Il disagio
del Prefetto Ratzinger prima, e del Papa Benedetto poi, rispetto al Concilio
Vaticano II, la contraddizione irrisolta che forse lo ha portato all’abbandono,
si sono giocati proprio sul rapporto del Concilio con la modernità. Il Papa ha
riconosciuto nel suo primo discorso alla curia del Natale 2005, che su quel punto nel Vaticano II si
era prodotta una vera discontinuità; ma questo riconoscimento entrava in
conflitto con lo schema dell’interpretazione del Concilio sotto il segno della
continuità, contro l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che in
quello stesso discorso Benedetto XVI prescriveva come unico canone di
interpretazione ammissibile.
Come egli
stesso sottolineava il cambiamento operato dal Vaticano II nel rapporto tra la
Chiesa e il mondo moderno, aveva investito tre ordini di problemi: riguardo alla scienza moderna
(mai più contro Galileo), riguardo allo Stato moderno (mai più pretenderlo come
confessionale), riguardo al rapporto con le altre religioni (mai più negare la
libertà di religione, mai più considerare le altre religioni come maledette da
Dio). Il Papa non era però per nulla persuaso di come il Concilio aveva
affrontato tale questione, e in un inedito pubblicato dall’Osservatore Romano l’11 ottobre scorso, annotava che “per
chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale
e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello Schema XIII. Sebbene la Costituzione
pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del mondo e dia rilevanti contributi sulla
questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un
chiarimento sostanziale”.
Di fatto il Papa non ha retto alla prova
di queste tre modernità con cui si era riconciliata la Chiesa
del Vaticano II. Alla scienza ha riproposto un limite, quello della verità non
sperimentalmente accertabile, di cui resta depositaria la Chiesa. Allo Stato
moderno ha rimproverato che le Costituzioni e le maggioranze non gli forniscono
moralità, e nei dialoghi con Habermas e nei discorsi alla cultura laica ha
fatto propria la tesi del costituzionalista tedesco Böckenförde, secondo cui
“lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da
solo, non può garantire”. Riguardo al rapporto con le religioni ha detto al clero di Roma che un credente non può considerare le
altre religioni “come una variante di un unico tema”, e quando ha riunito i
rappresentanti di tutte le fedi ad Assisi, li ha accolti come interlocutori sul
piano culturale ed etico, ma ha voluto che ognuno da solo nella sua stanza
invocasse il suo Dio.
E tuttavia il Papa ha
posto un problema reale: perché è chiaro che attraversiamo una crisi di
civiltà, che tutte le vecchie certezze sono cadute e che secolarizzazione e
globalizzazione sembrano consegnarci un mondo di iene. Ma è proprio a questo
mondo che bisogna annunciare il Vangelo, e il problema della Chiesa è che non
può scegliersi il suo tempo, né l’età che le sarebbe più congeniale.
È un peccato che papa Benedetto
abbia vissuto una Chiesa e un mondo che abitavano in tempi diversi, perché nel
contempo egli ha posto gesti potentemente moderni. Il primo è stato proprio
quello di un papa che può tranquillamente dimettersi. Ma altri ne ha compiuti,
e proprio nell’ordine della fede, come quando ha firmato il documento teologico
romano in cui si faceva cadere la pia favola del Limbo e si ammetteva che i
bambini morti senza battesimo fossero accolti in paradiso, perché Dio ha vedute
più larghe delle dottrine che sostenevano che senza l’acqua del sacramento
nessuno potesse accedere alla vita divina e che fuori della Chiesa visibile non
c’è salvezza.
Un altro potente gesto
di demitizzazione papa Benedetto lo ha posto quando ha riletto la storia del peccato di Adamo nella
Genesi come un racconto simbolico derivante dai miti della cultura sumera, dove
il serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità da cui
era tentato Israele, e quando ha detto che San Paolo, rivisitando quei testi,
non avrebbe neanche parlato del peccato di Adamo se non fosse stato per mettere
in luce la sovrabbondanza della grazia liberatrice di Cristo. E così, letti i
racconti della creazione non come una specie di storia delle origini, ma come
un messaggio religioso da comprendere in termini simbolici e cristologici,
veniva confermata la realtà e il contagio del peccato, fin dall’inizio
riscattati dalla grazia divina (e “peccato originale” era messo tra virgolette),
ma anche si toglieva dalle spalle dell’uomo di oggi il fardello di un destino
per il quale anche la morte sarebbe per colpa sua, il lavoro sarebbe una pena
da scontare con sudore, la terra coltivata dovrebbe restituire cardi e spine, i
parti sarebbero puniti col dolore e la sessualità sarebbe sotto la schiavitù
della concupiscenza. La vera modernità veniva perciò a coincidere con una legge
non della condanna ma dell’amore, l’uomo era rimesso sui suoi piedi e le
antropologie pessimistiche e sacrificali su cui l’Occidente aveva costruito
tutte le sue istituzioni a cominciare dallo Stato, potevano essere rovesciate.
Un altro atto
modernamente promettente il Papa ha compiuto quando, pur se spinto da intenti
di restaurazione, ha richiamato in vita e reso facoltativo nella Chiesa il
vecchio messale romano accantonato e anche trasceso dal Concilio; infatti così
facendo il Papa ha rotto l’assioma secondo cui c’è un solo modo di credere e un
solo modo di pregare, ha legittimato la pluralità delle liturgie e dei riti, e
ha fatto intravedere da lontano una Chiesa unita non nell’uniformità, ma nella
varietà delle culture, dei mondi vitali e delle tradizioni etiche.
Quello che il Papa
lascia al suo successore è dunque una crisi: perché è difficile attraversare
questo passaggio. Il suo merito è di non averla nascosta nel trionfalismo di un
Papa con le piazze piene e le chiese vuote. La Chiesa deve trovare la sua
strada per poter ricominciare ad annunciare Dio e il suo vangelo nel nuovo
ateismo della modernità.
Raniero
La Valle
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