Discorso di Raniero La Valle tenuto a Zugliano del Friuli il 12 settembre 2015 per la presentazione del libro: “Chi
sono io, Francesco?”
Le
novità di papa Bergoglio.
Novità
del papato = riforma della Chiesa
Riforma
della Chiesa: cambia il suo modo di pensare se stessa e di pensare il mondo.
Dunque la cifra diventa quella del cambiamento. Il papa lo dice ai movimenti
popolari che incontra in America Latina a Santa Cruz de la Sierra in Bolivia il
9 luglio 2015: una cosa è certa, ci vuole il cambiamento.
Il
primo cambiamento riguarda l’immagine stessa di Dio.
Quali
sono gli stereotipi del nostro modo di pensare Dio?
Il
primo è quello di considerarlo tremendum
e fascinans, secondo la teorizzazione
fattane da Rudolf Otto all’inizio del Novecento nel libro “Il sacro”.
L’altro
stereotipo è quello del Dio vindice, che punisce ed esalta, spietato e
misericordioso. Stereotipi veicolati dalla nostra massima cultura: Dante, Inferno
Purgatorio Paradiso (tutte visioni antropomorfiche), Michelangelo (Cappella
Sistina), il Dio tremendo nel giudizio e grazia per gli eletti Il Dio tremendo, vendicatore, spietato,
giudice, si può riassumere nel Dio violento, nella violenza di Dio. Su questa
icona di Dio si è costruito l’Occidente a partire dalle tre religioni
monoteiste.
Questo
Dio non persuade oggi, perché nel nome del Dio violento si sacrifica l’uomo
(dalla croce alle teste tagliate dai jihadisti sulla riva) e si distrugge la
terra (perché anche la terra patisce violenza ed è la grande esclusa dal
vangelo della globalizzazione; come dice la “Laudato sì” la violenza che c’è nel cuore umano si manifesta
anche nei sintomi di malattia (nelle ferite) che avvertiamo nel suolo,
nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi (n. 2).
Allora
due sono i casi: o si ricorre all’allegoria del Dio che si converte (dice la
Bibbia: Dio si pentì del male che aveva detto di fare e non lo fece, e Ninive
fu salva, Gn. 3, 10) oppure noi lo comprendiamo meglio e di conseguenza
annunciamo un Dio diverso. Come ha detto papa Giovanni sul letto di morte: “non
è il Vangelo che cambia siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Il cambiamento
operato da Francesco è di annunciare un Dio altro rispetto a quello degli
stereotipi umani. Dove lo trova, con quale autorità? In Dio stesso, nella
Scrittura. Ma come legge la Scrittura? E’ gesuita, e la legge come Gesù la
leggeva nella sinagoga di Nazareth. La sinagoga di Nazareth in cui Gesù leggeva
la Scrittura “secondo il suo solito” come dice il Vangelo, è come Santa Marta
in cui papa Francesco legge la Scrittura ogni mattina nella messa “secondo il
suo solito”. Gesù legge Isaia 61 nella sinagoga.
Il cap. 61 di
Isaia dice così:
Lo Spirito del Signore Dio è su di
me
perché il Signore mi ha consacrato con
l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai
poveri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati [l’ospedale
da campo!]
a proclamare la libertà degli schiavi
la scarcerazione dei prigionieri
a promulgare l’anno di misericordia
del Signore.
Gesù si fermò
qui ma il passo di Isaia continuava:
un giorno di vendetta per il nostro Dio
per consolare tutti gli afflitti
per allietare gli afflitti di Sion
per
dare agli afflitti di Sion
una corona invece della cenere,
olio di letizia invece dell’abito da lutto
canto di lode invece di un cuore mesto.
E’ chiaro che
qui tutto il discorso riguarda Israele, e infatti Isaia continuava:
Ricostruiranno le vecchie rovine
rialzeranno gli antichi ruderi
restaureranno le città desolate
devastate da più generazioni
ci saranno stranieri a pascere i vostri
greggi
e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli
(Is. 61, 1- 5).
Dal canto suo Luca
racconta così Gesù nella sinagoga:
Si recò a Nazareth dove era stato allevato
ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia, apertolo trovò il passo dov’era
scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato per dare ai poveri un lieto
annuncio,
per annunziare la liberazione ai prigionieri
e ai
ciechi il recupero della vista
per rimettere in libertà gli oppressi
e predicare un anno di grazia del Signore.
Ma a questo
punto Gesù interruppe la lettura:
poi arrotolò il volume, lo consegnò
all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi su
di lui. Allora cominciò a dire: “oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi
avete udito” (Luca, 4,16-21).
Dunque Gesù
legge la Scrittura con discernimento selettivo, non annuncia la vendetta di Dio
e tralascia ciò che seguiva e che mondanamente si riferiva alle sorti anche
politiche di Israele.
Se anche noi leggiamo così la Scrittura, come
la vediamo adempiersi nella predicazione di papa Francesco?
Nel ministero di papa Francesco c’è anzitutto
l’annunzio ai poveri che, come ha detto all’incontro dei movimenti popolari in
Vaticano il 28 ottobre 2014, non sono solo quelli che subiscono l’ingiustizia,
ma quelli che lottano contro l’ingiustizia. Il papa poi aggiunge, nella Evangelii Gaudium, e in varie altre
occasioni che i poveri non sono solo destinatari privilegiati dell’annuncio, ma
sono depositari della fede e ci evangelizzano; sicché occorre “imparare dai
poveri”..
Dice la Evangelii
Gaudium al n.198: per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria
teologica, prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede
loro la sua piena misericordia.
E’ necessario che tutti ci lasciamo
evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la
forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della
Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare a loro la nostra
voce … ma anche ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci
attraverso di loro.
Per
quanto riguarda i prigionieri il papa dice nella lettera scritta per il
Giubileo a Mons. Fisichella che la misericordia del Padre giunge ai carcerati
ogni volta che essi passeranno per la porta della loro cella rivolgendo il
pensiero e la preghiera al Padre. Infatti “la misericordia di Dio è capace di
trasformare le sbarre in esperienza di libertà”; e le porte delle celle in tal
modo si trasformano in porte sante del Giubileo.
Quello
che diventa centrale nella predicazione di papa Francesco è la misericordia che
- come ha detto ai vescovi europei quando ha chiesto loro di accogliere in
ciascuna Chiesa e comunità cristiana una famiglia di profughi - è il secondo
nome dell’Amore. La misericordia non è una delle qualità di Dio ma è
l’ermeneutica di Dio nel senso che nulla si può dire di Dio che sia
incompatibile con la misericordia. La misericordia rimette in questione la
teologia, lasciata cadere dal Concilio Vaticano II, delle punizioni inflitte da
Dio all’uomo e della sua cacciata dal giardino dopo il cosiddetto “peccato
originale”. La misericordia è incompatibile con gli anatemi e con lo sterminio
inflitto alle città conquistate dagli israeliti, più volte evocati nell’Antico
Testamento; è incompatibile con la dottrina di S. Anselmo di un Dio che avesse
bisogno di una “soddisfazione” attraverso il sacrificio del Figlio; la
misericordia del “Dio che ama per primo” è incompatibile con la reciprocità che
si pretende istituire tra offesa a Dio ed espiazione da parte dell’uomo (a
cominciare da Gesù); la misericordia è incompatibile con il Dio violento
rappresentato in molte religioni.
Il definitivo
congedo dal Dio violento per la Chiesa cattolica è avvenuto col Concilio
Vaticano II. Per questo papa Francesco, che dal Concilio è ripartito, ha potuto
includere il Dio nonviolento nell’identikit del Dio che egli è venuto ad
annunciare per la salvezza delle genti. C’è un documento romano pubblicato
dalla Commissione Teologica Internazionale poco dopo l’elezione di papa Francesco,
ma in corso di elaborazione già prima, in cui si afferma che il Dio violento,
foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento della
fede, che l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è “la massima corruzione
della religione”, e che i teologi cristiani, con tutti i credenti, hanno dovuto
compiere “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito per
purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del
conflitto e dell’assoggettamento”; espressioni queste in cui si ammette che la
religione può essere corrotta, che la fede cristiana può essere contaminata, e
che la sua purificazione non avviene solo per puntuali interventi del magistero
ma per un lungo processo storico in cui è coinvolta la totalità dei credenti.
Questo
discorso di verità si trova nel documento Il
monoteismo cristiano contro la violenza approvato il 6 dicembre 2013 dalla
Commissione Teologica Internazionale, un organismo di teologi scelti dal papa e
presieduto dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (in
questo caso il card. Muller); si tratta perciò di un documento fornito di
un’elevata autorità dottrinale.
Quanti sbagli su Dio
Lo scopo era
di confutare il luogo comune secondo il quale il monoteismo, ammettendo un
unico Dio, sarebbe naturalmente gravido di violenza, mentre il politeismo con
la sua pluralità di dèi sarebbe per sua natura tollerante e pacifico. In verità
- si risponde – persecuzioni e violenze sono venute anche da poteri politeisti
e pagani; ma al di là di questa polemica, il documento contiene una rigorosa
rivisitazione e autocritica cristiana su Dio.
Il problema
davanti a cui si trovava la Commissione Teologica era che il Dio violento
rivelato e attestato con dovizia di parole e di eventi nella Bibbia è
incompatibile col Dio trinitario manifestato da Gesù, ma anche col Dio
ripensato dallo stesso Israele, oltre che col Dio scrutato dai teologi e dalle
teologhe di oggi. I teologi del papa riconoscono perciò – ed è il
riconoscimento più importante - che c’è stato un fraintendimento di Dio. Essi
ne trovano le tracce nella stessa Bibbia, così come fraintendimenti sono
possibili anche oggi. Ma sono possibili anche nuove illuminazioni e più alte
comprensioni di Dio, e infatti la Commissione Teologica Internazionale cita la Evangelii Gaudium di papa Francesco,
dove si rivendica «un’eterna novità» nell’annunzio (E. G. n. 11).
L’evolversi
di questa conoscenza del divino dipende dal fatto che tutto ciò che è di Dio,
anche il suo rivelarsi, passa per l’uomo, passa per le sue lingue, le sue
azioni, le sue culture; e dunque c’è una storicità della rivelazione che dà
ragione anche di una progressione e di un mutamento nella percezione umana di
Dio; e ciò tanto più riguardo al suo rapporto con la violenza, che è al centro
dell’intero pensiero umano su Dio. Richiamando le acquisizioni moderne della
critica biblica, i teologi pontifici ricordano come si debba “necessariamente
tenere conto degli stereotipi culturali e linguistici dei racconti di
rivelazione” e ribadiscono “la differenza che deve essere riconosciuta tra
l’autentica dottrina della Parola di Dio e gli stereotipi linguistici e
culturali del mito, della cosmologia e dell’antropologia, dell’etica e della
politica, della religiosità popolare e del senso comune in cui –
inevitabilmente – questi stereotipi trasmettono, semplificandola, la
consapevolezza della presenza e dell’azione di Dio nella storia”.
Giustamente
perciò, come sottolinea il documento romano, la prima Chiesa e la sapienza
patristica hanno respinto «la sommaria opposizione fra un Dio maligno “dell’ira
e della guerra” e un Dio buono “dell’amore e del perdono”» che si sarebbero
succeduti nel passaggio dalla rivelazione ebraica a quella evangelica,
dall’Antico al Nuovo Testamento: una “rozza semplificazione” che ancora oggi si
sente riecheggiare in certa apologetica popolare. Dio è sempre lo stesso. Senza
dubbio c’è però una storia della ricezione di Dio e della sua figura che passa
attraverso approssimazioni e correzioni successive, e raggiunge in Gesù il
momento della sua massima discontinuità.
Il testo della Commissione Teologica fa un’evocazione
senza sconti di violenze perpetrate in nome di Dio, e consegnate a pagine
bibliche “che rimangono anche per noi credenti molto impressionanti e molto
difficili da decifrare”, e ne riporta alcuni esempi: “Dio punisce il genere
umano con il diluvio (Gen. 6-7) e
distrugge Sodoma e Gomorra con il fuoco (Gen. 19). Dio infligge una serie di dure
punizioni all’Egitto, che culminano con la morte dei suoi primogeniti e con
l’annientamento dei suoi guerrieri (Es.
7-13). Nel periodo della conquista
della Terra promessa, udiamo più volte risuonare l’ordine di sterminio
(anatema) di interi eserciti e di intere città (cfr. Gs. 6, 21; 8, 22-25; 1 Sam 15, 3). Le forme di violenza
sacrificale, nel contesto delle guerre di conquista, appaiono anche come
promesse rivolte a Dio in vista del suo sostegno per la vittoria (Nm. 21,
1-3). Lo sterminio che segue la vittoria e la conquista è certamente una
pratica sacrificale praticata anche dagli altri popoli. Come anche i sacrifici
umani propiziatori, che sono presenti nella storia stessa dell’antico Israele (Lv. 20, 2-5; 2 Re 16,3; 21,6). Lo
attesta proprio il fatto che, nell’ultimo periodo profetico, queste pratiche,
che la stessa lettura deuteronomica denuncia come tipiche di Canaan (Dt. 12, 31), sono duramente condannate (Mi. 6,6-8;
Ger. 19, 4-6)”.
È evidente il
contrasto di questa immagine del Dio violento con la nostra attuale percezione
di fede. La Commissione Teologica Internazionale ha avuto il coraggio di non
risolvere la contraddizione facendo ricorso ad acrobazie interpretative ma
riconoscendo che c’è stato un cambiamento reale, che c’è stato un processo di
conversione che ha purificato l’immagine di Dio nel corso del tempo e nella
storia stessa del cristianesimo, nella quale non possiamo ignorare “i nostri
colpevoli e ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa”.
Da dove viene la nonviolenza divina
Ma per la
Chiesa la certezza di un Dio non violento viene dalla fede, e in particolare
dalla fede trinitaria che giunge fino a professare la spoliazione di Dio nella
forma umana e mortale del Figlio. Perché quello che finisce sulla croce non è
solo un uomo come tanti: è “uno della Trinità”, come diceva il II Concilio di
Costantinopoli: “Unus de Trinitate passus
est”. La supposta violenza del
Dio degli eserciti finisce, secondo quello che è il nucleo irriducibile della
fede cristiana, nell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Figlio,
che assorbe definitivamente l’antica legge (e ogni legge) nel doppio precetto
dell’amore di Dio e del prossimo. “Nella tradizione della Chiesa”, afferma la
Commissione pontificia, “il principio di questa verità cristologica di Dio non
si è mai perso, a costo di mettere in
contraddizione la prassi storica del cristianesimo con la sua autentica
ispirazione per provocarne – non senza il doloroso passaggio attraverso lo
scandalo di pratiche difformi – la
rinnovata conversione alla purezza del suo fondamento”.
Il
riconoscimento di questa contraddizione ha compiuto oggi un “salto
irreversibile di qualità, nella dottrina e nella prassi”, dicono con inusitata
radicalità i teologi del papa, diventando inseparabile
dal futuro del cristianesimo e offrendo la reale opportunità, alle culture
secolari e alle religioni del mondo, per “un ripensamento dell’idea di
religione”.
Si tratta
dunque di una svolta epocale; la nuova percezione di Dio, separata da ogni
traccia di violenza, non rappresenta solo un passaggio di riforma del
cristianesimo e delle Chiese cristiane, ma l’occasione di un ripensamento
profondo dell’idea stessa di religione; e si accende qui la speranza che
nell’unico Dio sia riconosciuta l’unità di origine, di cammino, di destinazione
del genere umano, che si celebri la riconciliazione tra gli uomini e l’arco di
guerra sia spezzato.
Le
conseguenze sono enormi. Si tratta di riconoscere nell’ “irreversibile congedo
del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa, il tratto di svolta
epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo
globalizzato”, si tratta di “riconoscere la grazia di un discernimento che
inaugura una nuova fase della storia della salvezza che continua”, si tratta di
suscitare, “in anticipo sulla storia che deve seguire”, l’immagine di una
religione definitivamente congedata “da ogni strumentale sovrapposizione della
sovranità politica e della signoria di Dio”. Ma c’è anche, nel documento
teologico romano, un’avvertenza molto importante: di non interpretare la non
violenza di Dio e l’umiliarsi “kenotico” del Figlio in uscita dalla sua
divinità (Fil. 2) come «una sorta di
depotenziamento radicale dell’essere», che si concede all’ingiustizia e alla
prevaricazione, «come se l’essenza dell’amore di Dio coincidesse in se stessa
con una sorta di “etica dell’impotenza” fondata su una “metafisica
dell’avvilimento”» come se lì fosse “il senso ultimo del sacrificio del
Figlio”. Non è così: in tal modo la «redenzione finirebbe per coincidere
puramente e semplicemente con la rassegnazione all’avvilimento e il versamento
del sangue» e darebbe ragione a «quella deriva doloristica della teologia che
assegna un automatico valore di redenzione al versamento del sangue in quanto
tale, senza far intendere esplicitamente che quel valore viene piuttosto dalla
carità con la quale il Figlio, come Servo di Dio, “dà la sua vita in sacrificio
per il peccato” (Is. 53, 10)».
La dignità dell’uomo nel causare le cose
Questo è un
punto delicato, perché riguarda il rischio di ricadere in quella sindrome di
vittimismo, alienazione e “decadenza” che da una parte della cultura moderna (a
cominciare da Nietzsche) è stata rimproverata al cristianesimo, bollato come un
sindacalismo della sconfitta; al contrario, è proprio nell’amore e nella
discrezione di un Dio che rifiuta di governare con violenza le azioni dell’uomo
e nella libertà dell’uomo che compie le azioni di Dio, che l’umanità realizza la sua vera dignità.
Qui ci sono
delle belle pagine della riflessione fatta dalla Commissione Teologica
pontificia, dove all’uomo non viene rinfacciata l’impotenza derivata dal
peccato, ma sulla scorta di san Tommaso viene riconosciuta la per nulla
scontata “causandi dignitas”, la
dignità cioè che consiste nella capacità dell’uomo, in quanto libero come Dio è
libero, di essere causa delle cose.
C’è una sorta di scambio nel causare le cose tra l’uomo e Dio. «Nella
sua pura e semplice perfezione” scrivono i teologi incaricati dal papa “Dio non
deve entrare in competizione con le creature. Al contrario, nella sua bontà e
sapienza, Dio ha dato alle creature la “dignità di essere causa” (dignitas causalitatis)». E qui si cita
la Summa Teologica di Tommaso che parla di “causandi dignitas”. «Egli rende
partecipe la creatura della sua sconfinata capacità di far-essere. Dio – questa
è la spiegazione –dona alle creature l’esistenza, la potenza di agire, e
l’azione stessa. Dio agisce perciò in tutto l’agire delle sue creature, ma non
agisce come una causa tra le altre».
Insomma
nemmeno per i cattolici c’è quel “Dio tappabuchi” che già il pastore Bonhoeffer
aveva respinto nelle sue lettere dal carcere prima di salire sul patibolo di
Hitler.
Tutto questo
significa il Dio nonviolento. Non significa solo che Dio non spara contro il
Faraone.
L’annuncio del Dio nonviolento
L’annuncio
del Dio nonviolento ha permesso al papa di affermare che in nessun caso si può
fare la guerra e usare violenza nel nome di Dio, e gli ha permesso di
smascherare le cause tutte umane dei genocidi e delle guerre. Esse sono il
mettersi dell’uomo al posto di un Dio sbagliato, e pretendere a se stesso
sacrifici umani (dunque un peccato di olocausto, come quello di Caino, evocato
da papa Francesco nel mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme), il dichiararsi
indifferenti alla sorte dei fratelli (a me che importa? (il papa a Redipuglia).
Sono forse io il custode di mio fratello: ancora il peccato di Caino, il vero
“peccato originale”) e la sete di profitti e di denaro soddisfatta con il
commercio delle armi:
La
misericordia, in quanto alternativa alla violenza, è l’antidoto alla “terza
guerra mondiale” che, secondo il papa, già si sta combattendo “a pezzi”.
Ma è anche
l’annuncio di “nuovi cieli e nuove terre”: cioè del regno di Dio (il regno della
misericordia, che è il nome di Dio).
La scelta
strategica del pontificato di Francesco
è pertanto quella di tornare ai nastri di partenza, cioè a Gesù e al suo
annuncio che precede la Chiesa e dice a tutti gli uomini che il Regno è vicino.
Ciò vuol dire che il contenuto proprio dell’annuncio è il Regno, non la Chiesa.
Se dunque il pontificato di papa Francesco si pone, seguendo Gesù, l’obiettivo
dell’annuncio e della venuta del regno, vuol dire che la categoria
interpretativa del pontificato non è quella della riforma ecclesiastica, non è
quella della dottrina sociale, non è neanche solo della profezia, ma è la
categoria messianica, cioè la rassicurazione che il regno c’è, viene, ed è
vicino.
Raniero La Valle
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