E che cos’altro deve essere un
papa se non un confessore della fede? Questo ha detto Francesco nella sua prima
omelia ai cardinali nella cappella Sistina: di essere tutti lì, vescovi, preti,
cardinali, papa, per nient’altro che per professare la fede in Cristo, e questo
crocefisso. Ed ecco allora che si scompaginano tutte le previsioni e le
speculazioni della vigilia, su ciò che avrebbe scelto il Conclave, se un papa
dell’una o dell’altra fazione della Curia, se un papa diplomatico o politico,
uno che avrebbe riportato la disciplina nel clero o che avrebbe risolto il
problema dello IOR. Ecco che arriva un papa che di fronte a una Chiesa
tormentata ed in crisi, e dopo tante riforme sognate e fallite dice: ricominciamo
dalla fede.
Ed allora si capisce perché si è
presentato al balcone non come il nuovo Sommo Pontefice dato al mondo, ma come
il nuovo Vescovo dato alla comunità diocesana di Roma, si capisce perché ha
indicato, come suo primo collaboratore, il cardinale vicario di Roma e non il
segretario di Stato; si capisce perché al papa che lo aveva preceduto si è
rivolto come al “vescovo emerito” di Roma, e si capisce perché prima di
benedire il suo popolo, ha chiesto al suo popolo di benedirlo, e si è inchinato
davanti a lui: un gesto che poteva pure essere mostrato per televisione in
tutto il mondo, ma che raggiungeva la sua verità solo in quel silenzio, in quel
guardarsi, in quel rapporto fisico immediato, in quella piazza, in quella
città, del vescovo con i fedeli della sua Chiesa. Perché se il problema è la
fede, ebbene la fede ha bisogno di un rapporto tra le persone, reale e non
virtuale, ha bisogno di gesti condivisi e comuni, non si può trasmettere per
procura, o riempiendo piazze straniere e fuggendo subito dopo, o scrivendo
libri ed encicliche. Certo, anche Paolo scriveva le lettere. Ma poi andava a
visitare e a confermare le Chiese, e per tornare a Gerusalemme ci ha messo
quattordici anni. Per questo il papa non è un vescovo titolare dell’universo mondo,
ma è il vescovo di Roma, ed è mediante tale Chiesa che presiede nella carità
alle altre Chiese.
Sicché già nei primi gesti del
nuovo papa si sono delineate delle importanti novità istituzionali.
Anzitutto con la scelta del nome.
Se Angelo Roncalli, quasi a volersi nascondere tra un gran numero di testimoni,
aveva scelto un nome che era stato assunto da una lunga serie di papi così da
essere il ventitreesimo di loro, Jorge Mario Bergoglio ha preso un nome che è
unico in tutta la storia della Chiesa. Nessun papa aveva osato chiamarsi
Francesco. Non solo perché sarebbe stata imbarazzante l’opulenza pontificia in paragone alla
povertà di cui quel nome è segno, ma perché fin da quando si erano trovati di
fronte Innocenzo III e Francesco di Assisi, Francesco e il papa sono stati
vissuti nella Chiesa come due archetipi, come due figure diverse dell’essere
cristiano, come un’antitesi tra istituzione e profezia, tra l’umile Canto delle Creature e la
pretesa della sottomissione al Romano Pontefice di ogni umana creatura.
Un papa pertanto non può
chiamarsi Francesco se si limita a gesti di sobrietà e povertà, e non basta che
abbandoni la mozzetta rossa e il rosso delle scarpe che alludono alla porpora
della clamide e delle altre insegne imperiali trasmesse al pontefice da
Costantino; non basta questo e nemmeno che vada in autobus o si cucini da sé
(questo tutti noi lo facciamo), se non fa sua la povertà di Francesco come
realtà teologale, come testimonianza di un vangelo “sine glossa” che parla di
un Dio che da ricco si è fatto povero, di un onnipotente che ha preso la figura
del servo, di chi era nella forma di Dio e si è svuotato fino alla morte, e
alla morte di croce. Perciò questo nome è in realtà un programma di riforma
della Chiesa.
E’ da cinquant’anni del resto,
che la Chiesa ci prova, ad “aggiornarsi”, dall’inizio del Concilio Vaticano II.
Dapprima il cambiamento fu avviato da un papa, poi fu continuato dal Concilio,
adesso di nuovo potrebbe essere promosso da un papa. Ma lo scrigno del
cambiamento è lì, nel Concilio che c’è già stato ed è stato messo in
quarantena, e se ora la quarantena finisse, non ci sarebbe bisogno di
aspettarne un altro.
Una novità istituzionale è anche
che sia diventato papa un gesuita. Neanche questo era mai successo. E anche qui
sono stati smentiti i rumori della vigilia. Ci si chiedeva se sarebbe stato un
papa dei movimenti o della Curia, di Comunione e Liberazione o di Sant’Egidio.
Ed ecco un papa che non rinvia a una Chiesa di movimenti, ma a una Chiesa di
comunità cristiane comuni, non identitarie, e alla Chiesa dei grandi Ordini
religiosi. Ed un significato specifico ha proprio il fatto che si tratti di un
gesuita dell’America Latina, che sia diventato papa bianco un religioso della
congregazione del “papa nero”. Tra i gesuiti e la Santa Sede, e in particolare
Giovanni Paolo II, si è consumato infatti un dramma nella Chiesa
postconciliare, con epicentro
proprio in America Latina. I gesuiti, che sono stati tra i primi
evangelizzatori di quel continente, fecero propria la scelta preferenziale dei poveri proclamata dai vescovi a
Medellin, e poi si impegnarono nella teologia della liberazione, che Roma
accusava di marxismo. Tra il 1973 e il 2006 48 gesuiti subirono per la loro missione una morte violenta:
tra questi Padre Ellecuria e i gesuiti dell’Università del Salvador, Rutilio
Grande, preannuncio dell’uccisione di mons. Romero. Ma tra Padre Arrupe, il
generale, e Giovanni Paolo II ci fu una vera rottura, tragica per un gesuita stretto
da un duplice voto di obbedienza, a Dio e al papa. Quando Arrupe fu eletto
segretario della Confederazione mondiale degli ordini religiosi, il papa si
rifiutò di riceverlo. Con questo dolore Padre Arrupe si ammalò e morì.
In questo aspro travaglio, le
notizie che si hanno della parte che vi ebbe Bergoglio, non ancora vescovo,
sono che egli non si schierò, ma preferì, come suo modo di vivere il dramma,
ritirarsi nell’ascesi e nella preghiera. Certo, se è noto come “conservatore”,
è anche perché fu contrario alla teologia della liberazione; ed è questa la
ragione per cui oggi, tra gli esponenti di quel movimento, c’è una discussione
sul come prendere la sua elezione al papato.
La biografia del papa è diventata
così oggetto dell’attenzione dei media,
anche perché è una biografia argentina, dipanatasi in un Paese che per anni è
stato violentato dalla dittatura militare in nome della “sicurezza nazionale”; in
quella “piazza di maggio” su cui si apre la cattedrale si è ogni settimana
gridato il dolore delle madri e delle nonne di cui erano stati fatti sparire
figli e nipoti, e non sempre gli uomini di Chiesa fecero le scelte giuste. Lui
forse le fece, se da quel profondo Sud del mondo è giunto fin qui accompagnato
da uno straordinario amore della sua gente, ed ora i suoi gesti sono capaci di
scatenare un così grande consenso popolare. Però non è indagando la sua
biografia che sapremo come farà il papa. E non perché la biografia di una
persona non contenga già quello che sarà il suo futuro, ma perché la biografia di
un papa si comprende solo a partire dal modo in cui sarà stato papa. Così fu
per papa Giovanni, tanto sconosciuto che sentì il bisogno di presentarsi lui
stesso; nessuno avrebbe indovinato dalla sua lunga storia ecclesiastica che
papa sarebbe stato, e forse proprio per questo fu eletto; addirittura si parlò
di un “mistero Roncalli”, per dire che non si sapeva da dove era uscito. Poi si
capì che papa Giovanni era uscito dal nucleo più profondo della fede, prima di
ogni sua differenziazione dottrinale e linguistica, era uscito dalla quotidiana
scrittura del suo “giornale dell’anima” e da un aggiornamento indefesso della
sua pietà tridentina; era uscito dalla saggezza del suo mestiere di storico,
che gli aveva appreso la relatività delle cose della storia e della stessa
storia ecclesiastica, e dall’esperienza di aver visto in Turchia come di Chiese
venerabili, che erano state madri di tutte le Chiese, non fosse rimasta pietra
su pietra. Così è stato anche per papa Benedetto di cui alla fine, grazie al
suo gesto di rinunzia, si è capito molto di più dell’umiltà e della libertà di
cui era fatta la sua vita.
Per la Compagnia di Gesù, che non
fu capita a Roma, che non potè vedere Martini papa, l’elezione del gesuita
latino-americano è in un certo senso una riparazione e una festa. E’ una
contraddizione che viene composta, una ferita che si risana, una fiducia che si
ristabilisce e che, come ha detto papa Francesco, è il dono che ci dobbiamo
fare l’un l’altro.
Sicchè in molteplici direzioni
questo pontificato sembra proporsi nel segno di ricomposizioni, di riconciliazioni,
di nuove circolarità e nuovi legami nella Chiesa. A cominciare dalla nuova
circolarità che Francesco vuole stabilire tra papa, vescovi e popolo; nella
speranza che quella tra papa e vescovi giunga fino a forme effettive di
collegialità, così sollecitate dal Concilio e così disattese dopo di esso; e
nella speranza che la circolarità tra vescovi, clero e popolo si stabilisca sul
modello prefigurato da Francesco nel suo primo incontro col popolo romano; non
tanto come rapporti tra padri e figli, tra maestri e discepoli, tra membri di
Chiesa disposti in scala gerarchica, ma come rapporti tra fratelli e sorelle,
tra titolari di diversi ministeri e carismi dotati della stessa dignità e tra
discepoli che sono alla scuola di uno stesso e unico maestro e reciprocamente
si educano all’ascolto della Parola. Un tipo di rapporto che proprio a Roma era
stato inaugurato da un altro grande papa, Gregorio Magno, la cui festa
ricorreva proprio nel giorno, 12 marzo, in cui è iniziato il Conclave. Gregorio
infatti aveva stabilito questa circolarità, nell’ascolto e nel reciproco aiuto
a comprendere e a interpretare la Parola perché, come aveva detto ai fedeli che
ascoltavano e interloquivano nelle sue omelie (cosa che oggi sarebbe strettamente
proibita dalla Congregazione per il culto divino) anche voi siete “organi della
verità”. “So infatti che per lo più molte cose nella Sacra Scrittura che da
solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei
fratelli”. E la circolarità consisteva in questo, che “il senso cresce e
l’orgoglio diminuisce, quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno, e
con voi ascolto quello che dico”.
Se sarà questo papa Francesco,
davvero non sarà solo un vescovo venuto a Roma dal fondo del mondo, ma sarà un
vescovo dell’altro mondo, altro nel senso in cui si dice che un altro mondo è
possibile, una Chiesa altra è possibile.
Raniero La Valle
Nessun commento:
Posta un commento