(dal Manifesto 20/03/2013)
Non ha fatto il “discorso
dell’incoronazione” come si diceva una volta del Papa che salendo sul trono
enunciava il programma del suo pontificato; e non lo ha fatto semplicemente
perché non c’è corona e non c’è trono, di cui sono ormai caduti anche gli
ultimi orpelli. Non che il successore di Pietro, ha detto Francesco nella sua
omelia, non riceva con la sua elezione anche un potere; ma è il potere di
pascere, cioè soprattutto di nutrire, e custodire, il gregge di Dio, fino a
dare la vita per lui; e questo potere non si può declinare in nessun altro modo
che come servizio.
Messe così le cose, papa
Francesco non ha voluto fare del suo discorso in piazza San Pietro, dinanzi a
una comunità diocesana sempre più pronta all’ascolto, dinanzi a fedeli giunti
da tutto il mondo, dinanzi al Patriarca di Costantinopoli, ai vescovi ed
esponenti di molte Chiese e ai potenti della terra, il “pezzo forte” di questi
primi giorni del suo pontificato. Ha fatto semplicemente l’omelia della Messa.
Ha spiegato il Vangelo, raccogliendo idealmente la consegna del suo
predecessore, Giovanni XXIII, che nel “Giornale dell’anima” aveva scritto: ”Al
di sopra di tutte le opinioni e i partiti, che agitano e travagliano la società
e l’umanità intera, è il Vangelo che si leva. Il Papa lo legge, e coi vescovi
lo commenta…” e che morendo aveva detto: “Non è il Vangelo che cambia, siamo
noi che cominciamo a comprenderlo meglio…” .
Tra le cose che cominciamo a
comprendere meglio, ce ne sono due profondissime che Francesco ha voluto dirci.
La prima è che dobbiamo custodire la terra, con tutte le sue creature. E questo
lo aveva capito anche San Francesco. Ma questa custodia precede l’essere
credenti di qualsivoglia religione, è un compito dell’umanità come tale, il
che, nella cultura di un papa vuol dire che Dio ha messo l’opera delle sue mani
nelle mani degli uomini e delle donne come tali, e non solo di quanti credono
in lui. Il mondo precede la
Chiesa.
E la seconda cosa è che bisogna
non avere paura dell’amore e della tenerezza che lo esprime. Come mai, per
prima cosa, il nuovo papa ha fatto questa esortazione che sembra così bizzarra?
Noi abbiamo paura della cattiveria, dell’odio, delle divisioni, delle minacce,
dell’inimicizia da cui cerchiamo di difenderci in tutti i modi, ma chi ha mai
pensato che si potesse avere paura della bontà, dell’amore? Invece è proprio
così. Moltissimi ne hanno paura. Perché l’amore è un lavoro, un cimento,
l’amore va osato. Esso non è un dono innocuo. Ti mette in questione, ti
impegna, ti cattura, ti cambia. E siamo in molti che non vogliamo essere
cambiati. Cambiare è una fatica. Cambiare abitudini forse è facile. Cambiare
vita è ancora possibile. Ma cambiare mente – che è poi una conversione - è la cosa più difficile. Così queste parole
di papa Francesco ci rassicurano, perché vuol dire che conosce l’animo umano.
In tal modo si sta completando il
disegno di quello che potrà essere questo pontificato. Il sogno di una Chiesa
povera e per i poveri lo ricollega al sogno di una “Chiesa di tutti e
specialmente Chiesa dei poveri”, che papa Giovanni proclamò nel suo
radiomessaggio un mese prima del Concilio. Si tratta di un sogno, non di un
progetto che il papa può eseguire, perché non basta un papa a fare la Chiesa. La vera povertà, non
nel senso pauperistico o dei rigorismi petulanti degli zelanti, ma nel senso
della spoliazione dalla “mondanità spirituale”, non è un papa da solo che la
può dare alla Chiesa, è tutta la
Chiesa , ognuno per la sua parte, che la deve abbracciare.
Certo il Papato deve metterci del suo, perché nella riforma della Chiesa è
necessaria anche un’autoriforma del Papato, che in tutto il secondo millennio
aveva tentato di costruirsi come il supremo potere terreno, dalla
rivendicazione di Gregorio VII del potere di deporre imperatori e vescovi, alla
lotta antimodernista di Pio X; ed è a causa di questo che la Chiesa ha mancato il suo
appuntamento con la modernità, e si è trovata in una situazione critica di
autismo e di incomunicabilità con gli uomini del nostro tempo. Per questo si
fece il Concilio del Novecento; da allora sono passati cinquant’anni nei quali
quel Concilio ha subito una sorta di quarantena e ha conosciuto i conflitti, le
mormorazioni, le infedeltà, le frustrazioni di una traversata nel deserto.
Però questo tempo che ci separa
dal Concilio non è stato vissuto nello stesso modo nelle stanche Chiese europee
e nella Chiesa dell’America Latina, che è la Chiesa di mons. Romero, della teologia della
liberazione, di padre Ellacuria e degli altri 47 gesuiti caduti sotto la
violenza per la loro testimonianza alla fede, la Chiesa dei contadini poveri
che si “coscientizzavano” leggendo il vangelo sotto gli alberi, senza neanche
un prete, la Chiesa che talvolta è stata
debole nella fede e nella resistenza ai tiranni, ma che ha prodotto quella
straordinaria preghiera di pentimento e di denuncia della “violenza contro le
libertà, nella tortura e nelle delazioni”, che il vescovo Bergoglio ha fatto
pronunciare il 10 settembre del 2000
a tutti i vescovi argentini.
Ma ora un tempo finisce, e un
altro comincia. Ed ecco vediamo che l’arco di tempo che ora si chiude, poggia
su due pilastri identici, che si richiamano e si confermano l’un l’altro, e
sono i pilastri del privilegio dei poveri: la Chiesa dei poveri invocata da Giovanni XXIII, la Chiesa povera e per i
poveri sognata da papa Francesco. Si tratta del sogno di un nuovo destino per i
poveri di tutta la terra che non solo un papa, non solo una Chiesa, non solo i
grandi presenti a quella messa, ma tutti i custodi, non impauriti dall’amore,
sono chiamati a realizzare.
Raniero La Valle
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