Ad Assisi il
25 agosto 2017
Cinque tesi una
conclusione e una postilla più drammatica
Raniero La
Valle
Quello che segue è il testo della relazione
tenuta da Raniero La Valle il 25 agosto 2017 ad Assisi nel quadro del Convegno
sul tema: “Come dare futuro alla svolta profetica di Francesco”
1. La novità
di papa Francesco
Il Dio che
sorprende è il Dio annunciato da papa Francesco. Ancora
mercoledì scorso nella sua catechesi il papa ha parlato del Dio che crea novità,
perché è il Dio delle sorprese. Certo non è questo il solo Dio in circolazione.
C’è il Dio predicato per inerzia da tutta la Chiesa, il Dio predicato nella
Chiesa italiana. Ma non è un Dio che sorprende, non suscita meraviglia, è il
Dio che giace nel catechismo, che da tempo non sveglia più nessuno.
Poi c’è lo
stereotipo del Dio demiurgo, todopoderoso,
depositato nella cultura
comune, condiviso sia da chi lo afferma, sia da chi lo nega, sia da chi lo
ignora.
Il Dio che
irrompe nella Chiesa di Francesco è diverso. In un mondo piagato ed esposto
alle peggiori sorprese, nessuno pensava che ci potesse essere una sorpresa da
parte di Dio. O almeno non lo si pensava più, da quando era stato messo a
tacere il Concilio. Per questo la Chiesa era diventata così tetra e la fede se
ne stava andando come l’acqua dall’invaso di una sorgente inaridita.
Ma ecco che
da quattro anni è comparso un Dio che sorprende. Per il mondo è stato un
bagliore improvviso, una straordinaria novità, per gli archeologi del sacro è
stata invece una sorpresa ingrata, un incidente imprevisto, uno strappo ai
regolamenti. Perciò i più papisti del papa sono diventati, proprio loro,
antipapisti.
Questo spiega
la solitudine istituzionale di papa Francesco e l’astio con cui è combattuto,
ed è per questo, perché vorremmo stare al suo fianco, che ci siamo qui riuniti
ad Assisi.
2. Non è la
prima volta di un Dio che sorprende
Non è la
prima volta che Dio ci sorprende, che c’è l’impatto con un Dio quale prima non
era stato pensato. Dunque anzitutto dobbiamo
fare uno sforzo di memoria, per non dimenticare che c’è una storia dietro di
noi.
Dunque, in
principio c’è Dio che sorprende l’Adam nell’atto stesso di crearlo, mettendogli
accanto la donna, dopo che lui l’aveva sognata, come dice Francesco, e ambedue
facendoli a sua immagine, ossia dando loro il dono della libertà, la responsabilità
della scelta tra il bene ed il male.
Poi c’è Dio
che sorprende Noè, salvandolo coi figli e tutti gli animali, dal più piccolo al
più grande, ma salvando anche la terra che mai più, in forza della sua
alleanza, come promette, sarà devastata dal diluvio, cioè non sarà distrutta, ma
sulla quale all’uomo sarà chiesto conto del sangue dell’uomo.
Poi c’è Dio
che sorprende Abramo promettendogli un figlio ed un popolo; ma poi salva la sua
stessa promessa, facendo a pezzi l’ideologia sacrificale di Abramo e
togliendogli dalle mani il figlio già preparato per essere offerto in olocausto
sul monte Moira.
Poi c’è Dio
che sorprende Mosè facendogli portare il popolo col piede asciutto fuori
dall’Egitto e camminando con lui per quarant’anni nel deserto; certo la pasqua
è stata una bella sorpresa, che non a caso si ricorda nei secoli.
Poi c’è Dio
che sorprende Giona pentendosi del male che gli aveva fatto annunziare a
Ninive, e con un colpo di scena smentisce la sua profezia salvando la grande
città straniera con i suoi 120.000 abitanti e una grande quantità di animali.
Poi c’è Gesù
che sorprende tutti nella sinagoga di Nazaret, quando smonta la profezia di
Isaia; infatti conferma la profezia della misericordia e della grazia, ma tace
e abbandona la profezia del giorno di vendetta di Dio che sarebbe dovuto venire
ad allietare gli afflitti di Sion. E gli ebrei nazareni ne sono talmente
sorpresi e sdegnati che già allora volevano farlo morire.
Poi c’è Gesù
che sorprende la Samaritana al pozzo di Giacobbe, facendosi riconoscere come
Messia e dicendole che viene un tempo, ed è questo, in cui non si adorerà nei
santuari o a Gerusalemme, ma adorerete il Padre in spirito e verità.
E poi c’è Dio
che si rivela alla Chiesa primitiva, che nell’inno della lettera ai Filippesi
canta la più incredibile delle sorprese, che Cristo Gesù pur essendo nella
forma di Dio non ha tenuto per sé come una rapina l’essere come Dio, ma ha
spogliato se stesso prendendo la condizione di schiavo e facendosi riconoscere
come uomo, fino alla morte e alla morte di croce.
Perciò questo
è un Dio che ci fa passare di sorpresa in sorpresa; e a ben vedere a ognuna di
queste sorprese corrisponde l’inizio di una fase nuova della storia della
salvezza. Cambia Dio e cambia il mondo, Dio appare nella storia come mai era
apparso o era stato compreso prima, e cambia la storia degli uomini.
- Il Dio inedito
Come può
accadere questo, se Dio è sempre lo stesso e in lui non c’è ombra di variazione
(Giac. 1, 17)? Accade perché è
inesauribile la conoscenza di Dio, e c’è sempre un Dio inedito, che attende di
essere pubblicato. Ci sono sempre nuove edizioni dell’unico Dio, e man mano che
il Dio inedito diventa edito gli uomini progrediscono nel faccia a faccia con
lui. Di edizione in edizione, non è Dio che cambia ma, come diceva papa
Giovanni del Vangelo, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Dio
cresce al crescere della Parola che lo dice, ma in realtà quella che cresce,
quella che muta, è la nostra percezione di Dio, la nostra capacità di
accogliere la sua offerta di vita. Nuova è l’edizione in cui, da un tempo
all’altro, egli viene conosciuto, rappresentato, annunciato e recepito
nell’umanità e nella Chiesa. Ed è per questo che, non solo come metafora, si
può parlare di un Dio che sorprende, di un nuovo annuncio o di una nuova
scoperta di Dio. Del resto era proprio questo il compito assegnato da papa
Giovanni al Concilio, che noi abbiamo interpretato invece come un Concilio di
riforma della Chiesa; il compito era di investigare ed enunciare il tesoro
della fede “in quel modo che i nostri tempi esigono” (ea ratione quam tempora postulant nostra); e questa è la ragione
stessa del pontificato di Francesco.
Si può però
obiettare (e per questo i dottori della legge e gli scribi sono oggi sul piede
di guerra), che il ciclo delle edizioni è finito, perché c’è ormai stata
l’edizione definitiva di Dio che è quella pubblicata da Gesù. E questo è
verissimo, qui sta tutta la nostra fede; qui, dal prologo del vangelo di
Giovanni in poi, sta tutto il cristianesimo, è il suo Figlio unico che ha fatto
vedere il Padre, l’ha fatto conoscere, l’ha edito, ne ha “fatto l’esegesi”.
Però è vero
quello che disse un grande giornalista, Mario Missiroli, che fu direttore del Messaggero e del Corriere della Sera, in una sentenza che è diventata di uso comune:
“Non c’è niente di più inedito dell’edito”.
Così anche il
Dio pubblicato da Gesù, ancora dopo duemila anni, è in gran parte inedito. E lo
è fin da allora, tanto è vero che a conclusione dei Vangeli, Giovanni dice che
se si mettessero per iscritto tutte le cose manifestate da Gesù, il mondo
intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Se questo era
vero all’inizio, lo è stato anche dopo; e anzi si deve dire che, finita la
stagione fulgente dei primi quattro grandi Concili, la Chiesa è passata
attraverso una tormentata ricezione del Dio di Gesù, dal Medio Evo fino al
secondo millennio. E non solo per tutto ciò che di Dio era rimasto inedito, ma
anche perché l’edito è stato via via gravato e ricoperto da glosse che non sempre
hanno contribuito a rendere più intellegibile e fruibile l’originale. Perciò a
un certo punto un cristianesimo appassionato invocò che non si aggiungessero
glosse a glosse, ma si riprendesse in mano il testo edito al netto delle
glosse, sine glossa, come diceva san
Francesco. Ed è proprio da questo tornare al testo originale trasmesso da Gesù
che l’inedito emerge, e che di nuovo irrompe nel mondo il Dio della sorpresa,
il Dio che stupisce.
A mio parere
questo è ciò che sta facendo papa Francesco, questa è la vera riforma e il
carisma del suo pontificato; questa è la portata della sua scelta strategica di
uscire dal palazzo e di vivere a Santa Marta per aprire ogni giorno il Vangelo,
riportare alla luce il Dio che era stato oscurato, pubblicarne un’edizione non
censurata dagli scribi, e trasmetterla a tutto il popolo.
Ma se è
questo che sta accadendo, è legittimo leggere il tempo di svolta che stiamo
vivendo come l’inizio di una nuova fase della storia della salvezza. Del resto
lo dice anche il linguaggio secolare, che oggi siamo non tanto in un’epoca di
cambiamenti, quanto piuttosto a un cambiamento d’epoca.
Però non si tratta
solo di stare a guardare ma, come diceva padre Balducci, di “forzare
l’aurora a nascere”, perché l’avvento di questo tempo nuovo è una questione di
vita o di morte. Infatti il mondo così non può continuare. Basta vedere il
cimitero del Mediterraneo ormai guardato a vista da navi e uomini armati, per capire
a che punto siamo.
E ciò accade
perché la profezia di padre
Balducci non si è avverata, o non si è ancora avverata. La
profezia - o la speranza - era che a prendere in mano questo passaggio d’epoca
fosse un uomo nuovo, l’uomo planetario, un “uomo inedito”, come lo chiamava lo
scolopio fiorentino.
Questa
speranza non si è realizzata e anzi l’uomo già edito, che ben conosciamo, sta
riprecipitando nell’oscurantismo, nella guerra, nelle forme discriminatorie e
sopraffattrici del passato. Le ideologie sono finite o sono state uccise, ma la
politica è morta e lo Spirito è in esilio.
- L’edizione che i nostri tempi richiedono
Perché non è
apparso l’uomo inedito? Perché prima doveva manifestarsi il Dio inedito. L’uomo
è ad immagine di Dio; non c’è uomo nuovo, non c’è uomo inedito se non c’è un
Dio ulteriormente compreso, un Dio a cui nuovamente somigliare, un Dio che
sorprende.
Ma di quale
edizione di Dio abbiamo oggi bisogno? Ogni edizione di Dio corrisponde infatti
a un’esigenza nuova, a una domanda pressante che erompe dal cuore dell’umanità
ferita, in un dato momento della sua storia.
Per esempio,
in questo cinquecentesimo anniversario della riforma, abbiamo potuto rivisitare
le spinte che diedero origine all’iniziativa di Lutero. Ne abbiamo parlato
anche in un colloquio con i protestanti nei giorni scorsi a Camaldoli. Ci siamo
resi conto di come oggi le esigenze e i problemi siano talmente cambiati, che
facciamo perfino fatica a capire il perché di quello scontro così duro sulla dottrina
della giustificazione, scaturita da un’ossessione antipelagiana e da una
lettura radicale di Agostino e di Paolo. Quell’edizione luterana di Dio
rispondeva in effetti al tormento della cristianità del tempo che, una volta
affermato che fuori della Chiesa non c’è salvezza, era angosciata dal problema
di chi e come potesse salvarsi, con quali opere, ovvero grazie a quale
capriccio di Dio. E anche la loro era una questione di vita o di morte, e anzi di
una morte eterna.
Oggi la
sensibilità è del tutto mutata, e come il papa emerito Benedetto XVI ha scritto
di recente, la gente non pensa affatto ad essere giustificata da Dio, ma pensa piuttosto
che sia Dio a doversi giustificare per tutto il male che permette sulla terra.
Infatti la domanda di oggi non è quella a suo tempo formulata da Heidegger ma sbadatamente
lasciata cadere, se solo un Dio ci possa salvare; la domanda dolente di oggi è
se noi possiamo salvarci, quando non abbiamo risposte al gemito del mondo che
noi stessi abbiamo sfigurato, quando non abbiamo né progetto né cuore per
fermare la corsa al suicidio intrapresa dai capi dei popoli.
Ed è
precisamente in questo buco nero esistenziale e politico che irrompe la
sorpresa del Dio della misericordia. Non è che Dio sia diventato misericordioso
oggi, ma è che troppe ombre ne coprivano il volto. Ed ecco che quel Dio per
molti rimasto inedito, viene ora pubblicato, mentre si preferisce tenere negli
scaffali il “Rex tremendae maiestatis”
cantato nel “Dies irae”, si cerca di mettere
in sordina il Dio della vendetta invocato da Isaia, si oscura il Giudice
inappellabile degli inferni danteschi e dei dannati della Sistina. E ciò
perché, come ha scritto papa Francesco nella bolla d’indizione dell’anno della
misericordia, “Misericordiae vultus”,
un Dio che si fermasse alla giustizia non sarebbe neanche un Dio. Ovvero, rispetto
a questo Dio noi siamo atei. Come rispose Ernst Bloch a Jurgen Moltmann che dopo
una sua conferenza gli chiedeva perplesso: “Signor Bloch, lei è ateo, nevvero?”
E Bloch rispose: sono ateo per amor di Dio.
Il Dio edito
da papa Francesco è un Dio che “primerea”,
che è sempre primo nell’amore, è un Dio che perdona sempre; è un Dio che si scambia con l’uomo (Paolo) nel
portarne il peccato e la croce; è un Dio che non sceglie tra eletti e non
eletti, ma elegge tutti oltre ogni religione e cultura, non se ne sta dietro la
porta del santuario vigilata dall’ostiario, ma esce per essere incontrato in
spirito e verità, non è il Dio della casistica, ma della verità, non
dell’equazione di una pesata uguale, ma del dono senza commercio, non il Dio
della guerra – che, dice Francesco, non
esiste – ma il Dio della pace, un Dio nonviolento, un Dio che non sta con la
città sfavillante ma col barbone che muore in via Ottaviano, non sta nelle
motovedette che agguantano la preda, ma nei barconi che affondano e nelle navi
delle ONG che, contro le regole, corrono a salvarli.
5. E’ il Dio
annunciato da Francesco, ma non è il Dio di Francesco
Noi diciamo
che questo è il Dio sorprendente predicato da Francesco. Ma non è il Dio di Francesco,
è il Dio dell’edizione straordinaria
del Novecento. Questa lettura di Dio è cresciuta nel tempo insieme alla fede
del popolo di Dio, e ha fatto irruzione dopo la grande tragedia dei
totalitarismi, della guerra mondiale, della Shoà, della bomba atomica. Lo
stesso papa Francesco non potrebbe oggi pubblicarla se questa nuova edizione di
Dio non fosse stata preparata in una Chiesa passata attraverso la grande
tribolazione della modernità, dell’apostasia delle masse, e dell’ansia per la
sua agonia, espressa nella lettera del cardinale Suhard tradotta per l’Italia dalla
Corsia dei Servi e da mons. Montini. Questa nuova figura di Dio è poi venuta
alla luce col Concilio Vaticano II, con cui papa Francesco fa corpo, così che
il Concilio e il suo pontificato devono essere visti non come due eventi a
distanza di cinquant’anni l’uno dall’altro, ma come un unico evento. Il
tragitto è dalla “Gaudet Mater Ecclesia”
alla “Evangelii Gaudium”, dal “Lumen Christi, Lumen Gentium” alla “Misericordiae vultus”, e la data simbolo
che li accomuna è l’8 dicembre, fine del Concilio e inizio dell’anno della
misericordia.
Perciò il Dio
inedito di papa Francesco non è un Dio estemporaneo, importato a San Pietro
dalla fine del mondo, come in un viaggio a ritroso delle caravelle di Colombo. E
Francesco non è un papa eccentrico,
apolide, è un papa romanissimo. Il Dio che annuncia è un Dio ben piantato nella
tradizione, e passato attraverso tutti i vagli della Chiesa romana. Vale a dire che non manca di imprimatur questa nuova edizione di Dio.
Cominciamo
dalla Pacem in terris. È lì che è
stato “aggiornato” il magistero dei papi dell’Ottocento, che avevano opposto
un’interdizione divina alla libertà politica e alla libertà di coscienza, definite
come “un delirio”; è nell’enciclica di papa Giovanni che la libertà diventa la
dignità stessa dell’uomo e non può essere coartata in nome della verità. Contro
ogni censura richiesta al papa dai revisori, verità, libertà, giustizia e
carità non sono messe nell’enciclica in scala gerarchica ma sullo stesso piano come
maestre e guide per condurre gli uomini alla pace. Perciò Dio è il Dio della
libertà, non è il Dio né di Costantino né di Teodosio né dei cosiddetti
principi o partiti cristiani.
Poi è venuto
il Concilio che come Gesù nella sinagoga di Nazaret ha taciuto di una vendetta
di Dio per il peccato dell’uomo, non ha parlato di un uomo decaduto, privato
dei doni divini e condannato al lavoro come pena e ai parti con dolore. Dio secondo
il Concilio è il Dio dell’elezione, che non si pente di aver scelto tutti gli
uomini come suoi figli, non li ha abbandonati dopo la caduta e non ha cacciato
nessuno dal giardino. E nemmeno ha lasciato l’uomo in balia di se stesso, come
diceva una cattiva traduzione del Siracide, ma l’ha “messo in mano al suo
consiglio”, come dice la Gaudium et Spes
al n. 17, facendo di quel passo biblico una traduzione migliore.
E poi c’è
stata la svolta ecumenica del Concilio, per la quale le altre Chiese sono vere
Chiese, i semi del Verbo sono sparsi dovunque, e “indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo
fosse glorificato”, come dice il decreto Ad
Gentes, n. 4.
Poi c’è stato Albino Luciani, che è stato
papa giusto il tempo per dire che Dio è padre ma anche madre, cioè figura di
ogni relazione di vero amore tra gli uomini. Dio è un bacio, come diceva padre
Benedetto Calati.
Poi c’è stato Benedetto XVI con la Commissione Teologica
Internazionale che ha detto come anche i bambini morti senza
battesimo si possono salvare. Così è finito il Limbo, e Dio non è più pensabile
come quello che tiene a bagnomaria i bambini per tutta l’eternità perché non
c’è stato nessuno che ha trovato l’acqua per battezzarli, come diceva san
Tommaso, e solo così farli entrare nella Chiesa come per una porta. E se Dio ama
ed accoglie i bambini non entrati nella Chiesa, è plausibile che lo faccia
anche con gli adulti, sicché la Chiesa non è più rappresentabile come la casa
di Raab fuori della quale si è votati allo sterminio.
Ancora Benedetto XVI ha
riconosciuto una discontinuità della Chiesa nel suo rapporto con la modernità,
ha abbandonato una lettura storica del mito del peccato originale, e poi da
papa emerito ha riconosciuto l’evoluzione del dogma e ripudiato come “del tutto
errata” la dottrina anselmiana della riparazione dovuta al Padre dal Figlio
sulla croce, mentre sulla croce c’era il Padre non meno del Figlio; sicché il
teologo ex papa ha licenziato col suo fondamento tutta l’impalcatura
dell’ideologia sacrificale che ha incrudelito per secoli il cristianesimo della
misericordia.
Infine c’è stata la Commissione Teologica
Internazionale che ha argomentato la più grande sorpresa, quella
del Dio nonviolento; essa, con la firma del cardinale Muller, ha spiegato come
anche nella Bibbia ci siano dei fraintendimenti di Dio, sicché una lettura
fondamentalista della Bibbia è un suicidio del pensiero, e nell’irreversibile
congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa ha riconosciuto il tratto di una svolta
epocale, la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della
storia della salvezza ed una reale opportunità di ripensamento dell’idea stessa
di religione.
Ed è tutto
questo che è confluito nel Dio inedito annunciato da Francesco, il cui
magistero ha perciò un altissimo contenuto dottrinale; ed è molto strano che la
portata dottrinale della riforma avviata da papa Francesco, che è ben presente
a quanti accusano il papa di eresia, non sia invece riconosciuta e compresa da
molti che di papa Francesco si dicono fautori.
- Come dare un futuro alla svolta profetica di Francesco
Che fare ora
per dare un futuro alla svolta profetica di Francesco?
Mi fermo solo
a tre proposte concrete.
I. Mentre
l’ex papa Benedetto ammette che nel catechismo della Chiesa cattolica ci sono
cose ormai superate, come l’errata dottrina della riparazione, don Carlo Molari ha
scritto, nel suo contributo a questo convegno, che il catechismo dovrebbe
essere cambiato per farlo corrispondere alla nuova prospettiva evolutiva.
Dunque c’è nella
Chiesa di oggi un grande problema che è il catechismo. Ma io non credo che la
proposta debba essere quella di cambiarlo, è troppo pericoloso, penso piuttosto
che è tempo di rimettere i catechismi negli scaffali, perché le ulteriori
edizioni dei catechismi non potranno mai afferrare il vento che spira dalle
successive edizioni di Dio. Dopo il Concilio noi con Dossetti e Alberigo da
Bologna, raccogliendo voci di tutto il mondo, riuscimmo ad evitare che la
Chiesa si desse una “Lex Ecclesiae
Fundamentalis”, che sarebbe stata una specie di Costituzione ecclesiastica
al posto del Vangelo. Però nessuno evitò che si pubblicasse un nuovo Catechismo
della Chiesa cattolica, e anche in questo caso si tratta di rimettere al suo
posto il Vangelo.
II. La
seconda cosa da fare a mio parere è di rimettere mano ai libri liturgici. Se la
lex orandi è anche la lex credendi, oggi questo equilibrio va
ricostruito, non solo perché ci sono delle letture e delle orazioni che non
interpretate criticamente per il popolo nel momento stesso in cui sono
proclamate, sono un suicidio della fede, ma anche perché va risignificato tutto
l’impianto sacrificale ed espiatorio della liturgia e della vita.
III. La terza
cosa da fare riguarda non solo il futuro della Chiesa ma il futuro dell’uomo,
ma è una cosa così grande che non si può esaurire in poche parole. È la
questione dei migranti e dell’unità umana.
La
discussione è aperta. Non si tratta solo di rompere le regole per soccorrere
i migranti, ciò che per il cristiano non è solo
l’esercizio di un diritto, ma è un dovere. Si tratta di cambiare le regole, e
di affermare e sancire il diritto umano universale di migrare, di vivere nel
luogo dove ciascuno possa non solo salvare la sua vita, la “nuda vita”, ma meglio realizzare la propria umanità.
Nel giudicare
l’interdizione che l’Europa, e ormai anche l’Italia, oppongono al popolo dei
migranti, noi nel sito “Chiesa
di tutti Chiesa dei poveri” abbiamo pronunciato la parola
grave “genocidio”. La ragione è che quello dei migranti è un popolo, di molte
nazioni, identificato dalla tragedia comune della fuga dalla guerra, dalla
violenza, dalla fame, dalla siccità, dallo sfruttamento coloniale, dalla
miseria endemica vigilata dalla Banca mondiale. Fare in modo che essi non ci
siano per noi, fermarli sulle zattere e sui barconi prima che arrivino,
ostacolarne con le armi e con i “codici” ministeriali l’approdo,
rimandarli in terre di prigionia che non sono la loro patria, inventarsi
l’alibi di aiutarli a casa loro, cioè a restarsene a morire nei loro inferni, è
un genocidio,
Il genocidio
è meglio condannarlo prima piuttosto che
commemorarlo o negarlo dopo.
Se insieme al
Dio di misericordia la misericordia rientra nel mondo, questo genocidio lo
possiamo evitare; allora i popoli si mischieranno, e diverranno un’umanità
sola: e perciò le riforme si dovranno fare, il denaro non potrà essere più solo
al comando, il diritto riprenderà il suo primato sull’economia e sul potere, e nulla sarà più
come prima. Così il tempo nuovo può venire ed essere questo.
Raniero La Valle – Assisi 25 agosto 2017
Postilla
FRANCESCO,
OSTIUM O KATĖKON?
Se le cose
stanno così, è legittimo dire che la svolta profetica del pontificato
francescano può essere il varco che apre a una nuova fase della storia della
salvezza, e perciò della storia del mondo; può essere quella porta attraverso
cui si possa – tutti insieme, a cominciare dai poveri - entrare nell’epoca
nuova; potremmo chiamarla, ricordando il Vangelo, la “porta delle pecore”, l’ostium ovium.
Però questo
discorso può apparire troppo gratificante, e questa conclusione può essere
criticata come troppo ottimistica e cadere sotto il monito rivolto ai profeti
che raccontano i loro sogni (Ger. 23,
27), che profetizzano secondo i loro desideri, che dicono pace e la pace non
c’è (Ez. 13, 10).
Certo mi
separerei a fatica da questa interpretazione del pontificato di Francesco, che
me lo fa apparire come un pontificato messianico, che annuncia un tempo nuovo, ed
un tempo che è questo. È l’ipotesi che ho tenuto ferma, e che ha alimentato la
mia speranza fin qui. Però anch’io ho paura che possa non essere vero, non
oggi. Allora mi azzarderei a dire
che ci possa essere una seconda interpretazione del pontificato di Francesco, anche
se più drammatica. La seconda interpretazione è che esso rappresenti piuttosto
una forza frenante, l’ultima difesa prima della catastrofe, l’evento a sorpresa
che impedisce che la catastrofe avvenga. C‘è un passo messianico della seconda
lettera ai Tessalonicesi, in cui Paolo dice che è in atto un “mistero
dell’anomia”, che Gerolamo traduce in “misterium
iniquitatis”. Ma Paolo parla proprio di mistero dell’anomia, che è insieme
assenza di legge, distruzione, apostasia. Ebbene, questo mistero dell’anomia
viene trattenuto da una forza che lo contrasta, che Paolo chiama katékon, “colui che trattiene”. È questa
forza che fa da argine al mistero dell’anomia, e trattiene quello che
Paolo chiama l’“anomos”: si tratta dell’uomo senza legge che pretende
mettersi al posto di Dio, di un potere che si fa potere a se stesso, sciolto da
ogni legge, “legibus solutus”, dunque il potere assoluto; qualcuno l’ha
chiamato l’anticristo. In una lettura
fatta nel presente, questa figura dell’anomos,
del “senza legge” potrebbe essere identificata nell’odierno potere globale, il
potere che domina nel sistema della globalizzazione selvaggia; esso è senza
legge, perché nessuna legge lo prevede, opera a un livello, quello
internazionale, dove il diritto non obbliga se non i consenzienti e i patti
sono stracciati uno dopo l’altro, dal protocollo di Kyoto al trattato
antimissile, al patto per instaurare due Stati in Palestina, alle convenzioni
sulla libertà dei mari e sul diritto dei profughi all’asilo; è un potere che governa
abrogando le leggi, sregolando i rapporti, garantendo immunità e sicurezza solo
al denaro e rendendo arbitra la guerra.
Ora, stando a quel passo della lettera di Paolo, dovrebbe
ergersi una forza che lo trattiene, che dovrebbe impedirgli di portare la
storia al collasso, un katékon,
appunto. Ma qual è questa forza? Secondo Tertulliano era l’Impero romano, che
col diritto frenava le forze della distruzione. Secondo Karl Schmitt, si tratta
di “una forza frenante in grado di trattenere la fine del mondo” ciò che secondo
lui era stato l’Impero cristiano, la cristianità costantiniana. Nessuno dei due
aveva ragione, e oggi è la
stessa Chiesa di Francesco che dichiara chiusa l’epoca della
cristianità, e decide di uscirne. Invece potrebbe essere il pontificato di papa
Francesco il vero punto di resistenza, la porta tagliafuoco che intercetta e
trattiene le forze che obbediscono alla seduzione della fine. Prima che l’amore
finisca, prima che la fede finisca, prima che venga meno la salvaguardia del
creato, il mondo giocherebbe così ancora la sua carta fidando nella
misericordia di Dio. Questo potrebbe essere il senso di questo pontificato.
Del resto se
ne sono visti dei segni evidenti. Era papa da poco, e da Lampedusa Francesco
tratteneva l’Italia e l’Europa dal lasciare libero corso alle stragi nel
Mediterraneo e le metteva in guardia contro il genocidio incombente nei
riguardi del popolo dei migranti. Era appena cominciato il pontificato, e con
una inedita iniziativa di preghiera globale Francesco riusciva a fermare la
corsa verso la guerra contro la Siria, che avrebbe portato all’estremo il
disastro già compiuto in Medio Oriente. Infine rifiutandosi di riconoscere come
riconducibile all’Islam l’estremismo terrorista, ha tolto fascine all’incendio
e ha impedito che precipitassimo in una guerra di religione, che sarebbe stata
la guerra della fine. In questo senso la Chiesa di Roma, in dialogo con le
altre religioni e Chiese, si è posta come forza frenante rispetto alla catastrofe
annunciata, come un katékon simile a
quello menzionato da Paolo. E nell’esercitare questa azione frenante, papa Francesco
ha fatto intravvedere le linee della
terra nuova, che possiamo oggi prefigurare ma in cui ancora non possiamo
entrare.
Perciò il
pontificato di Francesco, pur restando messianico per questo sguardo lanciato
sul tempo nuovo, potrebbe leggersi come katekonico, o agonico, per la lotta
ingaggiata contro le forze della distruzione, per salvare il futuro storico
dell’umanità amata da Dio.
Se questo è
vero, e se san Paolo ha ragione, tutto ciò spiega l’accanimento con cui papa
Francesco è combattuto. Perché il katékon
deve essere tolto di mezzo dalle forze di distruzione, che intendono compiere
la loro opera fino alla fine. Allora la riforma della Chiesa non è solo per una
Chiesa in uscita; inaspettatamente la Chiesa cattolica diventa il katékon che, come diceva Carl Schmitt,
“trattiene la fine del mondo”.
Ma se questa
è la parte che tocca alla Chiesa romana, essa non va subita come un fato, come
un destino, ma deve esplicitamente essere presa in carico da una cristianità
consapevole. Se il ruolo storico è di fermare la fine, allora questo deve
essere assunto come un compito. In questo caso, noi che facciamo?
Raniero La Valle
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