lunedì 2 maggio 2011

ASSEMBLEA NAZIONALE COMITATI DOSSETTI/ Intervento introduttivo di Raniero La Valle



Parole di apertura dell’Assemblea dei Comitati Dossetti il 29 aprile 2011 a Bologna

Raniero La Valle

UNITA’ E COSTITUZIONE 

Questa Assemblea si svolge in una situazione molto diversa da quella in cui eravamo quando l’abbiamo convocata, non foss’altro perché a tutte le ferite si aggiunge ora quella che siamo in guerra, e in un modo che ha fatto precipitare il governo al grado più basso della sua autorevolezza e credibilità sia interna che internazionale. Le rivelazioni fatte l’altra sera in TV da Edward Luttwak, frequentatore abituale della Casa Bianca, secondo cui i grandi capi dell’Occidente, Obama, Cameron, Sarkozy, cercano di parlare il meno possibile con Berlusconi, anche al telefono, perché temono il discredito che ne deriverebbe per loro e il danno politico che ne avrebbero nei confronti dei loro Parlamenti e dei loro elettorati, dovrebbero far scattare l’allarme rosso e provocare il più presto possibile, se c’è ancora carità di patria, l’uscita di scena di Berlusconi e di tutto il suo can can. Perciò perfino se la guerra fosse giusta, il 3 maggio si dovrebbe votare contro in Parlamento perché con un governo così non si può fare.

In ogni caso, l’aggravarsi della situazione rende ancora più necessario e urgente il nostro incontro per progettare le difese di una Costituzione sempre più oltraggiata e minacciata.
Come è noto, questa Assemblea è stata convocata sulla base di un documento – Unità e Costituzione – che qui diamo per letto e che, se non ci sono obiezioni, proponiamo come linee guida per il lavoro dei Comitati, ivi comprese le iniziative per una petizione popolare al Parlamento, per un Aventino del popolo che talloni il governo, e per un’iniziativa di pace che reclami un aggiornamento dell’ONU e tenda a costituzionalizzare i beni comuni dell’intera umanità.
Ricordiamo però i due compiti principali di questa nostra Assemblea.
Il primo compito è quello di presentare pubblicamente la proposta che abbiamo fatto ai partiti democratici di andare alle elezioni politiche con una intesa tra le diverse coalizioni o “poli”, che stabilisca un collegamento tra loro ispirato a patriottismo costituzionale e a un uso alternativo della ingiusta legge elettorale attuale. È la proposta di una “coalizione di coalizioni” che lasciando ciascuna di esse libera di competere per il governo, nel suo complesso produca un risultato elettorale tale da vanificare la previsione della legge Calderoli di un esorbitante premio di maggioranza e di sbarramenti punitivi per le minoranze, misure che nel loro insieme travolgono il principio di rappresentanza e producono un Parlamento che non rassomiglia per niente al Paese.
Il fatto stesso che abbiamo elaborato e avanzato questa proposta è un segno della grave emergenza democratica nella quale ci troviamo, per cui bisogna pensare a rimedi anche audaci e inconsueti.
La proposta aveva due motivazioni fondamentali che restano valide al di là dell’accoglienza che potrà avere dai partiti.
La prima motivazione era di sgombrare il campo dall’idea che andare alle elezioni senza aver prima modificato la legge Calderoli sarebbe stato un disastro. Questa legittima preoccupazione, unita alla determinazione della maggioranza di non cambiare la legge elettorale, si risolveva però in un regalo a Berlusconi che in questa paura dell’opposizione trovava un supporto al suo strenuo proposito di arrivare fino alla fine della legislatura.
Aprire invece una possibilità di andare alle urne, anche a legislazione elettorale vigente, senza l’incubo che il meccanismo maggioritario attribuisse di nuovo a Berlusconi un potere incondizionato, significava restituire libertà alle forze politiche e rendere praticabile con sufficiente serenità l’ipotesi di un ricorso anticipato al voto.
Oggi questa motivazione sembra meno pressante perché sempre più gente ritiene la legislatura finita; i danni arrecati dal governo sono talmente grandi, la sua debolezza e la sua cattiva fama così evidenti, l’abuso dell’appello alla investitura popolare così ingannevole, che un voto anticipato appare oggi sempre più necessario e anche plausibile.
La seconda motivazione era quella di prospettare una fase di risanamento democratico, presumibilmente destinata a durare almeno per tutta la prossima legislatura. Perciò noi pensiamo che il nuovo Parlamento dovrebbe essere sottratto, fin dalla sua elezione, alla cultura dello scontro politico all’arma bianca, dovrebbe uscire dalle asprezze di un bipolarismo inconsulto e dovrebbe ricostituire un pluralismo virtuoso delle forze politiche, cosa possibile solo se, almeno per questo giro, esso fosse eletto col sistema proporzionale.
Anche questa prospettiva sembra oggi meno lontana dalla realtà. La catastrofe del berlusconismo è anche la catastrofe del bipolarismo selvaggio di cui esso si è alimentato e che lo ha reso possibile. Le forzature maggioritarie ispirate al mito della governabilità dovrebbero aver dimostrato a tutte le forze politiche, anche a quelle che a sinistra avevano condiviso questa ideologia, tutta la loro fallacia e il rischio mortale che portano con sé. Ciò è evidente per le forze di minoranza che sono state escluse dal Parlamento. Ma dovrebbe essere evidente anche per il maggior partito di opposizione che in questi anni ha sperimentato non per suo demerito o per l’effetto Lingotto, ma per la spietata logica del sistema, una totale impotenza, che non può essere compensata dal miraggio di arrivare al potere domani. L’alternanza basata sullo spoil system,  sull’idea che tutto il potere tocchi oggi agli uni perché tutto il potere possano averlo gli altri domani, non solo è destinata a deludere gli stessi contendenti, ma è distruttiva del progetto stesso di un reggimento democratico.
Nel momento in cui si celebrano i 150 anni dell’unità d’Italia, un sistema politico che all’unità disegnata dalla Costituzione sostituisce la spaccatura tra due Italie inconciliabilmente in lotta tra loro, corrompe e distrugge non solo quello che si è costruito a partire dal 25 aprile 1945, ma anche quello che si è costruito a partire dal 17 marzo 1861; vuol dire buttare a mare non solo gli anni della Repubblica, ma anche quelli del Regno, non solo i partigiani ma anche i garibaldini, non solo i dolori del Mezzogiorno, ma anche i fasti della conquista piemontese.
Perfino la Lega, che ci ha regalato la legge Calderoli e ha offerto al berlusconismo l’accanimento terapeutico e l’alimentazione forzata per tenerlo in vita oltre il limite della sua sopravvivenza  fisiologica, dovrebbe tornare a considerare le virtù di un sistema rappresentativo a base proporzionale. Senza la proporzionale la Lega non sarebbe neanche nata, non avrebbe potuto farsi spazio nel sistema, a partire dalla sua condizione di minoranza. È vero che nel sistema bipolare essa ha acquistato poi una rendita di posizione, fino a condizionare l’intero governo; ma il prezzo è stato quello di schiacciarsi sulle posizioni del premier riservando a sé solo gli spazi del federalismo e della xenofobia; e ora che l’identificazione col premier si è fatta  non più tollerabile, l’alternativa è diventata per la Lega o quella o di cedere, per restare al potere, o di riprendere la propria autonomia ma al di fuori di una logica bipolare; in questo caso la Lega dovrebbe tornare a guardare alla proporzionale.
Quindi non è detto che l’attuale sistema sarà difeso ad oltranza; l’unico veramente interessato a mantenerlo è Berlusconi, perché è la fonte del suo potere. Tutti gli altri lo possono rimettere in discussione. E se non si vuole percorrere la strada che abbiamo indicato nella nostra proposta, si dovrebbe allora porre mano alla riforma della legge elettorale prima dello scioglimento delle Camere; una riforma che rimuova le storture della legge Calderoli, introduca un alto tasso di proporzionalità, rinunzi a premi che alterino il risultato elettorale, riammetta in Parlamento le forze che da esso sono escluse ma sono presenti nella società, reintroduca la scelta dei parlamentari da parte dei cittadini.

Il secondo compito di questa Assemblea è di riproporre con forza l’appello originario di Giuseppe Dossetti per una mobilitazione vasta e capillare dei cittadini, in ogni città e villaggio, per la salvezza della Repubblica.
Quello a cui abbiamo assistito in questi anni, e che è ora pienamente rivelato dal progetto di riforma costituzionale della giustizia, è il tentativo di sostituire alle regole dello Stato di diritto una professione di fede nella potenza carismatica e salvifica di un despota, come se i secoli fossero passati invano.
Noi oggi non assistiamo affatto a un conflitto tra i poteri dello Stato, perché non c’è nessun conflitto del giudiziario o del legislativo contro il governo, ma assistiamo alla pretesa dell’esecutivo di negare e assorbire ogni potere dello Stato nell’unico potere del despota. Anzitutto assorbire il potere del Parlamento, di cui è stata negata in via di principio l’utilità nel discorso del settembre scorso a Yaroslav, e che anzi è stato considerato dal premier come un intralcio e un difetto del sistema causato dai maldestri costituenti; e nel momento in cui la Camera, per il venir meno della maggioranza, poteva mettersi in dialettica col governo, essa per via di corruzione è stata risucchiata ed inclusa nell’area dell’esecutivo e ridotta a sua mera funzione, fino ad essere strumentalizzata nella frode dichiarata con cui si intende neutralizzare i referendum.
In secondo luogo si vuole assorbire il potere della magistratura. Secondo la riforma proposta da Alfano essa scompare perfino come nome nel titolo IV della Costituzione,  le viene tolta la qualifica di potere accanto agli “altri” poteri dello Stato, e in funzioni essenziali viene sottoposta all’autorità non più della Costituzione, ma della legge e quindi della maggioranza parlamentare a sua volta, come abbiamo visto, assorbita nell’esecutivo.
Viene eccepito che questo non significa la fine del diritto; certo, ma è l’instaurazione del diritto del despota. Come dice Kelsen: “Anche lo Stato retto dispoticamente rappresenta un certo ordine del comportamento umano. Questo è appunto l’ordine giuridico; quello che viene indicato come arbitrio è la possibilità giuridica dell’autocrate di avocare a sé ogni decisione, di determinare incondizionatamente l’attività degli organi subordinati e abolire o modificare continuamente, in linea generale o solo in particolare, norme già fissate”.
Questo è appunto ciò che sta avvenendo: non più la certezza del diritto ma il farlo e disfarlo secondo le convenienze, non più la legge sovrana, ma il sovrano come legge, non più il nomos basiléus cantato da Pindaro fin dagli albori della civiltà europea, ma il basiléus nomos del re fuorilegge che si issa sopra la legge.
Noi oggi non sappiamo quanto ancora resta della notte, e non c’è nessuna sentinella che ce lo possa dire. Ma sappiamo che dalla notte vogliamo e dobbiamo uscire, e che le prime tappe per questa uscita sono le elezioni del 15 maggio, che non dobbiamo perdere, e i referendum del 12 e 13  giugno, che dobbiamo difendere dalle manipolazioni, che devono raggiungere il quorum e che dobbiamo vincere: perché noi non siamo dei perdenti, se abbiamo vinto la grande sfida referendaria sulla Costituzione del giugno del 2006 e soprattutto se a resistere e a vincere saremo non noi, ma la Costituzione, l’Unità e l’impegno testimoniato dai nostri martiri, come Vittorio Arrigoni, a “restare umani”.

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