Discorso di Raniero
La Valle per il
referendum costituzionale a Lucca il 26 maggio 2016.
Vorrei
partire, come spesso amo fare, dai fatti accaduti negli ultimi giorni.
Il primo, del
20 maggio scorso, è la presentazione del rapporto annuale dell’ISTAT, che ha
compiuto ora novant’anni di vita. Questo rapporto ci racconta i dolori della
situazione presente, con tutta la disperazione dei giovani, che sono arrivati a
una disoccupazione del 25,7 per cento; però quest’anno ci racconta anche la
storia di novant’anni da quando l’ISTAT ha cominciato a fare le statistiche,
cioè a partire dai nati nel 1926. La storia comincia cioè dalla generazione dei
partigiani, quelli che avevano venti, trent’anni nel 1945, i quali non solo
hanno fatto la Resistenza e la Costituente, ma poi hanno rifatto l’Italia. Per
dire di che si tratta, possiamo ricordare i partigiani di Reggio Emilia, che si
vendettero un carro armato rimasto sulla piazza, per fare gli asili nido. Badate
bene: non lo rottamarono, ci fecero un asilo nido, così i partigiani e le
partigiane diedero inizio a quella straordinaria esperienza pedagogica e
sociale che poi doveva essere la scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, oggi
nota in tutto il mondo. Ebbene, quando la generazione dei partigiani ha
governato l’Italia, il
prodotto interno lordo è cresciuto del 7 per cento all’anno, dall’agricoltura
si è passati all’industria e poi al terziario, nel 1963 si raggiunse la piena
occupazione, si facevano un milione di figli all’anno, si scatenò la stagione
dei diritti, e l’Italia, dal Nord al Sud, veniva invasa da frigoriferi,
televisori e utilitarie, fino ai computer di oggi; e tutto ciò con quella
Costituzione lì; e per questo i partigiani oggi, proprio come partigiani,
difendono la Costituzione, e non come una cosa di parte; e quelli che oggi ci
governano con i telefonini, dovrebbero sapere che a metterglieli in mano è
stata la generazione dei partigiani.
Un altro
avvenimento che vorrei ricordare qui a Lucca, considerata “città bianca”, è il lamento
che il papa ha rivolto il 6 maggio scorso ai leader europei, ricevendo il
premio Carlo Magno: “Che cosa ti è successo Europa – ha detto - un tempo paladina dei diritti dell’uomo, della
democrazia e della libertà”? Perché oggi, invece, è stanca e invecchiata,
pronta ad alzare muri invece di costruire ponti.
Con questa
denuncia il papa dimostrava un acuto senso della crisi. La stessa coscienza
della crisi mostrava nei confronti dell’Italia qualche giorno dopo, il 16 maggio,
parlando ai vescovi della Cei. “Anche in
Italia – ha detto – tante tradizioni,
abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento
d’epoca”; per i preti il contesto culturale è molto diverso da quello in cui hanno
cominciato il loro ministero, ed oggi – ha detto il papa – dobbiamo avvertire la durezza del
nostro tempo: “quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza
di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui
ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello”.
La prova del referendum in un Paese smarrito
Dunque c’è
uno smarrimento, i rapporti sono feriti. Tutti noi sentiamo questa inquietudine,
questo sgomento che turba la società civile; la gente soffre, ha perso i punti
di riferimento, si sente precaria, in balia di poteri e di forze che non può
controllare. L’antipolitica non è superficiale, è un pensiero profondo, perché
viene da lì, viene da questo sentimento di estraneità. Perfino la terra non è
più affidabile: ci dicono che se sale di due gradi la temperatura, non avremo
più nemmeno la terra sotto i piedi: ma la temperatura è già salita di oltre due
gradi! Non si possono fare progetti. Diceva Dietrich Bonhoeffer nelle sue
lettere dal carcere: “Noi siamo cresciuti nell’esperienza dei nostri genitori e
dei nostri nonni che l’uomo possa e debba progettare, costruire e plasmare la
propria vita in prima persona, che la vita abbia uno scopo per il quale l’uomo
deve decidersi e che poi possa perseguire con tutte le forze. Ma ora abbiamo
imparato che non possiamo concepire progetti nemmeno per l’indomani” (Resistenza e resa, Edizioni paoline, pag.
367).
Ebbene ora su
questo smarrimento piomba la lacerazione del referendum per cambiare la Costituzione. A
freddo, per un calcolo della casta politica, il Paese viene frantumato tra il
sì e il no alla Costituzione; si aggiunge spaesamento a spaesamento, e si getta
allo sbaraglio una cosa che ritenevamo sicura. E lo si motiva con argomenti
volgari. Sicché potremmo chiedere: Che cosa ti è successo Italia, se ti fai
dire che cambiano la Costituzione per diminuire le poltrone e per risparmiare
al governo una fiducia? Questo infatti ha detto Renzi aprendo sabato scorso la
campagna per il Sì. .
Ma quanto
costa rompere la fiducia? Già ne era rimasta poca, ma la Costituzione era tra
le poche cose che ancora ci univa. Siamo infatti divisi su tutto, il sistema
politico e le leggi elettorali ci hanno polarizzato in fazioni contrapposte, in
due o tre aggregazioni nemiche che si odiano e si insultano senza mai veramente
parlarsi, siamo divisi sull’euro, sull’Europa, sull’accoglienza ai profughi e
sulla guerra alla Libia, ma almeno c’era la Costituzione che ci univa con la
sua garanzia dei diritti, della pace, del protagonismo della grande platea dei
cittadini.
Come ha
scritto l’altro giorno sulla “Repubblica” Alfredo Reichlin, che è uno dei padri
nobili del Partito Democratico, quando si trattò di ricostruire una nazione dopo
la tragedia del fascismo e della guerra, ciò avvenne sull’idea della
Costituzione come il necessario “stare insieme” degli italiani, di tutti gli
italiani. “E ciò per l’assillo di far fronte alle sfide di quel tempo: le
rovine di una guerra perduta, il rischio di una guerra civile, di una
lacerazione tra Nord e Sud, ecc.”. Così anche adesso, diceva, c’è il bisogno e
la necessità di ritrovarsi in una “casa comune”
Invece la stiamo facendo a pezzi.
Rottamazione
significa questo: fare a pezzi ciò che, vivendo, era unito.
Ci sarebbe una bella riforma da fare
Si dice però
che la Costituzione era invecchiata. Era da venti anni, o addirittura da
settanta, per chi non sa fare i conti, che volevano cambiarla. Era lenta, dicono,
funzionava ancora e gettoni in un mondo digitale. Va bene, allora cambiamola.
Ma si tratta di una Costituzione, cambiamola dunque per farci grandi cose, per
esempio mettiamoci che la pace non è solo un diritto, ma anche un dovere, come
sta scritto nella Costituzione della Colombia. Mettiamoci che nei bilanci
pubblici le spese sociali, le spese per la scuola, le spese per la sanità, non
devono mai scendere sotto una certa soglia, devono crescere man mano che si
riducono le spese militari, quelle della burocrazia e altre spese improduttive.
Mettiamoci il reddito di cittadinanza. Mettiamoci che le banche servono agli
Stati e non gli Stati alle banche. Mettiamoci che l’euro non vuol dire che non
siamo più sovrani sulle decisioni dell’economia e della finanza. Mettiamoci che
a Bruxelles decidono i popoli e non le Troike. Mettiamoci un’Europa unita nella giustizia e nel
diritto, non nelle lacrime e sangue dei disoccupati e dei poveri. Mettiamoci che
tutti hanno diritto di asilo, i bambini nelle scuole e i profughi in Europa.
Mettiamoci, come voleva fare Dossetti alla Costituente, che lo Stato riconosce
come originario l’ordinamento giuridico internazionale, in modo che non
soccomba alla sovranità degli Stati. Mettiamoci, come chiedeva lo stesso
Dossetti, il diritto alla resistenza individuale e collettiva agli atti dei
pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti costituzionali
oppure mettiamoci, come è già scritto nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, “la ribellione contro la tirannia e l'oppressione”.
E invece si
butta a mare metà della Costituzione per una riforma miserevole. Renzi ha messo
in rete un sito il cui indirizzo web dice: “basta un Sì”. Ma questo Sì. è per
fare una caricatura del Senato e una parodia di senatori, per togliere al
governo l’incomodo di chiedere la fiducia a due Camere, per rendere più difficile
presentare leggi di iniziativa popolare, per indebolire presidente della
Repubblica e organi di garanzia, per mettere nelle mani dei prefetti il potere
di supremazia dello Stato sulle Regioni, per far decidere a uno solo la dichiarazione
dello stato di guerra, e, grazie alla legge elettorale pigliatutto detta Italicum, per dare il potere a un solo
partito, e così preparare un trono alla destra.
I cattolici del NO
È
per scongiurare questo pericolo che noi abbiamo costituito un movimento dei
cattolici del No. E subito c’è stata una polemica perché altri cattolici e la
stampa laica hanno detto: che cosa c’entra la fede con la Costituzione? Sostengono
che la scelta tra l’uno e l’altro modello costituzionale non si fa come
cattolici ma solo come cittadini, altrimenti ci sarebbe una caduta clericale,
una regressione all’integrismo. Ma è stato facile rispondere che la laicità non
vuol dire
sterilizzare o nascondere la fede, che le società hanno anche
una causazione ideale, e che l’ordine stabilito e fissato nel diritto ha
bisogno di un punto di vista esterno che lo critichi per essere continuamente
superato. Fare appello a dei mondi ideali, e anche alla fede, non è integrismo,
ed anzi crea un potenziale di laicità perché non accetta che le cose siano
semplicemente come sono. C’è un’anima nel diritto. La nostra Costituzione
è una cosa laica e profana, ma ciò non toglie che sia impregnata di valori
cristiani. Il fatto
che essa dichiari la Repubblica fondata sul lavoro, realizza il rovesciamento
cristiano dei servi in signori. Il
fatto di mettere al centro di tutto la persona umana, vuol
dire che nulla può essere anteposto all’uomo, immagine di Dio; dire che la Repubblica
rimuove gli ostacoli, anche economici e sociali, che impediscono alla vita di
realizzarsi come umana, vuol dire vincolare il potere non solo alla giustizia, ma
alla misericordia, e l’aver affermato, all’art. 8, la libertà non solo della
Chiesa ma di tutte le confessioni religiose, vuol dire avere anticipato il
pluralismo religioso proclamato dal Concilio.
Questo fa si
che i cattolici sentano la Costituzione come un patrimonio loro, che ricordino
con gratitudine i migliori di loro – De Gasperi, Moro, Dossetti, La Pira,
Lazzati, Angela Gotelli – che l’hanno scritta insieme a Togliatti, Nenni,
Basso, Calamandrei, Teresa Mattei. Questo fa sì che non l’abbiano mai
considerata in contrasto con il Vangelo. Un’antitesi come quella enfatizzata da
Renzi – ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo – è una sorpresa per il
cattolicesimo italiano.
Tutto ciò spiega
perché in questa campagna referendaria i cattolici del No siano scesi in campo
per difenderla, per impedire, come hanno scritto nel loro appello, che se ne
faccia strumento di una democrazia dimezzata.
Questo però
non ha nulla a che fare con una mitizzazione o sacralizzazione del testo
costituzionale. La sorpresa invece è che la sacralizzazione è venuta dall’altra
parte. Cambiare la Costituzione è presentato come un dovere sacro, sacra è la
sua immolazione. Sul Sì alla riforma Renzi ha deciso di giocare il tutto per
tutto: pancia a terra per sei mesi, ha detto ai suoi del partito, diecimila
banchetti per raccogliere le firme in tutta Italia, un esercito di attivisti
che vada di porta in porta; e se il Sì non vince, ripete, me ne vado, rinuncio
alla carriera politica; perché non posso andare in TV e dire: non abbiamo
vinto, ma i Sì sono arrivati al 45%. Senza il plebiscito, non rimane.
Ebbene, su
questa scommessa, su questo gioco d’azzardo che si è voluto imporre al Paese,
occorre porsi alcuni quesiti e poi prendere delle decisioni politiche. Non
parlo qui delle decisioni politiche che devono prendere i partiti, parlo delle
decisioni politiche che dobbiamo prendere noi, cioè che deve prendere il popolo:
è lui infatti in questo momento l’unico sovrano, perché non c’è più la
sovranità di un Parlamento delegittimato come non rappresentativo da una
sentenza della Corte, ed è in qualche modo sospesa la sovranità della
Costituzione che è entrata in modalità provvisoria.
La minoranza cancellata
La prima questione
da porsi è se il plebiscito voluto da Renzi è solo un modo ridondante di
partecipazione alla campagna referendaria, o se rivela già la sostanza di ciò
che sarà la nuova
Costituzione.
Io credo che
se la Costituzione dice: referendum, e il governo risponde: plebiscito, il
sovvertimento costituzionale è già avvenuto, non c’è bisogno di aspettare per
vedere come funzionerà il nuovo sistema. Quello che entra in funzione è infatti
un sistema in cui le minoranze non sono previste. Non si tratta del fatto che
siano battute politicamente, ma del fatto che dal potere siano messe fuori del
sistema, come non esistenti e non pervenute.
Che cosa dice
infatti l’art. 138 della Costituzione? L’articolo 138 dice che se la
maggioranza assoluta dei due rami del Parlamento cambia la Costituzione senza
raggiungere però i due terzi dei voti, la minoranza, ovvero una minoranza di
parlamentari, di Regioni o di cittadini, hanno ancora una possibilità per
opporsi attivando un referendum per l’accettazione o il rifiuto della riforma.
E’ chiaro dunque che il referendum costituzionale è un’arma che dalla
Costituzione è messa in mano alle minoranze, in modo che sulle nuove regole
possano davvero giocare tutte le loro carte le diverse parti del Paese. Ma se
la maggioranza, per di più eletta con la legge che sappiamo, dopo aver dominato
il Parlamento, gioca anche la seconda parte in commedia, mettendosi al posto
della minoranza e trasformando il referendum predisposto ad uso della minoranza
in plebiscito ad uso del governo, ciò significa che nella concezione della
democrazia della nuova Costituzione, la minoranza non c’è.
Del resto non
solo in questo nella campagna elettorale di Renzi già si rivela la nuova Costituzione:
diecimila comitati, mille professori, la TV tutta per lui ed i suoi, gli altri
ridotti al silenzio, chi non è con lui non è un vero partigiano, non è un vero
professore, non è un vero cittadino; la democrazia di questa Costituzione è la
democrazia in cui chi è più gonfio pretende ed esercita tutto il potere; non
finisce solo una Camera, ne finiscono due.
Il potere come idolo
La seconda
questione ci porta a chiederci perché di questa modifica costituzionale si è
voluto fare una specie di santo Graal, cioè un assoluto. E come se da questi
nuovi cinquanta articoli della Costituzione dipendesse il destino della terra,
il destino degli italiani e naturalmente il destino del presidente del
Consiglio. C’è la mitizzazione di questo evento. Non era mai successo, neanche
quando la Costituzione fu scritta, che le alternative del dettato
costituzionale venissero sacralizzate, presentate come irrinunciabili dall’una
o dall’altra parte, benché i costituenti non fossero certo agnostici ma
cattolici o comunisti o socialisti o liberali.
Ma ora
l’idolo è saltato fuori, e non nel campo di quanti difendono la Costituzione
del ’48 ma nel campo di quelli che la vogliono rottamare. L’altare all’idolo è
la rottamazione stessa. Non ci sarebbe cosa più importante di questa: ce lo
chiede la gente – dicono – ce lo chiedono i mercati, ce lo chiede l’Europa,
basta un Sì e poi l’Italia riparte; e a questo supremo ideale tutto deve essere
sacrificato, non solo i duecento senatori, non solo il Senato, non solo il
pluralismo della rappresentanza immolato sull’altare dell’Italicum, ma la stessa carriera politica del riformatore, il suo destino
politico e quello della sua squadra. Se non si vince, a ottobre si va via. Il
sacrificio sarà compiuto. E poi, sottinteso, verrà la notte.
Perché questa
drammatizzazione? Perché questo assoluto messo in alto come posta in gioco
della partita? Perché questa sacralizzazione dello scontro? Perché questo
sacrificio?
Se la riforma
fosse la piccola riforma che si vuol far credere, se fosse solo qualche milione
risparmiato per Palazzo Madama, la casta un po’ più leggera, una fiducia in
meno e un po’ di fretta in più, questa messa in scena non sarebbe credibile.
Ci deve
essere di mezzo qualche altra cosa, ci deve essere quello che il No teme:
l’arresto del ciclo della democrazia costituzionale
inaugurato nel ‘900, il ritorno a statuti di tipo
autoritario, poteri economici non vincolati da Stati di diritto, mercati non
più turbati dalla contestazione delle utopie politiche, la chiusura del cerchio
della globalizzazione monetarista. Insomma il potere nella sua versione
postmoderna, postilluminista e postrivoluzionaria.
Se la posta
in gioco è questa, la drammatizzazione sacrificale è del tutto comprensibile.
Ciò che è
meno spiegabile è perché gran parte del mondo politico e culturale italiano se
ne sia fatta contagiare, cedendo ad una sorta di fatalismo costituzionale che
non ha alcuna giustificazione.
E come se ci
fosse una tacita accettazione del fatto che Renzi appartenga al nostro futuro,
come se egli fosse stato tessuto dalle Parche nel nostro destino, sicché scatta
un principio di fatalità, per il quale si dice che la nuova Costituzione
è sbagliata, o addirittura orribile, e tuttavia bisogna votarla, perché è
meglio di niente e perché oggi non ci sarebbero alternative. Naturalmente non è
vero, ma questa è la posizione espressa in tutti i format televisivi da molti intellettuali e politici, a cominciare da
Cacciari; anche la Civiltà cattolica
sembra più intimidita che persuasa.
Le alternative ci sono
Se così
stanno le cose quali sono le decisioni politiche da prendere?
La prima è di
votare No nel referendum costituzionale senza tenere affatto conto di qualsiasi
cosa Renzi dica del proprio futuro. E ciò per tre ragioni.
La prima è
che per quanto possa essere importante la sorte politica del presidente del
Consiglio e del governo, la Costituzione è più importante. Essa non è una
variabile dipendente dalle incognite di vita del governo pro tempore, e merita di essere oggetto di una scelta in sé
espressa con un Sì o con un No senza riserve mentali.
La seconda è
che quanto è annunciato da Renzi sulla sua decisione di lasciare la vita
politica se perde nel gioco d’azzardo referendario, non è attendibile, perché
Renzi non ci ha abituato a credere alla verità dei suoi annunci.
E la terza
ragione è che le cose andranno in tutt’altro modo: Renzi non se ne andrà affatto di sua volontà,
altrimenti non avrebbe sacrificato la sua vita al potere. Se sconfitto al
referendum, Renzi presenterà le dimissioni al capo dello Stato ma senza aver
avuto una sfiducia del Parlamento, e aspettandosi perciò che il presidente
della Repubblica lo mandi alle Camere per la verifica; ciò rimetterebbe Renzi
in gioco e consegnerebbe la decisione al Partito Democratico e ai suoi alleati
e clienti, se gli altri non si muovono.
L’altra
decisione politica da prendere è su ciò che dobbiamo fare dopo il referendum. Ciò
che il popolo sovrano deve stabilire è che non è vero affatto che non ci siano
alternative, ma che siamo noi stessi che le dobbiamo determinare.
Certo in un
sistema giunto già a questo grado di desertificazione della democrazia, è
difficile vedere alternative già pronte. Ma la decisione da prendere è appunto
di ripopolare il deserto, di ripiantare gli alberi divelti, di irrigare le
terre inaridite, il che vuol dire il ritorno dei cittadini alla politica, la reinvenzione
dei partiti o di altri strumenti di partecipazione e di intervento,
l’attivazione di nuovi coinvolgimenti di classi e culture diverse, la creazione
di laboratori, scuole e centri di formazione politica; vuol dire riconoscere
che un ciclo si è chiuso ma solo perché se ne deve avviare uno nuovo; ma per
questo occorre rimettersi in movimento, pensare cose non ancora pensate ma
anche osare cose già pensate e non attuate. Non è vero infatti che in questi
anni si sia fermata la riflessione, siano
mancate l’analisi e le proposte di nuove prospettive politiche e costituzionali;
basta pensare agli sviluppi della teoria del diritto e della democrazia di
Luigi Ferrajoli, che già hanno avuto importanti influenze in America Latina. Si
tratta di rifondare la democrazia, dare nuove regole al potere, dare nuovi
diritti e compiti ai cittadini, sapendo, come diceva Dossetti alla fine della
sua vita, che “la crisi globale nella quale siamo immersi non può guarirsi in
pochi anni o con qualche trovata di qualche sistema elettorale, può guarirsi
con un grande sforzo collettivo di rieducazione e di riattivazione di tutto il
tessuto sociale, prima che dell’espressione politica”.
Questo è il
significato, ma anche il programma d’azione, del nostro No nel referendum.
Raniero La Valle
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