Dove hanno sbagliato Mario Monti
e il suo governo? Secondo Edward Luttwak, che si intende di cose italiane, Monti
ha sbagliato perché invece di fare ciò che come tecnico poteva fare senza
pagare pedaggi politici, come ad esempio ridurre drasticamente lo stipendio del
capo della polizia che in Italia guadagna quattro volte di più del capo
dell’FBI in America, e invece di fare qualche taglio salutare ai compensi
sproporzionati di grandi funzionari e manager di Stato, si è messo in mente di
rifondare la Repubblica
e si è accanito su temi squisitamente politici e causa di sofferenza per tutti,
come il regime delle pensioni e le modalità dei licenziamenti. A sua volta
Obama ha lamentato che mentre la dottrina del rigore e gli interventi di sistema
avranno effetti a lungo termine, è adesso che ci vogliono scelte di rilancio
dell’economia e della fiducia.
Insomma Monti non ha messo la tecnica al servizio della politica, ma ha messo la tecnica al posto della politica, nella presunzione sbagliata che i governi non debbano scegliere tra diverse alternative, ma solo applicare integralmente leggi incontestabili dettate dalla natura stessa delle cose, come sarebbero le leggi
Insomma Monti non ha messo la tecnica al servizio della politica, ma ha messo la tecnica al posto della politica, nella presunzione sbagliata che i governi non debbano scegliere tra diverse alternative, ma solo applicare integralmente leggi incontestabili dettate dalla natura stessa delle cose, come sarebbero le leggi
dell’economia,
delle borse e dei Mercati. Sulla base di questa idea quello che doveva essere
un governo fatto per l’emergenza rischia di diventare un governo che modifica
addirittura l’assetto istituzionale del Paese. Il pompiere si fa architetto. E
sono messe in gioco anche scelte fondamentali e di principio, tanto che è anche
partita una convulsa e pasticciata riforma costituzionale che un’inesistente
maggioranza politica vorrebbe approvare subito perché “adesso o mai più”, e che
secondo la destra berlusconiana, e non solo, dovrebbe giungere fino alla
repentina trasformazione dell’Italia in una Repubblica presidenziale in salsa
francese, con cancellierato alla tedesca e collegi elettorali spagnoli; e ciò,
naturalmente, per un miglior funzionamento tecnico delle istituzioni, e in
sostanza del potere.
Questo passaggio dalla politica alla
tecnica è molto pericoloso. Quando per Hitler il problema dell’egemonia in
Europa si è risolto nel problema tecnico dell’annessione dell’Austria, o la
cosiddetta “questione ebraica” è diventata appalto dei tecnici dei campi di
sterminio, il mondo ha rischiato la fine. Ma è pure un olocausto quello di
miliardi di poveri, disoccupati e affamati in tutto il mondo che da anni, e
oggi più che mai, vengono considerati solo come delle variabili dipendenti o
magari danni collaterali della migliore funzionalità dell’economia finanziaria
e del capitalismo realizzato.
Nel secolo scorso si è molto
discusso, da Weber a Heidegger a Panikkar, del dominio della tecnologia come
destino e crisi della civiltà moderna, ma è nel momento in cui la tecnica si
innalza, libera da lacci e lacciuoli, sul trono del potere, che i problemi
esplodono e ci si rende conto che tutto deve essere pensato di nuovo.
È evidente per esempio che da un
punto di vista tecnico sarebbe bene che i pensionati non vivessero tanto a
lungo, perché il sistema previdenziale non si può sobbarcare al peso di
pensioni di gente troppo longeva; ci vorrebbe più flessibilità in uscita dalla
vita, ciò a cui del resto ulteriori tagli alla sanità possono ottimamente
provvedere. Questo dice la tecnica. La politica invece sa che questi sono
problemi umani, non tecnici. Ed ora tocca a lei mettere fine alla recessione e
far ripartire il lavoro, la produzione, gli scambi internazionali e i consumi,
cose a cui nessuna tecnica dei Monti, dei Draghi, dell’Europa monetaria e dello
spread ha saputo provvedere. Non è la techne
(parola greca) che salverà la
Grecia e noi, ma l’agàpe,
cioè la solidarietà e l’amore nella loro realizzazione politica.
In Italia il precipizio della
politica coincide con la crisi dei partiti. Però l’Italia ha un debito verso i
partiti. I partiti hanno costituzionalizzato l’Italia (loro hanno fatto la Costituzione ) ed ora
l’Italia deve costituzionalizzare i partiti, cioè dar loro regole certe di
onestà e trasparenza, incardinarli nei doveri e nelle garanzie costituzionali,
garantire il loro equo e controllato finanziamento, e assicurare loro una
rappresentanza parlamentare proporzionata alla loro forza reale.
Ci vuole un sistema di regole e
di libertà, perché non accada più quello che è successo a Reggio Emilia, dove
un partito - l’IDV – ha rivendicato per via giudiziaria un’elargizione di 3500
euro mensili e una penale di 100.000 euro da un consigliere regionale – Matteo
Riva – eletto nelle sue liste e poi, essendo caduto in disgrazia presso il
partito, passato al Gruppo misto. L’episodio, se isolato, è un fatto di
ordinario malcostume, ma se rispondesse a una prassi comune rappresenterebbe
una illegittima contrattualizzazione del rapporto tra i partiti e i loro
candidati ed eletti, ciò che non solo va contro il divieto costituzionale del
vincolo di mandato, ma sarebbe anche tra le vere cause della degenerazione e
del discredito della rappresentanza e della politica.
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