mercoledì 6 maggio 2009

CON OBAMA PRIGIONIERI NELLA GUERRA DI BUSH

di Raniero La Valle
(su Liberazione del 5/5/2009)

La bambina afghana uccisa domenica scorsa a Herat è un segnale potente, perché nella sua forza simbolica ed evocativa non induce solo alla pietà, ma alla decisione: la decisione sulla guerra in generale, e sulla guerra in Afghanistan in specie.Dicono che è stato solo un incidente, che è scattato quando i due veicoli si venivano incontro; ma ci vuole la guerra perché uno scontro tra veicoli abbia le forme di uno scontro a fuoco, e anzi, come già accadde per Calipari, di un tiro al bersaglio. Dicono che non è stato fatto apposta, ed è certo; e anzi - ci tengono a precisare i comandanti - sono state seguite tutte le procedure: ma ci vuole una guerra, e un esercito in terra straniera, perché regole scrupolose e procedure ben osservate portino a far morire col viso spaccato i bambini, e a spedire insanguinata tutta una famiglia che viaggia in automobile all’ospedale.Proprio perché è stato solo un incidente, proprio perché sono state osservate le appropriate procedure, la tragedia di Herat dice che la presenza militare straniera in Afghanistan è di per sé letale, è di per sé fonte di disordine, di paura e di dolori, e perciò è in contraddizione con tutte le motivazioni virtuose che i nostri governi hanno dato di una missione militare che sarebbe stata mandata lì per il bene supremo del popolo afghano.La decisione da prendere è che il solo modo di aiutare l’infelice popolo afghano è di togliergli la guerra e l’invasione. Rimarrebbero i talebani? E chi ha mai avuto un progetto serio per allontanarli?In effetti la premessa di ogni sana decisione sarebbe oggi di riconoscere la vera motivazione della guerra, che è stata una vendetta per l’11 settembre: Bush ne aveva bisogno, per non vedere naufragare sul nascere il sogno del “nuovo secolo americano”: niente di razionale in ciò, la vendetta non è una politica, eppure tutti gli sono andati indietro, a cominciare dal nostro stolido governo. Se ora si vuol correggere la deriva in atto, bisogna risalire fin lì, per ripartire in tutt’altra direzione. È chiaro che non è una cosa che possiamo fare noi; ma dovrebbe farlo l’Europa, e farlo fare agli Stati Uniti, nel quadro di un’alleanza non più succube e complice, ma responsabile e creativa.La situazione oggi è rovesciata. Bush aveva bisogno della guerra, prima in Afghanistan, poi in Iraq, per andare avanti col progetto di ordine imperiale mondiale concepito dalla destra americana che lo aveva messo al potere. Obama invece trova nell’invasione dell’Iraq e nella guerra afgana l’ostacolo principale per poter perseguire il suo progetto opposto di un mondo ricomposto nella multilateralità, nel rispetto reciproco e nel diritto. Ma se Barak Obama sembra aver trovato la forza per il ritiro dall’Iraq, e per la chiusura di Guantanamo, è invece prigioniero nel campo minato dell’Afghanistan, e non può uscirne senza giocarsi tutto, ragione per cui ha preso su questo punto la posizione più arretrata fra tutte quelle assunte fin qui.Ma è proprio qui che potrebbe incontrare l’Europa, un’Europa che ritrovasse una sua vera funzione mondiale, non più nel dominio ma nell’alta lezione civile di una ricerca in comune di un ordine di pace. Questa Europa dovrebbe essere la sponda privilegiata del tentativo di rinnovamento del presidente americano, e offrirgli partnership e aiuto nella sua lotta contro le potenti forze, interne ed esterne all’America, che vorrebbero fermarlo. Esse si oppongono al disegno neo-wilsoniano di Obama, perché preferiscono, per possederlo, il mondo selvaggio di prima, e anzi di adesso.Il mondo selvaggio di oggi non è solo quello nel quale i bambini sono uccisi dai bravi soldati. È anche quello in cui prosperano i talebani, e tutti i signori della guerra, e i governanti corrotti, e i miscredenti integralisti e misogini che oggi affliggono l’Afghanistan. Ma una forte leadership morale, di un’America credibile e di un’Europa solidale, potrebbe far avanzare, assai più rapidamente che con le armi, l’alternativa della laicità e del diritto.

Raniero La Valle

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