sabato 17 ottobre 2015

L’ANNUNCIO DEL REGNO DI UN DIO NONVIOLENTO


Discorso di Raniero La Valle tenuto a Zugliano del Friuli  il 12 settembre 2015  per la presentazione del libro: “Chi sono io, Francesco?”

Le novità di papa Bergoglio.
Novità del papato = riforma della Chiesa
Riforma della Chiesa: cambia il suo modo di pensare se stessa e di pensare il mondo. Dunque la cifra diventa quella del cambiamento. Il papa lo dice ai movimenti popolari che incontra in America Latina a Santa Cruz de la Sierra in Bolivia il 9 luglio 2015: una cosa è certa, ci vuole il cambiamento.
Il primo cambiamento riguarda l’immagine stessa di Dio.
Quali sono gli stereotipi del nostro modo di pensare Dio?
Il primo è quello di considerarlo tremendum e fascinans, secondo la teorizzazione fattane da Rudolf Otto all’inizio del Novecento nel libro “Il sacro”.
L’altro stereotipo è quello del Dio vindice, che punisce ed esalta, spietato e misericordioso. Stereotipi veicolati dalla nostra massima cultura: Dante, Inferno Purgatorio Paradiso (tutte visioni antropomorfiche), Michelangelo (Cappella Sistina), il Dio tremendo nel giudizio e grazia per gli eletti Il Dio tremendo, vendicatore, spietato, giudice, si può riassumere nel Dio violento, nella violenza di Dio. Su questa icona di Dio si è costruito l’Occidente a partire dalle tre religioni monoteiste.
Questo Dio non persuade oggi, perché nel nome del Dio violento si sacrifica l’uomo (dalla croce alle teste tagliate dai jihadisti sulla riva) e si distrugge la terra (perché anche la terra patisce violenza ed è la grande esclusa dal vangelo della globalizzazione; come dice la “Laudato sì” la violenza  che c’è nel cuore umano si manifesta anche nei sintomi di malattia (nelle ferite) che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi (n. 2).
Allora due sono i casi: o si ricorre all’allegoria del Dio che si converte (dice la Bibbia: Dio si pentì del male che aveva detto di fare e non lo fece, e Ninive fu salva, Gn. 3, 10) oppure noi lo comprendiamo meglio e di conseguenza annunciamo un Dio diverso. Come ha detto papa Giovanni sul letto di morte: “non è il Vangelo che cambia siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Il cambiamento operato da Francesco è di annunciare un Dio altro rispetto a quello degli stereotipi umani. Dove lo trova, con quale autorità? In Dio stesso, nella Scrittura. Ma come legge la Scrittura? E’ gesuita, e la legge come Gesù la leggeva nella sinagoga di Nazareth. La sinagoga di Nazareth in cui Gesù leggeva la Scrittura “secondo il suo solito” come dice il Vangelo, è come Santa Marta in cui papa Francesco legge la Scrittura ogni mattina nella messa “secondo il suo solito”. Gesù legge Isaia 61 nella sinagoga.
Il cap. 61 di Isaia dice così:

      Lo Spirito del Signore Dio è su di me
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati [l’ospedale da campo!]
a proclamare la libertà degli schiavi
la scarcerazione dei prigionieri
      a promulgare l’anno di misericordia del Signore.


Gesù si fermò qui ma il passo di Isaia continuava:

un giorno di vendetta per il nostro Dio
per consolare tutti gli afflitti
per allietare gli afflitti di Sion
            per dare agli afflitti di Sion
una corona invece della cenere,
olio di letizia invece dell’abito da lutto
canto di lode invece di un cuore mesto.

E’ chiaro che qui tutto il discorso riguarda Israele, e infatti Isaia continuava:

Ricostruiranno le vecchie rovine
rialzeranno gli antichi ruderi
restaureranno le città desolate
devastate da più generazioni
ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi
 e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli (Is. 61, 1- 5).

Dal canto suo Luca racconta così Gesù nella sinagoga:

Si recò a Nazareth dove era stato allevato ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia, apertolo trovò il passo dov’era scritto:
            Lo Spirito del Signore è sopra di me
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato per dare ai poveri un lieto annuncio,
per annunziare la liberazione ai prigionieri
           e ai ciechi il recupero della vista
per rimettere in libertà gli oppressi
e predicare un anno di grazia del Signore.

Ma a questo punto Gesù interruppe la lettura:

poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi su di lui. Allora cominciò a dire: “oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito” (Luca, 4,16-21).

Dunque Gesù legge la Scrittura con discernimento selettivo, non annuncia la vendetta di Dio e tralascia ciò che seguiva e che mondanamente si riferiva alle sorti anche politiche di Israele.
Se anche noi leggiamo così la Scrittura, come la vediamo adempiersi nella predicazione di papa Francesco?
Nel ministero di papa Francesco c’è anzitutto l’annunzio ai poveri che, come ha detto all’incontro dei movimenti popolari in Vaticano il 28 ottobre 2014, non sono solo quelli che subiscono l’ingiustizia, ma quelli che lottano contro l’ingiustizia. Il papa poi aggiunge, nella Evangelii Gaudium, e in varie altre occasioni che i poveri non sono solo destinatari privilegiati dell’annuncio, ma sono depositari della fede e ci evangelizzano; sicché occorre “imparare dai poveri”..
Dice la Evangelii Gaudium al n.198: per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica, prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro la sua piena misericordia.
E’ necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare a loro la nostra voce … ma anche ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro.
            Per quanto riguarda i prigionieri il papa dice nella lettera scritta per il Giubileo a Mons. Fisichella che la misericordia del Padre giunge ai carcerati ogni volta che essi passeranno per la porta della loro cella rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre. Infatti “la misericordia di Dio è capace di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”; e le porte delle celle in tal modo si trasformano in porte sante del Giubileo.
            Quello che diventa centrale nella predicazione di papa Francesco è la misericordia che - come ha detto ai vescovi europei quando ha chiesto loro di accogliere in ciascuna Chiesa e comunità cristiana una famiglia di profughi - è il secondo nome dell’Amore. La misericordia non è una delle qualità di Dio ma è l’ermeneutica di Dio nel senso che nulla si può dire di Dio che sia incompatibile con la misericordia. La misericordia rimette in questione la teologia, lasciata cadere dal Concilio Vaticano II, delle punizioni inflitte da Dio all’uomo e della sua cacciata dal giardino dopo il cosiddetto “peccato originale”. La misericordia è incompatibile con gli anatemi e con lo sterminio inflitto alle città conquistate dagli israeliti, più volte evocati nell’Antico Testamento; è incompatibile con la dottrina di S. Anselmo di un Dio che avesse bisogno di una “soddisfazione” attraverso il sacrificio del Figlio; la misericordia del “Dio che ama per primo” è incompatibile con la reciprocità che si pretende istituire tra offesa a Dio ed espiazione da parte dell’uomo (a cominciare da Gesù); la misericordia è incompatibile con il Dio violento rappresentato in molte religioni.
Il definitivo congedo dal Dio violento per la Chiesa cattolica è avvenuto col Concilio Vaticano II. Per questo papa Francesco, che dal Concilio è ripartito, ha potuto includere il Dio nonviolento nell’identikit del Dio che egli è venuto ad annunciare per la salvezza delle genti. C’è un documento romano pubblicato dalla Commissione Teologica Internazionale poco dopo l’elezione di papa Francesco, ma in corso di elaborazione già prima, in cui si afferma che il Dio violento, foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento della fede, che l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è “la massima corruzione della religione”, e che i teologi cristiani, con tutti i credenti, hanno dovuto compiere “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito per purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del conflitto e dell’assoggettamento”; espressioni queste in cui si ammette che la religione può essere corrotta, che la fede cristiana può essere contaminata, e che la sua purificazione non avviene solo per puntuali interventi del magistero ma per un lungo processo storico in cui è coinvolta la totalità dei credenti.
Questo discorso di verità si trova nel documento Il monoteismo cristiano contro la violenza approvato il 6 dicembre 2013 dalla Commissione Teologica Internazionale, un organismo di teologi scelti dal papa e presieduto dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (in questo caso il card. Muller); si tratta perciò di un documento fornito di un’elevata autorità dottrinale.

Quanti sbagli su Dio

Lo scopo era di confutare il luogo comune secondo il quale il monoteismo, ammettendo un unico Dio, sarebbe naturalmente gravido di violenza, mentre il politeismo con la sua pluralità di dèi sarebbe per sua natura tollerante e pacifico. In verità - si risponde – persecuzioni e violenze sono venute anche da poteri politeisti e pagani; ma al di là di questa polemica, il documento contiene una rigorosa rivisitazione e autocritica cristiana su Dio.
Il problema davanti a cui si trovava la Commissione Teologica era che il Dio violento rivelato e attestato con dovizia di parole e di eventi nella Bibbia è incompatibile col Dio trinitario manifestato da Gesù, ma anche col Dio ripensato dallo stesso Israele, oltre che col Dio scrutato dai teologi e dalle teologhe di oggi. I teologi del papa riconoscono perciò – ed è il riconoscimento più importante - che c’è stato un fraintendimento di Dio. Essi ne trovano le tracce nella stessa Bibbia, così come fraintendimenti sono possibili anche oggi. Ma sono possibili anche nuove illuminazioni e più alte comprensioni di Dio, e infatti la Commissione Teologica Internazionale cita la Evangelii Gaudium di papa Francesco, dove si rivendica «un’eterna novità» nell’annunzio (E. G. n. 11).
L’evolversi di questa conoscenza del divino dipende dal fatto che tutto ciò che è di Dio, anche il suo rivelarsi, passa per l’uomo, passa per le sue lingue, le sue azioni, le sue culture; e dunque c’è una storicità della rivelazione che dà ragione anche di una progressione e di un mutamento nella percezione umana di Dio; e ciò tanto più riguardo al suo rapporto con la violenza, che è al centro dell’intero pensiero umano su Dio. Richiamando le acquisizioni moderne della critica biblica, i teologi pontifici ricordano come si debba “necessariamente tenere conto degli stereotipi culturali e linguistici dei racconti di rivelazione” e ribadiscono “la differenza che deve essere riconosciuta tra l’autentica dottrina della Parola di Dio e gli stereotipi linguistici e culturali del mito, della cosmologia e dell’antropologia, dell’etica e della politica, della religiosità popolare e del senso comune in cui – inevitabilmente – questi stereotipi trasmettono, semplificandola, la consapevolezza della presenza e dell’azione di Dio nella storia”.
Giustamente perciò, come sottolinea il documento romano, la prima Chiesa e la sapienza patristica hanno respinto «la sommaria opposizione fra un Dio maligno “dell’ira e della guerra” e un Dio buono “dell’amore e del perdono”» che si sarebbero succeduti nel passaggio dalla rivelazione ebraica a quella evangelica, dall’Antico al Nuovo Testamento: una “rozza semplificazione” che ancora oggi si sente riecheggiare in certa apologetica popolare. Dio è sempre lo stesso. Senza dubbio c’è però una storia della ricezione di Dio e della sua figura che passa attraverso approssimazioni e correzioni successive, e raggiunge in Gesù il momento della sua massima discontinuità.
Il testo della Commissione Teologica fa un’evocazione senza sconti di violenze perpetrate in nome di Dio, e consegnate a pagine bibliche “che rimangono anche per noi credenti molto impressionanti e molto difficili da decifrare”, e ne riporta alcuni esempi: “Dio punisce il genere umano con il diluvio (Gen. 6-7) e distrugge Sodoma e Gomorra con il fuoco (Gen. 19). Dio infligge una serie di dure punizioni all’Egitto, che culminano con la morte dei suoi primogeniti e con l’annientamento dei suoi guerrieri (Es. 7-13). Nel periodo della conquista della Terra promessa, udiamo più volte risuonare l’ordine di sterminio (anatema) di interi eserciti e di intere città (cfr. Gs. 6, 21; 8, 22-25; 1 Sam 15, 3). Le forme di violenza sacrificale, nel contesto delle guerre di conquista, appaiono anche come promesse rivolte a Dio in vista del suo sostegno per la vittoria (Nm. 21, 1-3). Lo sterminio che segue la vittoria e la conquista è certamente una pratica sacrificale praticata anche dagli altri popoli. Come anche i sacrifici umani propiziatori, che sono presenti nella storia stessa dell’antico Israele (Lv. 20, 2-5; 2 Re 16,3; 21,6). Lo attesta proprio il fatto che, nell’ultimo periodo profetico, queste pratiche, che la stessa lettura deuteronomica denuncia come tipiche di Canaan (Dt. 12, 31), sono duramente condannate (Mi. 6,6-8; Ger. 19, 4-6)”.
È evidente il contrasto di questa immagine del Dio violento con la nostra attuale percezione di fede. La Commissione Teologica Internazionale ha avuto il coraggio di non risolvere la contraddizione facendo ricorso ad acrobazie interpretative ma riconoscendo che c’è stato un cambiamento reale, che c’è stato un processo di conversione che ha purificato l’immagine di Dio nel corso del tempo e nella storia stessa del cristianesimo, nella quale non possiamo ignorare “i nostri colpevoli e ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa”. 

Da dove viene la nonviolenza divina

Ma per la Chiesa la certezza di un Dio non violento viene dalla fede, e in particolare dalla fede trinitaria che giunge fino a professare la spoliazione di Dio nella forma umana e mortale del Figlio. Perché quello che finisce sulla croce non è solo un uomo come tanti: è “uno della Trinità”, come diceva il II Concilio di Costantinopoli: “Unus de Trinitate passus est”.  La supposta violenza del Dio degli eserciti finisce, secondo quello che è il nucleo irriducibile della fede cristiana, nell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Figlio, che assorbe definitivamente l’antica legge (e ogni legge) nel doppio precetto dell’amore di Dio e del prossimo. “Nella tradizione della Chiesa”, afferma la Commissione pontificia, “il principio di questa verità cristologica di Dio non si è mai perso, a costo di mettere in contraddizione la prassi storica del cristianesimo con la sua autentica ispirazione per provocarne – non senza il doloroso passaggio attraverso lo scandalo di pratiche difformi – la rinnovata conversione alla purezza del suo fondamento”.
Il riconoscimento di questa contraddizione ha compiuto oggi un “salto irreversibile di qualità, nella dottrina e nella prassi”, dicono con inusitata radicalità i teologi del papa, diventando inseparabile dal futuro del cristianesimo e offrendo la reale opportunità, alle culture secolari e alle religioni del mondo, per “un ripensamento dell’idea di religione”.
Si tratta dunque di una svolta epocale; la nuova percezione di Dio, separata da ogni traccia di violenza, non rappresenta solo un passaggio di riforma del cristianesimo e delle Chiese cristiane, ma l’occasione di un ripensamento profondo dell’idea stessa di religione; e si accende qui la speranza che nell’unico Dio sia riconosciuta l’unità di origine, di cammino, di destinazione del genere umano, che si celebri la riconciliazione tra gli uomini e l’arco di guerra sia spezzato.
Le conseguenze sono enormi. Si tratta di riconoscere nell’ “irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa, il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”, si tratta di “riconoscere la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza che continua”, si tratta di suscitare, “in anticipo sulla storia che deve seguire”, l’immagine di una religione definitivamente congedata “da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della signoria di Dio”. Ma c’è anche, nel documento teologico romano, un’avvertenza molto importante: di non interpretare la non violenza di Dio e l’umiliarsi “kenotico” del Figlio in uscita dalla sua divinità (Fil. 2) come «una sorta di depotenziamento radicale dell’essere», che si concede all’ingiustizia e alla prevaricazione, «come se l’essenza dell’amore di Dio coincidesse in se stessa con una sorta di “etica dell’impotenza” fondata su una “metafisica dell’avvilimento”» come se lì fosse “il senso ultimo del sacrificio del Figlio”. Non è così: in tal modo la «redenzione finirebbe per coincidere puramente e semplicemente con la rassegnazione all’avvilimento e il versamento del sangue» e darebbe ragione a «quella deriva doloristica della teologia che assegna un automatico valore di redenzione al versamento del sangue in quanto tale, senza far intendere esplicitamente che quel valore viene piuttosto dalla carità con la quale il Figlio, come Servo di Dio, “dà la sua vita in sacrificio per il peccato” (Is. 53, 10)».


La dignità dell’uomo nel causare le cose

Questo è un punto delicato, perché riguarda il rischio di ricadere in quella sindrome di vittimismo, alienazione e “decadenza” che da una parte della cultura moderna (a cominciare da Nietzsche) è stata rimproverata al cristianesimo, bollato come un sindacalismo della sconfitta; al contrario, è proprio nell’amore e nella discrezione di un Dio che rifiuta di governare con violenza le azioni dell’uomo e nella libertà dell’uomo che compie le azioni di Dio, che l’umanità  realizza la sua vera dignità.
Qui ci sono delle belle pagine della riflessione fatta dalla Commissione Teologica pontificia, dove all’uomo non viene rinfacciata l’impotenza derivata dal peccato, ma sulla scorta di san Tommaso viene riconosciuta la per nulla scontata “causandi dignitas”, la dignità cioè che consiste nella capacità dell’uomo, in quanto libero come Dio è libero, di essere causa delle cose.  C’è una sorta di scambio nel causare le cose tra l’uomo e Dio. «Nella sua pura e semplice perfezione” scrivono i teologi incaricati dal papa “Dio non deve entrare in competizione con le creature. Al contrario, nella sua bontà e sapienza, Dio ha dato alle creature la “dignità di essere causa” (dignitas causalitatis)». E qui si cita la Summa Teologica  di Tommaso che parla di “causandi dignitas”. «Egli rende partecipe la creatura della sua sconfinata capacità di far-essere. Dio – questa è la spiegazione –dona alle creature l’esistenza, la potenza di agire, e l’azione stessa. Dio agisce perciò in tutto l’agire delle sue creature, ma non agisce come una causa tra le altre».
Insomma nemmeno per i cattolici c’è quel “Dio tappabuchi” che già il pastore Bonhoeffer aveva respinto nelle sue lettere dal carcere prima di salire sul patibolo di Hitler.
Tutto questo significa il Dio nonviolento. Non significa solo che Dio non spara contro il Faraone.
 
L’annuncio del Dio nonviolento

L’annuncio del Dio nonviolento ha permesso al papa di affermare che in nessun caso si può fare la guerra e usare violenza nel nome di Dio, e gli ha permesso di smascherare le cause tutte umane dei genocidi e delle guerre. Esse sono il mettersi dell’uomo al posto di un Dio sbagliato, e pretendere a se stesso sacrifici umani (dunque un peccato di olocausto, come quello di Caino, evocato da papa Francesco nel mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme), il dichiararsi indifferenti alla sorte dei fratelli (a me che importa? (il papa a Redipuglia). Sono forse io il custode di mio fratello: ancora il peccato di Caino, il vero “peccato originale”) e la sete di profitti e di denaro soddisfatta con il commercio delle armi:
La misericordia, in quanto alternativa alla violenza, è l’antidoto alla “terza guerra mondiale” che, secondo il papa, già si sta combattendo “a pezzi”.
Ma è anche l’annuncio di “nuovi cieli e nuove terre”: cioè del regno di Dio (il regno della misericordia, che è il nome di Dio).
La scelta strategica  del pontificato di Francesco è pertanto quella di tornare ai nastri di partenza, cioè a Gesù e al suo annuncio che precede la Chiesa e dice a tutti gli uomini che il Regno è vicino. Ciò vuol dire che il contenuto proprio dell’annuncio è il Regno, non la Chiesa. Se dunque il pontificato di papa Francesco si pone, seguendo Gesù, l’obiettivo dell’annuncio e della venuta del regno, vuol dire che la categoria interpretativa del pontificato non è quella della riforma ecclesiastica, non è quella della dottrina sociale, non è neanche solo della profezia, ma è la categoria messianica, cioè la rassicurazione che il regno c’è, viene, ed è vicino.

 Raniero La Valle




  



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