Martedì 12 giugno è cominciata in aula al Senato la discussione generale sulla riforma costituzionale, contro cui valgono le obiezioni formulate nella lettera dei dodici giuristi pubblicata il 1 giugno 2012 su “Repubblica” (la si trova, tra l’altro, in http://www.libertaegiustizia.it/2012/06/01/lappello-di-12-giuristi-il-parlamento-blocchi-la-riforma-costituzionale/ ).
Nella seduta del 7 giugno sono state respinte tutte le questioni sospensive, volte a interrompere l’iter della riforma, presentate dall’Italia dei Valori, dalla Lega e dai radicali, il che significa che la maggioranza non vuole desistere dal suo proposito di cambiare la Costituzione. Come ha notato il sen. Li Gotti (IDV), l’ipotizzata riforma mettendo il primo ministro al vertice dell’ordinamento stravolgerebbe il sistema armonico in cui la Costituzione pone i poteri dello Stato. Infatti dopo l’enunciazione dei principi e diritti fondamentali la Carta mette al primo posto il Parlamento, al secondo il presidente della Repubblica, al terzo il governo, al quarto la magistratura, segno inconfondibile della scelta a favore di una democrazia parlamentare. La modifica di quest’ordine, con la sovrapposizione del primo ministro al Parlamento, cambia l’intero sistema e corrisponde a un’altra idea di democrazia. Opporsi a questo slittamento non è una critica “al limite del grillismo” come ha detto liquidando la lettera dei dodici giuristi il
costituzionalista riformatore Barbera, ma è un monito contro riforme considerate lesive dell’intero impianto democratico; tacciare di “grillismo” questo democratico dissenso dai propositi riformatori della maggioranza, significherebbe negare in via di principio ogni discussione democratica, e proprio in ciò manifestare il vero senso regressivo della riforma.
La situazione è in ogni caso assai confusa, perché alle modifiche già concordate dai partiti della coalizione di governo, e alle intese preannunciate sulla legge elettorale, si sono aggiunti gli emendamenti presentati dal partito di Berlusconi per la trasformazione dell’Italia in una Repubblica presidenziale. Essi prevedono che il presidente della Repubblica sia eletto direttamente dai cittadini con votazioni a doppio turno per cinque anni, che possa essere rieletto una seconda volta, che nomini e revochi il primo ministro e i ministri, che presieda il Consiglio dei ministri e che tuttavia sia irresponsabile degli atti proposti e controfirmati dal governo.
Queste proposte improvvise hanno colto di sorpresa gli altri partiti partecipi dell’intesa (PD e UDC) e la conseguenza è stata che il dibattito sulla riforma sia stato introdotto giovedì scorso in aula senza l’illustrazione della relazione di maggioranza, il cui relatore Vizzini era assente, e con la sola presentazione degli argomenti che la demolivano, illustrati nella relazione di minoranza dal sen. Pardi: ciò è indice della confusione creata dall’inopinata mossa berlusconiana; in effetti se nella riforma già abbozzata si inserissero, senza un profondo rifacimento di tutto il sistema, gli emendamenti proposti da Alfano e dai suoi, si avrebbe una repubblica presidenziale alla francese, con primo ministro all’israeliana, sfiducia condizionata alla tedesca e collegi elettorali spagnoli.
E dell’Italia che ne sarebbe? Ai prossimi giorni la risposta.
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