Palermo, 23 settembre 2015
«Gesù
disse ai Dodici: “ uno di voi mi tradirà”», Mc. 14,18-19
Discorso
tenuto alla settimana alfonsiana di Palermo il 23 settembre 2015
Il tema del tradimento di Gesù è un tema
molto delicato, che va maneggiato con prudenza, perché usarlo senza
discernimento può produrre conseguenze devastanti, come le produsse l’accusa di
deicidio. L’accusa di aver tradito Gesù è molto prossima all’accusa di
deicidio, e l’asserito tradimento di Dio legittima gli zelanti a prendere le
difese di Dio, a mettersi al posto di Dio per vendicarlo, e ciò è bastato
storicamente a riempire il mondo di violenza. Le religioni e le Chiese lo hanno
fatto molte volte; il fanatismo che si pretende islamico lo sta facendo anche
adesso. Ma non c’è neanche bisogno di essere credenti per difendere Dio e farsi
vindici di lui: gli atei devoti si stracciano le vesti in nome di un Dio in cui
non credono, il fascista ungherese che manda i poliziotti e i cani a fermare
l’esodo dei profughi, lo fa in nome di un’Europa che “non può non dirsi
cristiana” e che perciò vuole bianca, pura e spietata.
Bisogna
stare attenti nell’usare la categoria del tradimento perché ci sono molti
pretesi tradimenti che non lo sono affatto. Quello che gli uni soffrono come
tradimento, può essere invece una prova di lungimiranza, o anche di
misericordia e di amore. Quando cinque cardinali, contrastando le intenzioni
del papa sulla comunione ai divorziati risposati scrivono un libro intitolato:
“permanere nella verità di Cristo”, di fatto accusano il papa di tradire il
Cristo e la sua verità.
La reazione di Paolo VI
Ma
se un papa può essere vittima di un’accusa di tradimento della fede e del suo
stesso ministero, un papa può anche perdere un po’ il senso della misura e accusare
di tradimento i suoi figli, quando sono figli che aprono nuove strade, come è
successo a Paolo VI quando gli è
venuto a mancare il coraggio di proseguire sulla via del Concilio.
E’
accaduto nel 1976.
Il
Concilio aveva chiuso formalmente l’età costantiniana, aveva detto che la
Chiesa non doveva più contare sul potere politico e l’imperio delle leggi,
aveva affermato la reciproca autonomia della comunità politica e della Chiesa,
aveva revocato la legittimazione teologica e il vincolo disciplinare dell’unità
politica dei cattolici, e pertanto ci furono dei cattolici che per le elezioni
politiche del 1976 decisero di rompere il blocco storico della Democrazia
Cristiana e di presentarsi come indipendenti nelle liste comuniste. Ciò suscitò
l’ira della gerarchia, ma aprì in tutta la Chiesa italiana uno straordinario
dibattito, che fu molto vivo anche qui a Palermo, su un modo nuovo di intendere
il rapporto tra fede e politica.
I
vescovi deplorarono quella scelta e Paolo VI la prese come una specie di offesa
personale, avendo sempre sostenuto la Democrazia Cristiana
e considerandola come uno strumento della Chiesa italiana e dello stesso
Pontificato, anche se non in chiave cesaro-papista ma maritainiana.
L’arrabbiatura di Paolo VI fu tanto maggiore dati i nomi dei cattolici che
avevano fatto quella scelta, tutti a lui ben noti e alcuni particolarmente
cari; i nomi erano quelli del prof. Paolo Brezzi, di Adriano Ossicini, Raniero La Valle , Mario
Gozzini, Piero Pratesi. D’altra parte Paolo VI non era nuovo a durezze e a
gesti di autorità tassativi pur nei confronti di persone a lui molto vicine,
magari anche per un dissenso politico. Otto anni prima aveva deposto il
cardinale Lercaro da arcivescovo di Bologna dopo che il cardinale nella
cattedrale di Bologna aveva condannato i bombardamenti americani sul Vietnam
del Nord, dichiarando che la via della Chiesa non era quella della neutralità,
e perciò del silenzio, ma quella della profezia. Così di fronte ai cattolici
che si erano presentati “in liste inconsuete” – come dirà poi il vescovo
Bettazzi – Paolo VI la prese assai male e li accusò di tradimento.
Era
il mercoledì 12 maggio 1976, le liste erano state appena presentate per le
elezioni che si sarebbero tenute il
21 giugno. Nell’udienza generale il papa evocò la triste
condizione del cristiano che, come Gesù “incontrerà nel mondo l’opposizione, la
persecuzione, l’ingiustizia”. Anzi, aggiunse, «incontrerà fra gli stessi
fratelli di fede, la discordia, l’avversione e perfino il tradimento: “i nemici
dell’uomo, ha pur detto Gesù, saranno quelli della sua casa”». E qui Paolo VI
formulava il suo anatema, così esplicito che gli mancava solo il nome dei
destinatari; e diceva: “come è comune, vicina a noi, oggi, questa sofferenza!
Talvolta gli amici più cari, i colleghi più fidati, i confratelli della
medesima mensa sono proprio quelli che si sono ritorti contro di noi! La
contestazione è diventata abitudine, l’infedeltà quasi affermazione di
libertà”.
I
pellegrini che partecipavano a quell’udienza generale naturalmente non capirono
affatto con chi il papa ce l’avesse; né poteva capirlo la Chiesa a cui il papa
si rivolgeva in tutta la solennità del suo magistero; in realtà Paolo VI
parlava di sei-sette persone che come esploratori avevano sondato un cammino,
su cui tutti poi avrebbero camminato, ma che per lui erano “i figli che hanno
tradito”. E la domenica successiva, 16 maggio, affacciandosi per il Regina Coeli alla finestra di San Pietro
rincarava la dose, alludendo a non meglio precisate “congiunture” in cui erano
in gioco “la fedeltà e la coerenza”e diceva: “preghiamo per quanti sono tentati
di debolezza, di opportunismo, di viltà; preghiamo per quelli che soffrono, per
la coerenza alla verità, alla giustizia, alla carità, affinché forti
rimangano”, e qui forse pensava a quelli che restavano democristiani. Rivista
quasi sessant’anni dopo, appare chiaramente come questa posizione di Paolo VI
fosse viziata da un errore di analisi: il tentativo di stabilire un rapporto
positivo con i comunisti, per salvare la democrazia italiana, e la pace stessa,
tentativo che il papa metteva in conto all’incoerenza, all’opportunismo e alla
viltà, ben presto avrebbe mostrato la sua eroica qualità etica e la sua
necessità politica nella testimonianza cristiana e nel sacrificio di Aldo Moro , martire della
“carità politica”; evento così sconvolgente per il papa, che egli non gli
sopravvisse.
Chi tradisce se stesso
Perciò
io starei molto attento a parlare di tradimenti, perché è molto difficile dire
chi tradisce chi. Del resto perfino su Giuda non abbiamo smesso di discutere da
quando tradì Gesù; e Gesù stesso di certo lo ha perdonato, se è vero, come
instancabilmente dice papa Francesco, che Dio perdona tutti.
Tutto
ciò per dirvi perché io stasera preferisco non parlare dei tradimenti. Chi può
giudicare? In genere sono le istituzioni totali quelle più aduse all’accusa di
tradimento, con effetti spesso micidiali.
Invece
vorrei parlare di chi tradisce se stesso, perché mi pare che le tragedie più
grandi con cui anche ora abbiamo a che fare sono causate da chi tradisce se
stesso. Persone o soggetti collettivi che siano, il vero tradimento è di chi
dissipa i propri talenti, stravolge la propria identità e la propria storia, e
si consegna per ignavia o per calcolo alle idee e agli interessi dei propri
avversari. Perché questo è il significato del verbo tradire: consegnare
qualcuno all’avversario, e tradire se stesso vuol dire consegnarsi al nemico,
interiorizzarne il dominio.
L’esempio
più eclatante è quello della sinistra che si è consegnata mani e piedi al
capitale, del popolo sovrano che ha ceduto la propria sovranità al mercato, del
Partito Democratico che liquida gli ideali di cui è erede, straccia proprio in
questi giorni la Costituzione e passa all’instaurazione di un regime. E’ un
tradimento di se stessi che obbedisce a una sorta di pulsione di morte, come
quella che papa Francesco imputa al mondo, quando dice, come ha fatto il 14 settembre a Radio Renascença che “oggi il mondo è in
guerra contro se stesso, una guerra combattuta a pezzi che sta progressivamente
distruggendo la nostra casa comune”.
L’ Europa, un tradimento che comincia
Di
esempi di grandi istituzioni che sono state o sono in guerra contro se stesse
se ne potrebbero fare molti. Io mi limiterò a parlare di un tradimento che
comincia e di uno che finisce.
Il
tradimento che comincia è quello dell’Europa che alza le sue barriere contro i
popoli che una volta voleva civilizzare. Forse si potrebbe parlare di un
tradimento che continua, perché il tradimento delle sue radici cristiane il
vecchio continente lo ha fatto già al momento della cosiddetta scoperta o
conquista dell’America, quando l’Europa, e con essa la Chiesa, come ha detto
papa Francesco ai movimenti popolari in Bolivia, ha recato offese e compiuto
anche crimini contro le popolazioni indigene di quel continente.
Ma
oggi il tradimento delle tanto rivendicate radici cristiane dell’Europa sta
andando in scena nel modo più plateale e spettacolare possibile, di fronte agli
attuali conflitti. Tutti lo vedono perché se oggi, come ha ricordato il papa il
17 settembre nel discorso al consiglio Cor
Unum, “le atrocità e le inaudite violazioni dei diritti umani che
caratterizzano questi conflitti, sono diffusi dai media in tempo reale,
pertanto sono sotto gli occhi del mondo intero”, anche l’Europa che ringhia e
si scontra con queste vittime disperate e inermi è sotto gli occhi di tutti e
ogni sera appare in televisione.
Nella
Bibbia si parla delle città di rifugio in cui chiunque poteva cercare riparo e
protezione contro i vendicatori che lo volessero uccidere. L’Europa si nega
come città di rifugio per i fuggiaschi e per i poveri e si costituisce invece
come città del privilegio per i suoi abitanti, da chiudere agli extracomunitari
e agli stranieri, per non mettere in comune e non spartire con gli altri il
proprio benessere. Gli altri non sono ammessi.
Si potrebbe dire, a proposito del filo
spinato e del muro che hanno sigillato le vie di transito in Ungheria, che il
caso non fa testo, perché in Ungheria c’è un fascismo, un nazionalismo razzista
al potere. Ma prima dell’Ungheria, c’è stata la Francia, che ha bloccato i
profughi sugli scogli di Ventimiglia, e in Francia non c’è il fascismo; c’è
l’Inghilterra che presidia Calais in nome della Regina; e dopo l’Ungheria c’è
la Slovenia, e ci sono gli altri Paesi dell’Europa dell’Est che intercettano i
popoli in marcia, vorrebbero fermarli, rimandarli indietro, chiuderli in
prigioni ed in ghetti. Ma oltre all’Ungheria, alla Slovenia, ai Paesi dell’Est,
c’è in realtà tutta l’Europa che tiene le frontiere chiuse, che non vuole
essere né contaminata né invasa, che apre i confini al denaro e alle merci ma
li chiude alle persone, che con i suoi trattati, con Dublino, con Schengen si
chiama fuori dal mondo, si illude di chiudersi in un cerchio magico, rifiuta di
stare insieme e di mischiarsi con i popoli vicini. E l’Italia non è da meno.
C’è una grandissima ipocrisia in Renzi, in Alfano, che si appellano all’Europa.
Ma l’Italia è l’Europa! Perché non comincia lei ad aprire le sue frontiere, a
permettere ai fuggiaschi, per guerre o per fame, ai perseguitati, ai
richiedenti asilo, ai migranti, di arrivare in Italia, negli aeroporti e nei
porti con aerei e navi di linea, e non chiusi nelle stive e abbandonati alle
onde sui barconi o nascosti nei cassoni dei TIR?
E’ la stessa ipocrisia che Renzi ha usato
nella condanna alla Grecia; dice di aver chiesto clemenza all’Europa,
all’Eurogruppo, ma l’Italia è l’Europa, è sovrana nell’Eurogruppo, non meno
della Germania, perché non ha condonato il suo credito alla Grecia, perché
anche lei le ha imposto condizioni capestro?
L’Italia e l’Europa con la scelta in atto
– con l’eccezione ora, grazie a Dio, di Angela Merkel – si pone non come la
casa comune di un’accoglienza cristiana, ma come una società dell’esclusione,
dello scarto, dei respingimenti, dei rimpatri forzati, delle quarantene
concentrazionarie.
E qui c’è davvero per l’Europa il
tradimento delle sue origini. Perché fu un grande papa, Gregorio Magno, che nel
VI secolo, di fronte alla crisi dell’Impero sotto la pressione dei popoli
migranti ed invasori, invece di indire crociate per la sua difesa proruppe in un
inno di gioia, perché nuovi popoli si affacciavano alla storia e stava nascendo
l’Europa, e la parola del Vangelo poteva giungere là dove si erano parlate fino
ad allora le lingue dei barbari. “Dov’è il Senato? – esclamava – Dov’è il
popolo? … Tutto è bollito”. Ed era così angustiato che smise perfino di
commentare il Vangelo al popolo di Roma: ma la gioia era che la storia
continuava e si apriva all’universalità.
Un’Europa sterile e stanca, come papa
Francesca l’ha definita parlando al Parlamento europeo, un’Europa non madre ma
nonna, che non genera né figli né idee, che tributa sacrifici di sangue al dio
denaro che ha eletto a suo sovrano, è un’Europa che nega le sue origini, che
tradisce se stessa, che tradisce i poveri che vorrebbe tenere lontano da sé, e
tradisce anche gli ideali dei suoi Padri fondatori del Novecento, che la
volevano unita, ma con gli altri, non contro gli altri. E tuttavia bisogna
anche chiedersi se l’Europa è quella dei governanti che oggi la deturpano, o se
l’Europa è quella dei viennesi che soccorrono i profughi e dei contadini croati
che non tagliano le pannocchie di mais ai confini dell’Ungheria per permettere
ai migranti di passare nascosti nei campi.
La Chiesa, un tradimento che finisce.
Per un tradimento che comincia, ed anzi
che continua, c’è un tradimento che, felicemente, finisce. Ed è il tradimento di cui si poteva
accusare la Chiesa.
Perché anche la Chiesa ha tradito se stessa, quando per mille
anni, sequestrando la parola di Dio, ha voluto costituirsi come potere terreno
alterando così la stessa immagine di Dio che aveva la missione di trasmettere e
di annunciare.
E’ chiaro che non parliamo della Chiesa
eterna, corpo di Cristo, che non può tradire; parliamo della Chiesa
istituzionale e visibile nella quale, come dice il Concilio, la Chiesa di
Cristo “sussiste” senza tuttavia esaurirsi in essa.
Certo, qualcuno si può inquietare a
sentir parlare del tradimento della Chiesa. Eppure non solo Giuda ha tradito,
anche Pietro ha tradito, quando non ha voluto farsi riconoscere come seguace
del Signore o quando si è opposto alla lavanda dei piedi, tanto che il Signore
gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai.
E per secoli Pietro e la Chiesa non hanno
capito, se nel momento supremo della visita al Santo Sepolcro a Gerusalemme,
nella sua preghiera Paolo VI ha potuto dire: fedeli infedeli tante volte siamo
stati.
In che cosa è stata infedele la Chiesa,
in che cosa ha tradito la sua ragion d’essere?
Il compito della Chiesa era di dare
continuità all’incarnazione, di perpetuarne l’insegnamento ed i frutti.
L’incarnazione era avvenuta perché Gesù facesse conoscere il vero volto di Dio,
perché sfatasse le false rappresentazioni di Dio, svelasse i segreti di Dio,
come dice il Concilio, facesse l’esegesi del Padre, come dice il Vangelo di
Giovanni, e con questo Dio liberato dalle contraffazioni e dai fraintendimenti
stabilisse la nuova comunione di tutti gli uomini. Continuando ad esercitare il
ruolo di Gesù, la Chiesa doveva porsi come perenne smentita e critica delle
false rappresentazioni di Dio, e come svelamento e trasparenza della vera
identità e del vero sentire del Padre.
Ma perché nell’economia divina c’è stato
bisogno dell’incarnazione per far vedere Dio, e perché c’è stato bisogno che
essa continuasse nella Chiesa?
La ragione è che su Dio ci si può
sbagliare. Si può prendere per Dio qualcuno o qualcosa che non è affatto Dio.
Dio infatti è vicino e lontano,
conoscibile e inconoscibile, svelato e nascosto, invasivo e discreto, e perciò
è molto facile sbagliarsi su Dio, perciò il mondo è stato sempre pieno di falsi
dii, di idoli, e Dio è stato mal capito, mal pregato, frainteso. Tutta la
storia, anche la storia che i padri della Chiesa chiamavano sacra, è stata una
storia di una progressiva ma contrastata conoscenza ed esperienza di Dio, e
anche di progressivi svelamenti e nascondimenti di Dio. Ci sono molte storie di
Dio, anche nella Bibbia, da cui emerge un Dio poco credibile.
Un recente documento della Commissione
Teologica Internazionale, cioè dei teologi del papa, su cui torneremo, dice con
estrema chiarezza che nella Bibbia ci sono dei fraintendimenti di Dio.
Ora, questa parziale o inferma o errata
comprensione di Dio ci può essere anche nelle religioni e nelle Chiese.
Così è avvenuto anche nella Chiesa
romana, soprattutto negli ultimi mille anni, a partire dalla rottura tra
Oriente e Occidente e dalla riforma papale assolutista e sacralizzante di
Gregorio VII. E il tradimento, o l’infedeltà, sono consistiti nel trasmettere
al mondo un immagine travisata di Dio, schiacciata sul potere terreno e
incapace di promuovere o assecondare il progresso storico; un Dio avverso alla
scienza, contrario allo Stato e alle libertà moderne, intollerante delle altre
religioni, perfino delle altre confessioni cristiane.
E’con questo Dio che la modernità è
entrata in conflitto, è di questo Dio che la secolarità, anche cristiana, ha
detto: “facciamo come se Dio non ci fosse”; e la conseguenza è stata quella di
una crescente apostasia dalla fede, che ormai si è generalizzata, almeno in
Occidente, tanto da rendere attuale la domanda di Gesù: quando tornerò troverò
ancora la fede sulla terra? Questa inferma rappresentazione di Dio veicolata dalla
Chiesa, è durata fino al Concilio Vaticano II, con il suo “carico di errate
preghiere” onde si credeva di rendergli onore, come cantava padre Davide Maria
Turoldo, che non a caso è stato così importante nella nostra vita.
Per questo Giovanni XXIII assegnò al
Concilio il compito di parlare di Dio agli uomini in modo nuovo, non ripetendo sterilmente
le vecchie dottrine in cui aveva trovato “rivestimento” la fede, ma
investigando più profondamente (“reinvestigetur)
ed enunziando il messaggio cristiano in quel modo che i nostri tempi
richiedono, “ea ratione quam tempora
postulant nostra”. E questo era il punctum
saliens, il punto saliente, il vero cimento del Concilio, diceva papa
Giovanni nel suo discorso inaugurale, la Gaudet
Mater Ecclesia.
Se ora si legge l’intero corpus dei testi conciliari in
quest’ottica, si vede come essi rechino uno splendido ed esaltante nuovo
annunzio di Dio, e raccontino una nuova, consolante, inaspettata storia della
salvezza, dove non c’è nessuna natura umana decaduta dalla perfezione
originaria, dove anche dopo il primo peccato Dio non ha mai abbandonato l’uomo,
dove il creato è in evoluzione e dove la perfezione sta alla fine. Questo è
stato il vero dono del Concilio, al di là della mal riuscita riforma della
Chiesa, questa è stata la sua vera pastoralità.
Questo dono è rimasto tuttavia a
ristagnare nella Chiesa per quasi cinquant’anni, sicché non si può dire che
questo scarto o ritardo della Chiesa rispetto alla missione di trasmettere la
vera immagine di Dio sia stato sanato. Ma il Concilio non è finito l’8 dicembre
1965, esso si prolunga nel pontificato di papa Francesco e continuerà con
l’anno santo della misericordia che Francesco ha voluto cominciasse proprio l’8
dicembre di cinquant’anni dopo.
Sicché Concilio, papa Francesco, anno
della misericordia non sono tre eventi che si succedono nel tempo, ma sono un
unico evento che facendo irrompere nel mondo, in un modo inatteso, il Dio della
misericordia, dovrebbe dare avvio ad un tempo nuovo, non solo un anno della
misericordia, ma un’età della misericordia.
Perché questa è la novità: un Dio che fin
dal primo giorno del suo pontificato papa Francesco ha annunciato come il Dio
della misericordia, il Dio che perdona sempre, altrimenti il mondo non potrebbe
sussistere, come ha detto una “nonna” di Buenos Aires e Francesco ha riferito
nel suo primo “Angelus” alla
finestra. Dove la misericordia non è un semplice attributo di Dio, non è uno
dei bei 99 nomi di Dio, come dicono i musulmani, ma è l’ermeneutica di Dio, la
sua stessa identità, il criterio in base a cui unicamente Dio può essere
compreso e professato.
Perché, come ha detto Francesco, nell’Angelus del 6 settembre scorso,, quando
ha chiesto a tutte le parrocchie, le comunità e le Chiese di accogliere i
profughi, misericordia è il secondo nome dell’amore e nella Bibbia c’è una
guglia che sovrasta tutte le altre, è quella nella quale, una sola volta in
tutto il libro sacro, nella I lettera di Giovanni, si dice che Dio è amore. E
allora si capisce che cosa è venuto a fare papa Francesco, giungendo dalla fine
del mondo; è venuto a riaprire la questione di Dio che la modernità aveva
chiuso ritenendola ormai superata dal sapere scientifico, dalla tecnologia e
dalla globalizzazione. E si capisce qual è il senso di tutto il pontificato di
Francesco, il suo carisma e la sua strategia: dare al mondo un nuovo annuncio
di Dio, cioè fare esattamente quello che faceva Gesù, e proprio così riparando
e sanando l’oscuramento che era stato fatto
di lui.
Gli sbagli su Dio
Ma in che cosa il mondo si era sbagliato
su Dio? Una delle più gravi alterazioni dell’immagine divina, sia nelle culture
non bibliche, sia nella Bibbia, sia nella storia delle religioni e del mondo
fino ad ora, era stata l’immagine del Dio violento. Anche la Chiesa ha offerto
l’immagine di un Dio violento, capo di eserciti, pronto a punire, bisognoso di
essere placato con espiazioni, dolori e sacrifici.
Ciò fino al Concilio: ma è appunto con il
Concilio e poi con i papi fino a Francesco, che la Chiesa prende
definitivamente congedo dal Dio violento.
Il 6 dicembre 2013 esce un documento
della Commissione Teologica Internazionale, pochi mesi dopo l’elezione di
Francesco, ma già in preparazione da tempo con Benedetto XVI, in cui si
proclama l’”irreversibile congedo dal cristianesimo”dalle “ambiguità della
violenza religiosa” e si afferma che questo congedo dal Dio violento è
inseparabile dal futuro del cristianesimo e offre una reale opportunità, anche
alle culture secolari e alle altre religioni del mondo “per un ripensamento
dell’idea di religione”.
Nessuno può uccidere in nome di Dio; dirà
poi il papa Francesco nessuna violenza si può compiere in suo nome; la guerra, ripeterà
con papa Giovanni, è una follia.
Non si tratta dell’annuncio di un nuovo
Dio: se Dio è oggi proclamato non violento, vuol dire che lo era anche prima;
proprio questo del resto è il nucleo della fede trinitaria: sulla croce, contro la violenza, non è salito un uomo come
tanti, ma uno della Trinità: “unus de Trinitate
passus est” dice il Concilio di Costantinopoli. E questa verità
cristologica, dice il documento romano, non si è mai persa nella Chiesa e ciò
ha messo in contraddizione la prassi storica del cristianesimo con la sua
autentica ispirazione, spingendolo, “non senza il doloroso passaggio attraverso
lo scandalo di pratiche difformi”, verso “la rinnovata conversione alla purezza
del suo fondamento”. Però l’eclisse di questo fondamento c’era stata. E ora
questo definitivo approdo della Chiesa all’annuncio del Dio non violento
costituisce, secondo la Commissione Teologica
Internazionale , una “svolta epocale”. Si tratta di
riconoscere in questo congedo del cristianesimo dalla violenza religiosa “il
tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire
nell’odierno universo globalizzato, si tratta di riconoscere la grazia di un
discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza che
continua”: dunque svolta epocale, nuovo inizio, comincia una nuova età
dell’uomo.
Questo dunque è venuto a fare papa
Francesco, questa è la risposta alla domanda che egli si è posto all’inizio del
suo pontificato: chi sono io, Francesco?
Francesco è venuto ad aprire la porta
santa della misericordia, che non è solo la porta santa di San Pietro e delle
altre basiliche romane, ma è la porta di ogni casa del mondo, e perfino la
porta di ogni cella, perché, come dice l’istruzione per il Giubileo, ogni volta
che i carcerati passeranno per la porta della loro cella rivolgendo la parola e
il pensiero al Padre, giungerà loro la sua misericordia; perché la misericordia
di Dio, dice Francesco, “è capace di trasformare le sbarre in esperienza di
libertà”.
E questo è l’annunzio non solo di un
tempo nuovo, ma di un tempo messianico, che va afferrato ora, al suo apparire,
perché altrimenti finisce.
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