omicidio, ma un malicidio; la pena di morte era stata vigente perfino
nello Stato pontificio; a Roma, in piazza del Popolo, si faceva con “mazzola e
squarto”; poi passava la “Ven. Arciconfraternita di Gesù, Maria e Giuseppe dell’anime
più bisognose del Purgatorio” a fare la questua per l’Anima del condannato,
senza però fermarsi “in tempo della Giustizia nella Piazza del Patibolo”, come
diceva la convocazione dei Fratelli questuanti, che assicurava come per tal
Opera Pia essi avrebbero acquistato “merito grande appresso Dio”. E quella
cultura era rimasta nella Chiesa, ben oltre la fine dello Stato pontificio:
quando nel 1960 andai a dirigere “l’Avvenire d’Italia”, un regista francese, Autant Lara, fece un
bellissimo film contro la pena di morte e in favore dell’obiezione di
coscienza, “Tu ne tueras point”
(1961); il film fu censurato, ma “l’Avvenire d’Italia” ne fece una critica
molto favorevole e il vescovo di Vicenza protestò duramente col cardinale
Lercaro, arcivescovo di Bologna, che del giornale era considerato il tutore.
Oggi
possiamo misurare come la situazione sia cambiata e come, se ci fosse una nuova
Comiso, anche la Chiesa dei vertici sarebbe diversa. È successa infatti una cosa imprevista, una
cosa straordinaria: la Chiesa cattolica
ha adottato la nonviolenza. Essa non le è più estranea, non è una cosa
“altra” rispetto al Dio che essa annunzia. In effetti, come aveva detto Karl
Rahner parlando del Concilio, non è cambiato solo l’annunciatore, è cambiato
l’annuncio.
Prima
di tutto è cambiata la presentazione del volto di Dio. Nella percezione umana,
fin dai tempi più antichi, come ha documentato Rudolf Otto nella sua ricerca su
“Il sacro”, il volto di Dio è stato nello stesso tempo terribilis et fascinans, affascinante e terribile, quello di un re
“tremendae maiestatis”, come canta il
“Dies irae”. Quello presentato oggi
dalla Chiesa di papa Francesco è invece un “misericordiae
vultus”, un volto di misericordia, come dicono le prime parole della bolla
di indizione del Giubileo straordinario del 2016. Affascinati dalla
misericordia del Figlio, noi non eravamo troppo abituati all’idea della
misericordia del Padre, troppo spesso sovrastata dall’idea della giustizia e
della punizione. Ma nella predicazione di papa Francesco in Dio non c’è che
misericordia, Dio perdona sempre, è sempre primo nell’amore; né in lui c’è
ombra di violenza, e c’è il dolore di Dio, che per amore dell’uomo si fa
scacciare dal mondo e sale sulla croce col Figlio. C’è un documento del 2013
della Commissione Teologica Internazionale sul monoteismo e la violenza, in cui
si riconosce e si afferma la radicale separazione del cristianesimo da ogni
visione che implichi una violenza di Dio; e in questo documento si dice che la
supposta violenza di Dio è stata definitivamente smentita e rovesciata sulla
croce. Infatti sulla croce non è salito un uomo qualunque, dicono i teologi del
Papa citando il secondo concilio di Costantinopoli, ma "Unus
de Trinitate passus est". Uno della Trinità stava li sulla croce, non
era solo l’uomo Gesù, era il Dio della
Trinità che stava sulla croce.
Allo
stesso modo è cambiata la comprensione del rapporto tra misericordia e
giustizia di Dio. «Se Dio si
fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini
che invocano il rispetto della legge» dice papa Francesco nella “Misericordiae vultus”.
Il cambiamento consiste nel comprendere che in
Dio giustizia e misericordia sono la stessa cosa. Esse sono in dialettica, in
contrasto, se viene riferito a Dio un concetto antropomorfico di giustizia, la
giustizia come retribuzione, come il pareggio di una pesata eguale, come l’ “unicuique suum” che sta scritto perfino
sotto la testata dell’«Osservatore Romano». Ma la giustizia di Dio non è
affatto questa, non è la vendetta, non è rendere male per male, la giustizia di
Dio è il rendere giusti, è la giustificazione per fede, come dice Paolo, è la
grazia.
Questa più matura percezione della misericordia e
della giustizia di Dio ha fatto cadere la concezione vendicativa e punitiva
della dottrina del peccato originale e delle sue conseguenze nel sacrificio che
il Padre avrebbe preteso dal Figlio. Questa concezione, come ha detto lo stesso
Benedetto XVI, papa emerito, in un’intervista all’ “Osservatore Romano” “è
diventata oggi per noi certo incomprensibile”.
mentre la dottrina di Sant’Anselmo, che l’ha diffusa in tutta la Chiesa
“non è solo incomprensibile oggi - ha detto
Ratzinger - ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata“.
Nell’attuale nuova coscienza ecclesiale il
peccato originale non è alzare la mano verso il frutto dell’albero della
conoscenza, come se ciò fosse alzare la mano contro Dio, ma è alzare la mano
contro il fratello.
Per questo oggi non sarebbe più possibile una
legittimazione religiosa della guerra. Perché in Dio non c’è violenza, “il Dio
della guerra non esiste”, come ha detto il papa commentando il vangelo a Santa
Marta, e il cristianesimo prende definitivo congedo dal Dio violento. Infatti,
come dice il documento già citato dei teologi del papa riuniti nella
commissione internazionale, il Dio violento, foriero delle
guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento della fede, e
l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è “la massima corruzione della
religione”, Perciò
il papa ha scritto nel messaggio per la giornata della pace del 1 gennaio 2017:
«Nessuna religione è terrorista, La violenza è una profanazione del nome di
Dio. Non stanchiamoci mai di ripeterlo. “Mai il nome di Dio può giustificare la
violenza. Solo la pace è santa, non la guerra!”» Nello stesso messaggio il papa ha
fondato la nonviolenza sulla dignità immensa della persona, che deriva
dall’essere immagine e somiglianza di Dio; dunque la scelta nonviolenta non è
solo una scelta ideologica o politica, il suo valore è antropologico, entra nella definizione dell’uomo. È
appunto quello che i pacifisti hanno testimoniato, e che le donne nonviolente
processate a Ragusa per aver usato il loro corpo per “un modesto ingombro della
sede stradale” hanno cercato di far capire ai giudici e, manifestando in tal
modo il pensiero, hanno detto al mondo.
Raniero La Valle
Nessun commento:
Posta un commento